Nelle amicizie è meglio l’onestà o il sostegno?

Dipende dal livello di intimità e dalle circostanze, fattori che condizionano la disponibilità a essere pienamente sinceri e accettare il rischio di attriti

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(AP Photo/Francisco Seco)
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Nel dialogo De Amicitia, scritto nel 44 a.C., l’oratore latino Marco Tullio Cicerone sosteneva che «a eccezione della saggezza, niente di meglio dell’amicizia sia stato concesso dagli dei immortali all’umanità». E individuava nella sincerità una delle caratteristiche essenziali di questo tipo di relazione, descrivendo come indice di vera amicizia «sia ammonire che essere ammoniti, apertamente ma senza asprezza, con pazienza e senza rancore».

La sincerità nelle amicizie, che Cicerone contrapponeva all’adulazione, è ancora oggi uno spunto di riflessioni e conversazioni frequenti. Tra persone che sono e si considerano amiche esiste infatti un equilibrio, spesso difficile da mantenere, tra l’inclinazione a essere incondizionatamente complici e quella a essere del tutto sincere, anche a costo di palesare un disaccordo profondo generando attriti e discussioni. Ed esistono rischi in entrambe le inclinazioni: di condiscendenza da una parte, di allontanamento dall’altra.

Può capitare, per esempio, che in seguito a una nuova relazione i comportamenti di una persona alimentino tra i suoi amici e le sue amiche il sospetto che quella nuova relazione sia nociva. In casi come questo può essere difficile capire cosa un buon amico o una buona amica di quella persona dovrebbero fare: se sia appropriato da parte loro condividere quel sospetto, magari infondato, o fornire un sostegno incondizionato e lasciare ad altre cerchie il compito dei consigli non richiesti. Genitori e familiari di quella persona, per esempio, potrebbero sentirsi più autorizzati o obbligati a essere sinceri, essendo quel tipo di relazione più definita e formalizzata.

In un certo senso le relazioni di amicizia sono completamente diverse rispetto a quelle familiari, coniugali e di altro tipo proprio perché non implicano obblighi specifici, e sono anzi definite esattamente dal loro non essere vincolanti. Anche nel caso di quelle intime non è detto che la sincerità sia la scelta più opportuna in tutte le circostanze, tantomeno quelle in cui esserlo implicherebbe il rischio di terminare l’amicizia e quindi precludersi la possibilità di beneficiarne.

In generale, come ha scritto l’Atlantic, la sincerità e la complicità silenziosa sono tendenze che coesistono nelle relazioni di amicizia. Le amicizie, secondo il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, «sopravvivono e prosperano soltanto se si può fare affidamento sulla sincerità dell’altra persona». Ma da un altro punto di vista, come scrisse il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, le amicizie sono quasi sempre rapporti umani fondati sul fatto che alcune cose «non si dicono, anzi non le si deve mai toccare», perché se «queste pietruzze entrano nell’ingranaggio» l’amicizia va in frantumi.

Spesso succede che le persone unite da relazioni di amicizia mentano abitualmente l’una con l’altra, per rafforzare le relazioni stesse e stabilire fiducia reciproca, come noto e studiato da tempo nelle scienze sociali. Ci sono innumerevoli circostanze in cui le bugie sono perlopiù il risultato di intenzioni e comportamenti «prosociali», come sostenuto in uno studio del 2015 dalla ricercatrice statunitense in scienze comportamentali Emma E. Levine e dal ricercatore statunitense Maurice Schweitzer, coautore insieme allo psicologo sociale statunitense Adam Galinsky del libro Friend and Foe: When to Cooperate, When to Compete, and How to Succeed at Both.

Secondo Levine e Schweitzer una delle occasioni in cui capita più spesso di dire bugie a fin di bene è proprio quando si hanno molto a cuore gli interessi di un’altra persona anziché i propri, mentre le bugie dannose sono tipicamente quelle motivate invece da interessi egoistici. Proprio nei casi in cui serve stabilire relazioni solide e fiducia reciproca, le persone attribuiscono paradossalmente molta più importanza alla benevolenza e alle intenzioni di un’altra persona, che non al suo essere sincera in termini assoluti, spiegò Levine alla rivista Time.

Anche in altre circostanze, quando non esistono margini sufficienti per cambiare una situazione o un comportamento, mentire può essere considerato un beneficio per l’altra persona: perché non c’è niente che quella persona possa fare concretamente in quel momento per cambiare le cose. Essere invece «brutalmente sinceri» in queste circostanze, secondo Schweitzer, spesso è soltanto un pretesto «per essere semplicemente cattivi»: cosa che rischia di rendere inefficace qualsiasi eventuale messaggio costruttivo, per quanto sincero.

Ci sono molti casi in cui condividere un’informazione, per quanto sincera, non è di alcun aiuto se la persona a cui è indirizzata la riceve nel momento sbagliato. Immaginando di venire a sapere che l’azienda in cui lavora un nostro amico o una nostra amica sta per avviare un esteso piano di licenziamenti, proprio poco prima che l’amico o l’amica parta in viaggio di nozze, sarebbe il caso di dirlo a quella persona, oppure no? «In queste situazioni le persone tendono a preferire quando la verità viene condivisa in un secondo momento», disse Levine. Del resto è improbabile che una persona in procinto di partire in viaggio di nozze abbia tempo, modo e voglia di cercare altre opportunità di lavoro, nel dubbio di poter essere licenziata a breve.

L’inclinazione a essere del tutto sinceri in una relazione di amicizia tende a dipendere molto anche dal livello di intimità, presumibilmente più alto quando l’amicizia è di lunga data. Nel caso dei rapporti meno collaudati, secondo Levine e Schweitzer, la sincerità è invece un fattore più rischioso, che può ridurre la fiducia e danneggiare la relazione. E la ragione è che in questo caso entrambe le parti hanno meno familiarità con le intenzioni dell’altra persona e potrebbero dubitare della loro benevolenza.

In termini generali diverse ricerche nel campo della psicologia, tra cui una pubblicata nel 2017 dalle psicologhe canadesi Beverley Fehr e Cheryl Harasymchuk, suggeriscono che la soddisfazione per i rapporti di amicizia sia maggiore quanto più quei rapporti somigliano a un modello ideale di rapporto di intimità. Ma di questo modello fanno parte sia la sincerità che la complicità, che possono entrare facilmente in conflitto. Alla domanda su cosa sia tipico di un’amicizia intima le persone intervistate negli studi analizzati da Fehr e Harasymchuk rispondevano cose come «se sto commettendo un errore, un amico/amica me lo dice» e «se ho bisogno di un consiglio, un amico/amica me lo dà», ma anche cose come «non importa chi sono o cosa faccio, un amico/amica mi accetterà comunque».

In un altro studio Fehr e Harasymchuk chiesero ai partecipanti come avrebbero gestito una serie di problemi nelle relazioni d’amore. E scoprirono che la maggior parte delle persone era disposta a confrontarsi su quei problemi molto più di quanto non lo fosse nelle relazioni di amicizia, in cui invece c’è tendenzialmente più riluttanza a intervenire e più disponibilità ad attendere che i problemi si risolvano o migliorino da soli. Secondo Fehr e Harasymchuk una certa «cultura della passività» tende a prevalere nella maggior parte delle amicizie perché i rischi nel tacere la verità sono piuttosto bassi, mentre quelli di alienarsi la benevolenza di un amico o di un’amica dicendo la verità sono molto alti.

Per questo motivo può capitare che soltanto alla fine di una relazione d’amore, e non durante, una persona venga a sapere di eventuali perplessità e dubbi di amici o amiche riguardo alla relazione appena finita. Non necessariamente perché quelle relazioni di amicizia non fossero sincere, ma perché la maggior parte di quegli amici e quelle amiche non sentiva di avere quel compito, e magari sente invece di dover essere presente e dover fornire sostegno alla fine di una relazione d’amore.

Ciò non significa che la passività sia vera per tutte le amicizie. In quelle più longeve e intime è tendenzialmente più facile affrontare anche gli argomenti più spinosi e problematici perché, come ha detto Fehr all’Atlantic, le persone hanno più «crediti di idiosincrasia» da spendere. Mentre all’inizio delle relazioni di amicizia le persone tendono infatti a conformarsi alle norme sociali e a seguire una routine per apparire «normali», secondo Fehr, man mano che una relazione si rafforza aumenta in alcuni casi la capacità di deviare da quelle norme e la disponibilità ad affrontare il rischio di attriti e idiosincrasie.