Per chi ha paura di essere troppo sfrontato nelle conversazioni

Ma diciamo pure stronzo: a volte può essere utile, e spesso è percepito come meno grave di quello che pensiamo

Una scena in cui House e Wilson sono in piedi, vicini, mentre fissano un punto in basso fuori dall'inquadratura
Gli attori Hugh Laurie e Robert Sean Leonard in una scena della serie tv Dr. House - Medical Division (Ansa)
Caricamento player

La rivista accademica PNAS Nexus ha da poco pubblicato un articolo che analizza una serie di dilemmi etici tratti da un popolare forum su Reddit intitolato Am I the Asshole? (“Sono io lo stronzo?”). Le discussioni tipiche in quel canale nascono da brevi racconti anonimi di fatti personali, da parte di utenti che si chiedono non retoricamente se si siano comportati male. Dell’articolo si era parlato anche prima che uscisse, perché è abbastanza singolare che uno studio scientifico si basi sui dilemmi posti da una comunità online.

Da molte discussioni e commenti emerge principalmente un fatto: i confini tra essere e non essere «stronzi» sono più incerti e soggettivi di quanto si pensi. Per esempio, a volte per avere conversazioni costruttive e stimolanti – quindi non quando si parla del più e del meno – è utile o addirittura necessario stare un po’ dentro e un po’ fuori da quei confini.

Bisogna innanzitutto capirsi sul significato di essere «stronzi» in una conversazione: uno tra i tanti possibili è non seguire in alcun modo le regole che suggeriscono di assecondare le aspettative o le necessità del proprio interlocutore.

Molte regole implicite in qualsiasi conversazione dipendono prima di tutto dalla relazione tra le persone: se sono conoscenti, amiche o parenti, o se invece non si conoscono affatto. Altre regole dipendono dalle circostanze e da quanto le persone sono disposte reciprocamente a infrangere quelle regole. Spesso succede senza preavviso, perché una delle parti decide di dire qualcosa che dirotta la conversazione verso un’altra modalità, come ha scritto sulla rivista Psyche Idil Cakmur, dottoranda in filosofia all’Università della Pennsylvania.

Portare avanti una conversazione è come giocare una partita a baseball, secondo un’analogia proposta dal filosofo statunitense David Lewis in un suo articolo del 1979. Le convenzioni linguistiche e sociali, oltre che le informazioni condivise parlando, permettono di sapere cosa aspettarsi dalla conversazione. Più o meno allo stesso modo, in una partita di baseball, le regole e le informazioni riportate in ogni momento sul tabellone segnapunti permettono di capire quale mossa successiva è lecito aspettarsi.

– Leggi anche: C’è poca “carità interpretativa”, sui social

Quando due persone conversano, accettano che una sia sotto il controllo verbale dell’altra, entro certi limiti. Di solito «padrone» e «schiavo», come li definisce Lewis, non sono ruoli fissi, a meno che non siano definiti da particolari gerarchie sociali: il capo dell’azienda verso i dipendenti, per esempio, o un genitore verso i figli. Nella maggior parte dei casi il «padrone» è semplicemente chi prende l’iniziativa. E uno «stronzo», per dirla nei termini di Cakmur, è tipicamente chi infrange le regole della conversazione e utilizza la libertà di spostare i confini dell’ammissibilità per dire e fare solo ciò che gli o le interessa.

Fare una mossa imprevista, magari considerata fino a quel momento inammissibile, non vuol dire però essere necessariamente uno stronzo. Giocare con le regole della conversazione, secondo Cakmur, significa imparare a essere «in parte stronzi» e «sapere che cortesia e convenzioni possono essere sacrificate in nome dell’intimità e della connessione, senza diventare del tutto insensibili».

– Leggi anche: Nelle amicizie è meglio l’onestà o il sostegno?

Spesso inoltre ciò che temiamo sia una mossa da stronzi non è percepita come tale dall’interlocutore o dall’interlocutrice. La «conoscenza comune» condivisa in una conversazione, secondo Lewis, è formata da molte cose non dette ma comunque presupposte, sulla base di «regole di intesa» (accommodation) che rendono accettabile anche ciò che manca di presupposti espliciti. Queste regole fanno sì che le persone siano naturalmente disposte ad assecondare anche ciò che in teoria è inaccettabile, e in un certo senso rendono le conversazioni pronte per essere dirottate.

Ovviamente c’è il rischio che chi sta dall’altra parte ritenga inaccettabile la mossa imprevista e abbandoni la partita, per usare l’analogia con il baseball. Ma di solito non è la prima cosa che succede: spesso l’interazione prosegue perché l’interlocutore è disposto a seguire l’esempio. Mostra una parte di sé che altrimenti non avrebbe condiviso, o magari solo per curiosità di scoprire dove va a parare la conversazione. E alla fine dello scambio entrambe le parti potrebbero riconoscersi come simili l’una all’altra più di quanto succederebbe se si limitassero a giocare solo secondo le regole.

Anche nelle conversazioni tra amici le persone tendono spesso a non prendersi la libertà di violare le convenzioni per paura che questo possa suscitare tensione o rabbia, e pensano che non ne valga la pena. Ma diverse ricerche recenti di psicologia mostrano che le conversazioni difficili, che rimandiamo perché temiamo possano finire male, di solito sono meno rischiose di quanto immaginiamo. Possono anzi migliorare le relazioni, ridurre disaccordi latenti e fornire nuove informazioni.

In una serie di esperimenti condotti dallo psicologo dell’Università di Chicago Nicholas Epley, insieme ad altri ricercatori e ricercatrici, le persone tendevano a essere troppo pessimiste riguardo alle possibili reazioni dei loro interlocutori in eventuali conversazioni difficili ma potenzialmente costruttive. Che fossero partner, coinquiline o sconosciute tra loro, tutte sottovalutavano quanta conoscenza condividessero con l’altra persona, e si concentravano invece sulla peggiore evoluzione immaginabile dell’interazione.

Rispetto alle previsioni gli interlocutori reagivano con meno rabbia e più comprensione, persino quando si parlava di politica. Una delle spiegazioni, secondo Epley, è che nelle conversazioni di solito entrano in gioco molti fattori che riducono gli attriti e avvicinano le persone: dal modo di porsi nello spazio interpersonale (oggetto di studio della prossemica) ai vari cenni di intesa reciproca (guardarsi negli occhi, annuire con la testa, sorridere). Molti di quei fattori, non a caso, mancano sui social media e sulle piattaforme online, dove atteggiamenti difensivi e incomprensioni sono molto più frequenti.

– Leggi anche: Il “collasso del contesto” sui social