L’articolo 18, cos’è e come funziona

Che cosa prevede e come funziona uno dei pezzi più discussi delle leggi sul lavoro in Italia, ora che il governo vuole cambiarlo

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e nel complesso la riforma del lavoro del governo Renzi, occupano ancora oggi molte delle prime pagine dei giornali. L’articolo 18 è stato anche al centro della complicata direzione nazionale del Partito Democratico di lunedì scorso, dove si sono rafforzate le divisioni all’interno del partito sul tema della riforma del lavoro. Sabato 25 ottobre, in piazza San Giovanni a Roma, ci sarà una manifestazione sindacale organizzata dalla CGIL di Susanna Camusso e dalla FIOM di Maurizio Landini. Martedì 7, intanto, il Senato comincerà a votare il testo.

Lo Statuto dei lavoratori
L’articolo 18 è una parte di quello che comunemente viene chiamato Statuto dei Lavoratori, e cioè della legge del 20 maggio 1970, numero 300, che contiene l’insieme delle norme «sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro». Si tratta insomma delle regole più importanti a tutela di illeciti e ingiustizie quando si parla di lavoro in Italia e che sono organizzate, nella legge, in diversi “titoli” dedicati a vari temi. L’articolo 18 rientra nel “Titolo II – Della libertà sindacale” e si occupa dei licenziamenti che avvengono senza giusta causa per certe categorie di lavoratori e lavoratrici: ha subìto una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma dell’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero.

Che cosa stabilisce, attualmente
L’articolo 18 indica quali sono i diritti e i limiti per chi viene licenziato in modo illegittimo e decide di fare richiesta al giudice (dopo un periodo di tempo che deve essere al massimo di 180 giorni dal momento in cui viene impugnato e non più di 270, dopo la riforma del 2012) per ottenere indietro il suo impiego o essere risarcito del danno subito. Per “illegittimità” di un licenziamento, lo Statuto dei Lavoratori fa riferimento alla discriminazione, alla mancanza di una giusta causa o a quella di un giustificato motivo.

Se il giudice stabilisce l’annullamento del licenziamento ci sono per il datore di lavoro e il licenziato diverse conseguenze che cambiano se il licenziamento è: discriminatorio, per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (disciplinare), per motivi economici.

Licenziamento discriminatorio
Quando il licenziamento è discriminatorio – oppure nullo perché ha violato una serie di norme fondamentali (come quelle a tutela della maternità e della paternità, degli orientamenti sessuali, della religione, delle opinioni politiche, dell’attività sindacale e così via) – si applica quella che viene definita “tutela reale piena”: il o la dipendente (visto che nella maggior parte dei casi la discriminazione riguarda le donne) sono rimessi al loro posto di lavoro nelle condizioni di pre-licenziamento. Deve essere dunque assicurato lo stesso trattamento economico e la stessa posizione che avevano prima.

Inoltre, oltre al reintegro, è previsto un risarcimento del danno subito che di norma è pari ai soldi che il lavoratore avrebbe ricevuto attraverso il suo stipendio se non fosse stato licenziato, e copre quindi il periodo che va dal licenziamento all’effettivo ritorno sul posto di lavoro. Il datore di lavoro deve anche mettersi in pari con il pagamento dei contributi per la pensione, non versati nel periodo in cui il lavoratore risultava essere licenziato. In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a cinque mensilità.

Con la riforma Fornero questa tutela piena è stata ampliata: è stata estesa alle aziende indipendentemente dal numero dei dipendenti (prima erano un minimo di 15) e ai dirigenti.

Indennità
Dopo che ha ottenuto il reintegro, il lavoratore o la lavoratrice hanno comunque il diritto di non rientrare in azienda e di chiedere in cambio una indennità. Questa possibilità prevista dall’articolo 18 è stata pensata per consentire al lavoratore di risolvere comunque il rapporto di lavoro, evitando di dover tornare in un ambiente lavorativo che potrebbe essere ostile, almeno da parte del suo datore. L’indennità deve essere pari a quindici mesi di stipendio.

Licenziamento disciplinare
Le tutele previste dall’articolo 18 per questo tipo di licenziamento si applicano solo alle aziende che hanno almeno 15 dipendenti. Nel caso di un licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) il reintegro non è più automatico.

Il reintegro può essere stabilito solo nel caso in cui il fatto su cui è stato basato il licenziamento è in modo manifesto «insussistente»: il datore di lavoro dice che il dipendente ha rubato un computer, ma quel computer non è stato rubato; dice che un suo impiegato arriva tardi in azienda, ma i timbri sul cartellino non lo dimostrano. In questo caso, il reintegro viene accompagnato da un risarcimento pari al massimo a 12 mensilità che viene definito “tutela reale attenuata”.

In tutti gli altri casi (quando cioè il licenziamento è sì illegittimo ma la motivazione non è manifesta) il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro: non può ordinare di reintegrare il lavoratore, ma solo stabilire un risarcimento che va da un minimo di dodici a un massimo di ventiquattro mensilità (in questo caso si ha solamente una “tutela indennitaria”). Si tratta insomma dei casi meno evidenti e più incerti.

Licenziamento economico
Le tutele previste dall’articolo 18 per questo tipo di licenziamento si applicano solo alle aziende che hanno almeno 15 dipendenti. Nel caso in cui il giudice stabilisce che il licenziamento è illegittimo perché non c’è un giustificato motivo oggettivo alla base (non c’è insomma una effettiva e provata situazione economica o organizzativa dell’azienda che lo giustifichi) il reintegro non è più automatico. Come nel caso del licenziamento disciplinare, il reintegro può essere stabilito solo nel caso in cui il fatto su cui è stato basato il licenziamento è in modo manifesto «insussistente»: il datore di lavoro licenzia perché dice, per motivi economici, di dover tagliare un posto di lavoro, ma assume un’altra persona per svolgere le mansioni di chi ha licenziato. Anche in questo caso, il reintegro viene accompagnato da un risarcimento pari a 12 mensilità al massimo.

Se invece il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sì illegittimo, ma non manifesto, il rapporto di lavoro è dichiarato concluso e viene semplicemente stabilito il risarcimento (come per il disciplinare).

15 dipendenti
Lo Statuto dei lavoratori prevede che le tutele per licenziamenti discriminatori ed economici siano applicate solamente nelle aziende che hanno 15 o più dipendenti (più di cinque nel caso di aziende agricole). Nel conteggio sono compresi i lavoratori con un contratto di formazione, di lavoro a tempo indeterminato o parziale, mentre non vengono contati coniuge e parenti del datore entro il secondo grado. Quando nel 1990 venne introdotto questo parametro, i motivi erano due: dare una maggiore flessibilità alle imprese più piccole e tenere conto delle difficoltà oggettive che avrebbe avuto una piccola impresa nel far tornare in azienda un lavoratore con cui si era rotto il rapporto.

Quali le conseguenze della riforma Fornero?
Con la riforma Fornero del 2012 sono state introdotte modifiche sostanziali sia nella procedura che precedeva il licenziamento (riducendo i tempi per rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione), sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico). Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio resta valido quanto stabilito dallo Statuto dei Lavoratori ed è stato tolto il parametro del numero dei dipendenti; in caso di licenziamento disciplinare la riforma stabilisce un risarcimento inferiore (passando da 15 a 12 mensilità) e cancella l’obbligo di reintegro; la stessa cosa vale in caso di licenziamento economico.

La critica maggiore che, a suo tempo, si fece alla riforma Fornero è proprio questa: riduceva e rendeva molto complicata l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivavano in tribunale: quelli in cui le prove non sono univoche, quelli in cui sono molto difficili da dimostrare come nei casi di discriminazione spesso mascherati con motivazioni economiche e quelli in cui risulta fondamentale l’interpretazione del giudice). Spiega La Stampa: «Anche il lavoratore che ritiene di essere stato licenziato ingiustamente, è indotto a rinunciare all’azione giudiziaria, dal momento che il giudice, anche dandogli ragione, potrebbe alla fine non reintegrarlo bensì corrispondergli un risarcimento»