Gli avvocati italiani che si occupano dei crimini nazisti
In Italia ce ne sono decine, specializzati nelle richieste di risarcimento per le persone deportate e i loro eredi: è un lavoro più difficile di quanto si pensi
di Ginevra Falciani

Il 4 agosto 1944 Luigi Ferrini venne catturato dall’esercito nazista in provincia d’Arezzo e deportato in Germania, dove fino al 1945 fu internato in un campo di concentramento e costretto a lavorare per l’industria bellica tedesca. All’inizio degli anni Novanta, anni dopo essere tornato a vivere nella campagna aretina, raccontò un po’ per caso la sua storia all’avvocato tedesco Joachim Lau nel bar di Talla, un paesino dove Lau era andato a vivere: al suo ritorno Ferrini si era interessato al diritto internazionale e si era convinto che avrebbe potuto far causa alla Germania, e vincerla. Dopo aver approfondito la questione, anche Lau fu d’accordo.
Trent’anni dopo, grazie a quella conversazione al bar, sono quasi 800 le cause per risarcimento aperte dalle persone sopravvissute alle deportazioni e alle stragi compiute dall’esercito nazista in Italia durante la Seconda guerra mondiale, o dai loro eredi. Gli avvocati che se ne occupano e che si sono specializzati in questo tipo di cause sono ormai diventati decine.
Serve infatti una certa preparazione: si parla di cause complesse, di natura civile ma che riguardano trattati internazionali di decine di anni fa, oltre ovviamente a fatti a volte difficili da ricostruire. La legittimità di queste cause è contestata sia dallo stato tedesco che dalla Corte internazionale di giustizia, il più importante tribunale dell’ONU, mentre per la Corte costituzionale italiana sono assolutamente valide. Negli ultimi anni, peraltro, il loro numero è aumentato anche per via di un fondo per i risarcimenti istituito nel 2022 dal governo di Mario Draghi con i soldi del PNRR (che però pone diversi problemi, sia pratici che etici).
Lau spiega che all’inizio non è stato facile: doveva provare che Ferrini avesse effettivamente subito trattamenti disumani, che i reati commessi nei suoi confronti non fossero andati in prescrizione in quanto crimini di guerra e, soprattutto, che la Germania potesse essere riconosciuta responsabile nonostante il principio giuridico dello iure imperii (cioè immunità di cui gode uno stato rispetto alla giurisdizione di un altro stato). La Germania sosteneva inoltre di non dover risarcire più nessuno in virtù degli accordi di Bonn del 1961, quando aveva dato all’Italia 40 milioni di marchi tedeschi (circa 100 milioni di euro di oggi) per soddisfare questo tipo di richieste.
Nel 2004 però la Corte di Cassazione diede ragione a Lau: con una sentenza storica affermò che la Germania non poteva invocare l’immunità per crimini contro i diritti inviolabili di una persona, come quelli subiti da Ferrini durante la sua prigionia, e che per questo doveva essere risarcito. Da allora è iniziata una lunga disputa legale fra l’Italia e la Germania, tuttora in corso: lo stato tedesco non ha mai accolto queste richieste di risarcimento, ma sempre più persone hanno deciso di fare causa, principalmente con l’obiettivo di veder riconosciuto a loro o ai loro parenti il torto subito, in qualche forma.
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Oltre che per le questioni giuridiche, ci sono altri motivi per cui presentare una causa di risarcimento per crimini avvenuti decine di anni fa è piuttosto complicato. La fonte principale da cui reperire informazioni sono, quando è possibile, le persone sopravvissute: anche quando sono ancora vive però non è sempre semplice.
L’avvocato Giulio Arria, che insieme a Lau ha intentato vent’anni fa la prima causa collettiva di risarcimento per una quarantina di internati militari italiani (i cosiddetti IMI), racconta che i loro clienti «si dividevano in due categorie»: alcuni si sedevano e raccontavano per ore quei mesi di lavori forzati, torture e privazioni. La maggior parte, però, portava qualche documento ma si rifiutava di parlare. «Mi dicevano a monosillabi dove erano stati e più o meno cos’avevano vissuto, ma la volontà di rimuovere l’evento era palese», dice Arria, che in questi anni ha seguito altre decine di cause con Lau e con suo figlio, l’avvocato Aaron Jorgos Lau.
Prima di allora, molti non avevano mai raccontato quello che avevano subito: dopo l’8 settembre 1943 circa 800mila soldati italiani vennero deportati in Germania dopo essersi rifiutati di continuare a combattere in Italia a fianco dei nazisti. Nel corso della guerra venne offerto loro in più occasioni di tornare in Italia e arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana, lo stato fantoccio guidato da Benito Mussolini che sulla carta governava il Nord Italia.
Gran parte di loro si rifiutò di farlo, e rimase nei campi di concentramento: al ritorno in Italia, però, in pochi parlarono volentieri di quello che era successo.

Alcune delle foto degli internati militari italiani nel Museo Vite di IMI a Roma (ANSA)
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Ogni racconto, anche il più completo, deve comunque essere necessariamente corroborato da documenti dell’epoca per potere essere incluso in una causa: nel caso degli internati le rare lettere spedite alle famiglie (in cui era stampato il numero del campo in cui vivevano) oppure i fogli matricolari, cioè i documenti che sintetizzano la carriera militare di una persona e che nei loro casi includevano le circostanze del loro arresto e la successiva deportazione.
Negli ultimi anni, anche per via della morte di molte persone deportate o sopravvissute alle stragi, questo lavoro di ricerca è diventato più frequente. Per le cause sui deportati civili e militari in Germania sono diventati cruciali gli Archivi di Arolsen, circa 30 milioni di documenti redatti dall’esercito nazista sui lager e sui loro detenuti, accessibili ai ricercatori dal 2007 e oggi consultabili da tutti online.
Gli Archivi prendono il nome dalla cittadina tedesca dove gli Alleati avevano fondato un centro per rintracciare le persone scomparse nel territorio della Germania nazista, e negli anni hanno rivoluzionato il lavoro degli avvocati come Arria. Grazie a un documento trovato negli Archivi di Arolsen lui e i Lau hanno per esempio potuto provare che una loro cliente era stata costretta a lavorare per un’azienda che produceva lo Zyklon B, il gas usato dai nazisti nei campi di sterminio per uccidere i deportati.
Per le stragi commesse sul territorio italiano si può fare affidamento sugli archivi comunali e altre testimonianze orali, ma in ogni indagine si consulta anche il cosiddetto “armadio della vergogna”: un insieme di fascicoli giudiziari e relazioni sulle migliaia di stragi compiute dall’esercito tedesco (spesso con l’aiuto delle truppe fasciste della Repubblica di Salò) contro civili, partigiani e militari italiani.
Oggi questi documenti sono consultabili, ma per decenni erano rimasti nascosti in un armadio con le ante rivolte verso il muro nella sede della procura generale militare a Roma: la sua scoperta a metà degli anni Novanta portò all’avvio in Italia di decine di processi penali contro i militari tedeschi che erano ancora in vita ma non erano mai stati perseguiti per le stragi che avevano compiuto.

Una foto del Museo della Resistenza di Sant’Anna di Stazzema che mostra la sepoltura provvisoria di alcuni corpi, nel 1944, nel piazzale della chiesa (LUCA ZENNARO/ANSA)
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Il fatto che in tutti questi anni la Germania si sia sempre rifiutata di risarcire le vittime e i loro parenti, anche dopo diverse sentenze della giustizia italiana, ha generato molta frustrazione negli avvocati e nei loro clienti. Per risolvere questo problema ed evitare ulteriori scontri diplomatici con lo stato tedesco nel 2022 il governo guidato da Mario Draghi creò un fondo di 55 milioni di euro (poi aumentati a 61 milioni) con cui si faceva carico di tutti i risarcimenti, di fatto sostituendosi allo stato tedesco.
Nonostante molti non fossero contenti che questi soldi provenissero dall’Italia e non dalla Germania, il fondo è stato visto dalle vittime e dai loro famigliari come una sorta di legittimazione delle loro richieste. In tanti poi vennero a sapere che avrebbero potuto ottenere un risarcimento solo quando fu creato il fondo; e il fatto che lo gestisse il governo italiano ha fatto sembrare molto più concreta la possibilità di ottenerlo. Anche per questo negli ultimi anni le cause sono aumentate.
Ma la creazione del fondo ha anche portato a un radicale cambiamento nell’impostazione dei processi: ora che a pagare è l’Italia, l’Avvocatura dello Stato ha iniziato a opporsi ai risarcimenti in modo ostinato, in maniera sorprendente e per ragioni ancora poco chiare. Tutti gli avvocati con cui ha parlato il Post hanno detto di essersi visti contestare la legittimità delle loro richieste con motivazioni fragili, o tirando in ballo questioni che sembravano già risolte, come quella della prescrizione.
Gli avvocati Vittoria Hayun e Iacopo Casetti, che hanno iniziato a occuparsi della vicenda dopo l’istituzione del fondo e oggi seguono una ventina di casi, fanno anche notare che le udienze vengono spesso fissate a più di un anno di distanza l’una dall’altra: capita spesso che per questo molti clienti, già anziani, muoiano prima della conclusione del processo.
Un altro problema è che il ministero dell’Economia, che gestisce il fondo, non sta erogando molti dei risarcimenti riconosciuti, senza spiegare veramente il motivo: questo ha portato alcuni avvocati a ipotizzare che il fondo sia insufficiente per tutte le richieste arrivate, o che sia già esaurito. Alcune delle persone che stanno aspettando i risarcimenti, fra cui una cliente di Hayun e Casetti, sono fra quelle che all’inizio degli anni Duemila hanno testimoniato nei processi penali derivati dall’“armadio della vergogna” e che quindi sono già state ufficialmente riconosciute come vittime, sebbene in un altro processo.
Per moltissime persone si tratta di cifre piuttosto simboliche, che di per sé non giustificano anni spesi dietro a lunghi processi. Il risarcimento viene però visto come l’unica prova tangibile di un riconoscimento ufficiale, benché tardivo, di un crimine subito e mai riconosciuto finora.
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