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  • Mercoledì 21 maggio 2025

Le indagini sull’omicidio di Garlasco furono un disastro fin dall’inizio

Reperti raccolti senza guanti, un corpo riesumato e persino un gatto libero di girare per la scena del crimine

La casa di Chiara Poggi, a Garlasco, nel 2007 (LaPresse)
La casa di Chiara Poggi, a Garlasco, nel 2007 (LaPresse)
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Dopo 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi ci sono ancora molti dubbi su chi l’abbia uccisa, e questo nonostante ci sia una persona in carcere dal 2015: Alberto Stasi, il suo fidanzato di allora. Non è possibile dire con certezza quanta parte di questi dubbi derivi dal fatto che allora chi svolgeva le indagini avesse a disposizione mezzi e conoscenze tecnologiche meno sofisticate di adesso, e quanta parte invece dipenda dai molti e gravi errori che furono effettivamente commessi fin dai primi momenti delle indagini.

Di questi errori oggi si continua a parlare non solo perché alcuni elementi emersi solo ora potrebbero portare a nuovi e significativi sviluppi, ma anche perché le indagini sul caso di Garlasco, la cittadina in provincia di Pavia dove fu uccisa Poggi, sono da tempo considerate un esempio magistrale di come non si debbano fare le cose su una scena del crimine. Reperti raccolti senza guanti, sangue calpestato dai carabinieri, un gatto che fu lasciato libero di girare per la scena del crimine: sono solo alcuni degli errori più grotteschi delle indagini. Quando nel 2009 si arrivò al primo processo contro Stasi uno dei giudici incaricati disse che di quel caso di certo c’era solo che una ragazza era stata uccisa. Ma andiamo con ordine.

Il 13 agosto del 2007, poco prima delle due del pomeriggio, Alberto Stasi, fidanzato di Chiara Poggi, chiamò il 118 mentre era già in macchina per arrivare alla caserma dei carabinieri. Raccontò che poco prima aveva trovato il corpo di Chiara Poggi nella casa in cui la ragazza viveva col resto della sua famiglia, che in quel periodo era altrove in vacanza. Stasi tornò poi alla villetta per accompagnarci i carabinieri: furono un brigadiere e un carabiniere scelto a entrare per primi.

Chiara Poggi (ANSA)

I carabinieri girarono per casa, guardando in tutte le stanze: videro il corpo, le molte chiazze di sangue, e furono poi raggiunti da colleghi e magistrati. Cominciarono così le indagini, da subito con un pasticcio: nelle prime ore ebbero accesso alla scena del crimine 25 persone, nessuna delle quali indossò i calzari protettivi. Dissero che non ci avevano pensato. Nei giorni successivi la pubblico ministero dovette sequestrare le 25 paia di scarpe per rilevarne le impronte: dovette sequestrare anche le proprie, perché lei stessa entrò senza le protezioni.

Molte delle persone che lavorarono sulla scena del crimine non avevano nemmeno i guanti, alcune di queste usarono il bagno, qualcun altro scivolò sul sangue, qualcun altro ancora ebbe conati di vomito. Il divano della sala fu spostato sopra alcune tracce di sangue. Il gatto dei Poggi fu lasciato libero di muoversi per la casa per tutto il tempo, e fu poi chiuso dentro dopo che la scena del crimine era stata sigillata. Tutto questo, già di per sé molto grave, fu solo una parte degli errori commessi in quelle prime ore.

Sempre a proposito di scarpe: quelle di Alberto Stasi, il primo che entrò nella scena del crimine dicendo di aver trovato una finestra aperta, furono sequestrate solo due giorni dopo il ritrovamento del corpo di Chiara Poggi. Stasi stava allora rispondendo all’interrogatorio dei carabinieri, e quando gli chiesero che scarpe indossasse quella mattina lui rispose: «Queste», mostrando quelle che aveva ai piedi.

Le scarpe furono comunque sequestrate solo il giorno seguente, ed erano pulite: un fatto che alimentò sospetti nei suoi confronti, visto che lui stesso aveva detto di aver camminato per una casa piena di sangue, e fu uno degli elementi centrali del processo a suo carico. Furono fatte molte simulazioni per capire quante possibilità ci fossero di camminare in una situazione del genere senza sporcarsi.

Una fotografia allegata a una consulenza per ricostruire il percorso fatto da Stasi nella villetta dei Poggi (ANSA)

Il corpo di Chiara Poggi fu poi portato all’obitorio di Vigevano, quello di competenza, non lontano da Garlasco. Non c’era la bilancia, un attrezzo essenziale in questi casi: peso, temperatura del cadavere e temperatura esterna sono elementi fondamentali per determinare l’ora della morte. Il corpo non fu pesato e tutte le indagini dovettero basarsi su dati approssimativi: proprio l’incertezza sull’orario della morte fu uno degli elementi più controversi di tutto il processo.

Il 18 agosto ci fu poi il funerale. Poco dopo gli investigatori iniziarono a esaminare le relazioni scientifiche e si accorsero di un errore madornale: non erano state prese le impronte digitali di Chiara Poggi. È una delle regole di base delle indagini, quella per cui vanno escluse le impronte della vittima da tutte le altre rinvenute sulla scena del crimine. Il 20 agosto, una settimana dopo il delitto e due giorni dopo il funerale, il cadavere fu riesumato.

Nel frattempo, nonostante fosse il primo sospettato, in tutti questi giorni nessuno aveva ancora perquisito la casa di Alberto Stasi.

Anche quando vennero effettuate, le perquisizioni servirono a poco. Fu sequestrato un album fotografico, che peraltro andò perso, e poco altro. Il computer era già stato consegnato il giorno dopo il ritrovamento del corpo ed era considerato un oggetto centrale nelle indagini: doveva servire a dimostrare se Stasi avesse effettivamente lavorato alla tesi la mattina dell’omicidio, come sosteneva, e nel caso a che ora. Era decisivo per stabilire se avesse o meno un alibi.

Quando fu affidato ai tecnici del RIS, il Reparto Investigazioni Scientifiche che si occupa di analisi specialistiche, il computer era però stato compromesso dagli accessi fatti dopo il sequestro: i carabinieri di Garlasco lo avevano aperto e spulciato, senza fare prima una “copia forense”, una sorta di clonazione del dispositivo per “cristallizzare” (come si dice nel gergo processuale) tutto quello che può diventare una prova prima che ci mettano mano i tecnici.

Una perizia fatta durante il processo di primo grado a Stasi avrebbe poi rilevato che questi accessi incauti avevano manomesso il «73,8 per cento dei file visibili». Nel frattempo arrivò un indizio che in quel momento fu ritenuto molto importante, ma che non fu sfruttato a dovere.

Alberto Stasi in tribunale, nel 2014 (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

La madre di una vicina dei Poggi, Franca Bermani, raccontò con molta sicurezza che quella mattina stava andando a casa di sua figlia e vide una bicicletta appoggiata sul muretto davanti alla villetta dei Poggi: era una bicicletta nera, da donna, con un portapacchi posteriore e le molle della sella cromate e ben visibili. Disse di averla vista alle 9:10. Disse anche che quando uscì da casa di sua figlia, intorno alle 10:20, la bicicletta non c’era più. La testimonianza trapelò in pochissimo tempo ai giornali, su cui si iniziò a parlare di questa famigerata «bicicletta nera da donna».

I carabinieri iniziano a cercarla, ma a casa degli Stasi ne trovarono altre due, una da uomo e una effettivamente da donna, ma bordeaux. Vennero sequestrate entrambe. Il padre di Stasi disse che una bici simile a quella descritta la aveva nella sede della sua attività, un negozio di autoricambi. Ci andò il maresciallo Francesco Marchetto, comandante di lungo corso della stazione dei carabinieri di Garlasco che aveva interrogato la famiglia di Stasi (ma non la testimone).

Nell’officina c’era effettivamente una bici nera da donna, appoggiata al muro, ma il maresciallo la lasciò lì e non la fotografò neanche. Quando fu interrogato sostenne che  non rispondeva alla descrizione. Quella bicicletta sarebbe stata sequestrata solo sette anni dopo, e si sarebbe rivelata un elemento essenziale nelle indagini: nel frattempo fu trovato il DNA di Chiara Poggi sui pedali della bicicletta bordeaux, ma nessuno seppe spiegare come ci finì, soprattutto perché quella avvistata dalla testimone era nera.

Nel 2016 Francesco Marchetto fu condannato per falsa testimonianza e il magistrato che lo giudicò parlò di grave sviamento delle indagini: nel 2017 la corte d’appello di Vigevano dichiarò l’avvenuta prescrizione del reato e Marchetto non subì condanne.

– Ascolta: Indagini: Garlasco, 13 agosto 2007

Nel corso degli anni e dei vari processi sono poi emersi elementi nuovi, che si collegano a quelli di questi giorni.

Il primo è stato rinvenuto guardando le fotografie della scena del delitto, su cui si vede l’impronta di una mano sul pigiama di Chiara Poggi. Quelle impronte c’erano, ma ora non ci sono più: nello spostamento del corpo quella parte di pigiama è stata inavvertitamente appoggiata su una chiazza di sangue. C’è poi lo sviluppo sull’impronta dimenticata per 18 anni, quello di cui si parla di più e l’unico elemento concreto degli ultimi tempi di grande trambusto mediatico intorno a questo caso.

Secondo le ricostruzioni dei giornalisti che da anni si occupano del caso, nell’agosto del 2007 l’impronta era stata individuata dai tecnici del RIS di Parma. Al tempo fu chiamata “traccia di interesse dattiloscopico classificata 33”, e si trovava sul muro delle scale che portano alla cantina di casa di Poggi, il luogo in cui fu trovato il corpo.

All’epoca però l’impronta 33 fu giudicata inutile perché non abbastanza dettagliata per permettere confronti. Ora invece una nuova consulenza dice che nell’impronta ci sono 15 punti sovrapponibili con quella di Andrea Sempio, la persona che da tre mesi è indagata per l’omicidio di Chiara Poggi. Non si sa per quale motivo questa corrispondenza non sia stata individuata allora, se per incuria o se perché allora analisi del genere non erano tecnicamente possibili.

Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi, era peraltro già stato indagato tra il 2016 e il 2017 per via della presenza del suo DNA riscontrata sulle unghie di Poggi: all’epoca la quantità di DNA trovata fu ritenuta insufficiente e l’indagine fu archiviata. Con le tecniche di analisi moderne anche quella conclusione è stata di recente messa in dubbio.

– Leggi anche: Com’è possibile che l’impronta di Andrea Sempio sia venuta fuori solo 18 anni dopo