Con i referendum Maurizio Landini si sta preparando per la politica?

Da tempo fa molto più che il sindacalista, e il suo mandato da segretario della CGIL scadrà in un momento molto particolare

Maurizio Landini al presidio di protesta davanti alla sede Rai di via Teulada a Roma promosso dalla CGIL per chiedere maggiore visibilità al referendum, il 29 aprile 2025 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
Maurizio Landini al presidio di protesta davanti alla sede Rai di via Teulada a Roma promosso dalla CGIL per chiedere maggiore visibilità al referendum, il 29 aprile 2025 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
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La campagna per i referendum dell’8 e del 9 giugno ha dato una nuova centralità nel dibattito pubblico al segretario della CGIL Maurizio Landini. Sta però facendo riemergere anche molti degli aspetti che rendono assolutamente peculiare, e per certi versi anomalo, il suo modo d’intendere il ruolo di sindacalista, e ha rinnovato dubbi e speculazioni sulle sue ambizioni politiche future.

Se infatti è assai probabile che i referendum abrogativi non saranno validi perché non verrà superato il quorum della metà degli elettori (serve che vadano a votare 25 milioni di persone), è invece possibile che Landini voglia in ogni caso rivendicare il risultato come una sua vittoria. È infatti la prima volta che un sindacato promuove con successo un referendum (ai quattro quesiti sul lavoro voluti dalla CGIL, si è poi aggiunto anche quello sulla cittadinanza sollecitato in particolare da +Europa), e Landini potrà far pesare l’affluenza a suo vantaggio: sostenere, insomma, che tutte le persone che saranno andate a votare l’8 e il 9 giugno costituiscono il bacino di consenso suo personale e del lavoro del suo sindacato.

«Dimostreremo la nostra straordinaria capacità di mobilitazione», ripete Landini, insistendo sulla rinnovata vitalità della CGIL, così da poter dunque affermare il proprio merito storico: in un momento in cui i corpi intermedi sono sempre più in affanno, incapaci di offrire effettiva rappresentanza, lui si proporrà come colui che ha ridato centralità alle istanze dei lavoratori.

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Da questo punto di vista il referendum ha per Landini un valore simbolico che va ben oltre il suo ipotetico effetto concreto, e cioè l’abrogazione di alcune norme sul diritto del lavoro legate per lo più al Jobs Act, l’insieme di riforme sul lavoro promosse dal governo di Matteo Renzi tra il 2014 e il 2016. È chiaro fin dall’inizio: fin dall’assemblea generale della CGIL del 27 febbraio del 2024 in cui fu deciso di «predisporre referendum abrogativi su tre campi: licenziamenti individuali, precarietà del lavoro, appalti».

In quell’occasione e nelle settimane seguenti tra i dirigenti della CGIL ci fu chi osservò che un referendum su quei temi c’era già stato: nel 2003, sull’estensione delle tutele riconosciute dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle aziende con meno di 16 dipendenti. Non raggiunse il quorum, anche per la posizione contraria della stessa CGIL di allora, guidata da Guglielmo Epifani. Qualcuno ricordò inoltre che la CGIL aveva già fatto un tentativo ben più recente di indire un referendum per abrogare alcuni aspetti del Jobs Act, nel 2017, e pure quello era stato fallimentare perché la Corte costituzionale aveva ritenuto illegittimo il quesito promosso dal sindacato, in quel momento guidato da Susanna Camusso.

Elly Schlein, Maurizio Landini e Giuseppe Conte durante la manifestazione per i referendum a Roma del 19 maggio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Landini diede poco peso a queste voci critiche, comunque piuttosto sparute. Ribadì invece la sua convinzione che il referendum, indetto non a caso sull’onda emotiva dell’incidente in un cantiere dell’Esselunga a Firenze, dovesse avere un valore politico: ricucire quella che molti iscritti della CGIL considerano una ferita storica, e cioè il Jobs Act, a prescindere dal fatto che molti degli effetti nefasti che la CGIL aveva previsto quando venne approvato non si sono poi affatto realizzati.

Serviva insomma un emblema contro cui scagliarsi per affermare la necessità di combattere il precariato, il lavoro povero o sottopagato, l’arretramento delle tutele sindacali, la disoccupazione giovanile: è stato individuato anzitutto nel Jobs Act, una legge vecchia di dieci anni.

Del resto Landini interpreta da sempre il suo ruolo di segretario della CGIL, e prima ancora di segretario della FIOM (cioè l’organizzazione dei metalmeccanici della stessa CGIL), come quello di supplente dei partiti di sinistra. Un ruolo più da politico, per così dire, che non da sindacalista. Nella sua ottica, lui dà voce alle istanze che i partiti progressisti hanno smesso di ascoltare.

In questo caso l’ambizione di Landini era ancora più grande. Inizialmente infatti ai referendum sul lavoro era stato associato quello sull’autonomia differenziata, la riforma approvata dal governo di destra di Giorgia Meloni e voluta dal ministro leghista Roberto Calderoli: in questo modo la CGIL sembrava proporsi proprio come una sorta di federatrice del centrosinistra, e indicava le battaglie politiche che avrebbe dovuto sostenere. La Corte costituzionale ha poi fatto decadere il quesito sull’autonomia, compromettendo indirettamente questo obiettivo di Landini. È rimasta però intatta la sua aspirazione a porsi come interlocutore diretto di Giorgia Meloni.

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Così si spiega anche perché l’obiettivo minimo che si è posto sia quello di indurre a votare ai referendum almeno 12 milioni di persone: sarebbe meno della metà di quanto servirebbe per raggiungere il quorum, ma sarebbe anche lo stesso numero di elettori che nell’ottobre del 2022 votarono per la coalizione di destra che sostiene l’attuale governo. Landini, in poche parole, potrà dire a quel punto a Meloni di avere lo stesso consenso tra gli italiani di cui lei gode e su cui di fatto si basa il suo governo.

Un ulteriore indizio: è stata appena pubblicata l’autobiografia di Landini, Un’altra storia, una cosa che in casi del genere si fa spesso quando ci si prepara a intraprendere un nuovo percorso politico.

Resta più difficile capire in che modo, concretamente, Landini vorrebbe provare a capitalizzare l’eventuale buon risultato del referendum. La sua carriera nella CGIL è ormai avviata alla conclusione: nel gennaio del 2027 scadrà il suo secondo mandato, e non potrà più essere rinnovato. Lui del resto non sembra intenzionato ad accettare incarichi onorifici simbolici. La fine del suo incarico di segretario, peraltro, avverrà proprio a ridosso della fine della legislatura: quindi verosimilmente in prossimità delle elezioni politiche.

Una candidatura in parlamento sarebbe il minimo, in questo senso, e sarebbe quasi scontata visto il suo percorso. Già in passato ex segretari della CGIL hanno iniziato una carriera politica: Cofferati, poco dopo la fine del suo mandato, fu eletto sindaco di Bologna; Epifani fu due volte deputato e segretario reggente del PD; Cesare Damiano, dirigente di seconda fascia della CGIL, fu addirittura ministro del Lavoro nel governo di Romano Prodi tra il 2006 e il 2008. E questo solo a voler restare al passato più recente.

Il più recente di tutti questi casi, quello di Camusso, predecessora di Landini e poi eletta senatrice col PD per volere di Enrico Letta nel 2022, è anche il più significativo per Landini. Perché Camusso non nasconde affatto, in occasioni più o meno pubbliche, la sua delusione per questo suo incarico che la vede spesso in conflitto o in polemica col resto del gruppo parlamentare, e in generale piuttosto annoiata. Chi conosce bene entrambi, dice che Landini è un po’ spaventato da questa prospettiva: ritrovarsi a essere un semplice parlamentare, senza grande visibilità.

D’altro canto al momento è difficile ipotizzare concretamente scenari futuri che vedano Landini avere un ruolo di massimo rilievo nel centrosinistra: i rapporti che ha costruito con molti dirigenti di quest’area, a dispetto delle apparenze, non sono affatto idilliaci. Landini non ha mai concepito come prioritario, a differenza di quanto succedeva in passato, facilitare il dialogo e la collaborazione tra la CGIL e il principale partito progressista: un tempo era il PCI, a cui Landini si iscrisse a vent’anni, e ora è il PD, nel cui progetto Landini non ha invece mai creduto granché. Anzi, ha spesso esaltato proprio la sua distanza e la sua differenza dal partito, rimproverandone l’eccessiva cautela sulle questioni del lavoro, l’eccessiva distanza dal sentire popolare, l’eccessiva compromissione con le richieste degli industriali.

È in quest’ottica che negli ultimi anni Landini ha ricercato una collaborazione sempre più stretta col Movimento 5 Stelle, di cui condivide spesso approcci anti establishment e toni populisti, critici nei confronti dell’Unione Europea e dell’Occidente. In varie occasioni – anche su questioni che non hanno diretta incidenza sui diritti dei lavoratori, come la guerra in Ucraina o a Gaza, per esempio – Landini ha anzi esibito questa sintonia con Giuseppe Conte per mettere in luce le presunte timidezze e ambiguità del PD.

Il nuovo corso di Elly Schlein ha in questo senso complicato le cose, per Landini. Da un lato la segretaria del PD, eletta a febbraio del 2023, ha una linea più movimentista rispetto ai suoi predecessori e ha ritenuto prioritario ricucire col mondo del lavoro e con gli stessi iscritti della CGIL, e questo permette a Landini di dire che è il PD ad aver aderito alla sua visione delle cose (e in effetti lo fa, in privato); dall’altro è anche vero che un PD più radicale sui temi sociali toglie spazio allo stesso Landini.

Schlein non rinuncia a fare talvolta del PD una sorta di cinghia di trasmissione della CGIL: avviene anche in parlamento, soprattutto al Senato, dove sempre più spesso il partito si fa sostenitore e promotore di iniziative suggerite dal sindacato di Landini, anche distanziandosi in modo piuttosto netto dalla CISL, l’altro grande sindacato. Allo stesso tempo però si premura di non avere una voce critica e un possibile rivale temibile come Landini che politicamente sia percepibile come “più a sinistra” di lei.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi in visita alla sede nazionale della CGIL, dopo l’assalto da parte di manifestanti di estrema destra, l’11 ottobre 2021 (Filippo Attili/LaPresse)

Più in generale, Landini in questi anni ha dimostrato una scarsa capacità di costruire alleanze e relazioni: il suo ruolo politico, da capo della FIOM prima e della CGIL poi, lo ha per lo più interpretato in chiave massimalista, mostrandosi sempre riluttante a fare accordi. Nel concreto però non ha ottenuto alcun significativo avanzamento delle tutele per i lavoratori. Si è intestato diverse battaglie di principio più o meno nobili, più o meno velleitarie, anche a costo di differenziarsi in modo polemico pure da chi gli è ideologicamente più vicino. Lo si è visto anche in momenti particolarmente delicati della vita del paese.

Durante la crisi della pandemia per esempio si oppose all’adozione del green pass e in parte, di fatto, anche all’obbligatorietà vaccinale promosse del governo di Mario Draghi, alimentando polemiche che coinvolgevano anche voci apertamente no vax e complottiste, mettendo peraltro in difficoltà chi, come il ministro della Salute Roberto Speranza, era in teoria l’esponente di quel governo più in sintonia con Landini. Sempre in quel periodo decise di rompere l’unità sindacale e la politica di concertazione adottata da Draghi prendendo un pretesto piuttosto fragile per indire uno sciopero generale che si rivelò poi assai fallimentare.

Chi lo conosce bene dice però che Landini all’occorrenza sa anche rinunciare ai suoi slanci ideali radicali, e muoversi più da politico abile: è già avvenuto almeno in un’occasione, tra il 2017 e il 2018, quando si discuteva della successione di Camusso. Landini, che da capo della FIOM aveva spesso polemizzato con la segretaria della CGIL, decise a un certo punto di accantonare questa conflittualità lasciando la guida della federazione dei metalmeccanici e facendosi eleggere nella segreteria nazionale della CGIL: cominciò così a collaborare con Camusso e ottenere una sua benedizione, che si rivelò poi decisiva per la sua elezione a segretario generale.