Quelli che odiano aglio e cipolla

«Io il loro odore lo sento un po’ dappertutto. Lo annuso in una carota che al mercato gli è stata vicina, ma la cosa che mi fa più schifo è quando contaminano un frigorifero, anche l’acqua in bottiglia o il ghiaccio che è in un altro scomparto»

Tom Cruise e Brad Pitt in una scena del film Intervista col vampiro diretto da Neil Jordan nel 1994 (Francois Duhamel/Sygma via Getty Images)
Tom Cruise e Brad Pitt in una scena del film Intervista col vampiro diretto da Neil Jordan nel 1994 (Francois Duhamel/Sygma via Getty Images)
Antonio Stella
Antonio Stella

Ha cominciato nel 1974 come cronista al Corriere d’Informazione, poi ha gestito il negozio di ottica di famiglia. Gli è rimasto l’amore per i giornali. Nel 1979 ha inventato la rassegna stampa di Radio Popolare.

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Qualche anno fa ho scoperto che in un importante ristorante “siciliano” di Milano – chiuso dalla pandemia e riaperto con meno pretese – precisavano per iscritto in cima al menu di non usare né aglio né cipolla. Così come ormai è normale trovare al supermercato il pesto “senza aglio” scritto in bella evidenza. Questo per dire che l’avversione all’aglio e alla cipolla è un tema che non interessa solo a me.

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Fin da bambino, con mio papà, odiavo aglio e cipolla, mentre mia mamma, con mio fratello, ne andava matta. Uno scontro quotidiano, un litigio continuo. Ma niente di proustiano, una banalità come un’altra, due schieramenti di gusto ma soprattutto di partito preso (senza ideologia) come Milan/Inter, Lazio/Roma, Mercedes/BMW, Lancia/Alfa Romeo, Coca/Pepsi, Vespa/Lambretta, Coppi/Bartali, mare/montagna, cane/gatto. Irrazionale ma profondo. Radicato e radicale. Un’idiosincrasia.

Crudi (peggio mi sento), cotti o sfrigolati nell’olio. Non li sopporto «da qualunque parte provengano». Da Tropea o Voghera, da Cavasso o dalla Val Cosa, da Breme in Lomellina o chissà da dove le cipolle, l’aglio da Monticelli d’Ongina o da Vessalico, da Nubia, da Caraglio o a chilometro zero, sotto casa o sul balcone, o dal camion fermo ai margini delle rotonde stradali.

E poi affettare le cipolle fa lacrimare (oltre a far puzzare mani, coltello, tagliere e tutto l’ambiente). E quindi per fare lo spiritoso negli anni Ottanta cantavo «No onions, no cry», che alludeva al titolo della canzone di Bob Marley. Ho ripetuto il ritornello come un mantra per migliaia di volte in ogni occasione, un vero tormentone, insopportabile alla fine anche per me. Praticamente un sofferto soffritto, trito e ritrito, infinito.

(Debrocke/ClassicStock/Getty Images)

Per evitarli, prima di partire per un viaggio all’estero, mi appuntavo le traduzioni di “aglio” (garlic, ail, ajo, alho, Knoblauch, hvidløg, tewm, чеснок, ニンニク, , ጻዕዳ ሽጉርቲ) e “cipolla” (onion, oignon, cebolla, cebola, Zwiebel, løg, basal, лук, タマネギ, 洋蔥ሽጉርቲ) in tutte le lingue dei luoghi che avrei visitato.

Oggi mi conforta molto sapere (“sapere” per modo di dire: in realtà di aver appreso per caso) che sul finire del quarto atto del Sogno di una notte di mezza estate, William Shakespeare fa dire a Nick Bottom, artigiano amante dei paradossi che alla fine della commedia si ritroverà con una testa d’asino (trascrivo come trovo):

«And most dear actors, eat no onions nor garlic, for we are to utter sweet breath».

«E, attori miei carissimi, non mangiate né aglio né cipolla, ché dobbiamo esalare un dolce respiro».

È in ogni caso risaputo che al tempo di Shakespeare il contatto col pubblico era molto più ravvicinato e “affiatato” di adesso. E quindi le precauzioni più giustificate. (Ma aglio e cipolla non li sopportava neanche Berlusconi che, come noto, aveva una tale avversione per l’alito cattivo da consigliare ai suoi collaboratori il consumo frequente di mentine).

Leggo poi con molto godimento che anche nella cultura islamica l’aglio, pur essendo disgraziatamente e diffusamente impiegato senza pudore, viene sconsigliato a quanti devono recarsi in moschea il venerdì per la preghiera di mezzogiorno, sulla scorta della tradizione secondo cui il profeta Maometto schifasse il suo odore (e quello della cipolla, che dunque risente di questo stesso “divieto”). Sarà per questo che nella Sura II al-Baqara del Corano Mosè si indispettisce per la richiesta dei figli d’Israele di poter mangiare aglio e cipolla:

«E quando diceste: “O Mosè, non possiamo più tollerare un unico alimento. Prega per noi il tuo Signore che, dalla terra, faccia crescere per noi legumi, cetrioli, aglio, lenticchie e cipolle!”. Egli disse: “Volete scambiare il meglio con il peggio? Tornate in Egitto, colà troverete certamente quello che chiedete!”. E furono colpiti dall’abiezione e dalla miseria e subirono la collera di Allah, perché dissimulavano i segni di Allah e uccidevano i profeti ingiustamente. Questo perché disobbedivano e trasgredivano».

L’amore per l’aglio degli ebrei è attestato anche da un racconto popolare che insegna come la fortuna possa arridere anche agli scemi, o almeno agli ingenui: Getzel è un mercante tanto gentile da perdere soldi per compiacere i clienti. Per questo suo padre si rifiuta di dargli altro da vendere e così Getzel si mette in viaggio portandosi solo un sacco di cipolle, ma quando naufraga su un’isola scopre che lì le cipolle sono una prelibatezza e che i diamanti abbondano.

Sull’aglio, come su quasi tutto, ci sono infinite storie che contemplano dicerie sulle sue proprietà medicamentose, proverbi e scaramanzie. Si consigliava per esempio di tenerlo addosso la notte che precede il 24 giugno (San Giovanni) per proteggersi dalle streghe che in quella data, secondo la tradizione, celebrerebbero il grande sabba annuale che coincide con il solstizio d’estate: «Aglio, fravaglio, fattura cà nun quaglia. Corna, bicorna, capa r’alice e capa r’aglio». È un po’ come la famosa storia dei vampiri che odierebbero l’aglio quasi quanto la luce del sole (e quindi, quando dici «l’aglio non mi piace», c’è sempre qualcuno che fa lo spiritoso).

Il 19 aprile è la giornata internazionale dell’aglio (la cipolla non ne ha una, per fortuna, ma la giornata nazionale italiana è l’11 giugno). Oggi l’aglio è un alimento di base diffuso nelle cucine di tutto il mondo (purtroppo), perfino in Gran Bretagna della cui cucina, secondo il Guardian, è diventato il re indiscusso, anche se fino a trent’anni fa in molte zone (ma non ho scoperto quali) era considerato “forestiero” e come tale sospetto.

Lo storico inglese dell’alimentazione Ivan Day racconta che l’aglio riapparve durante l’era vittoriana dopo diversi secoli di abbandono, quando il gusto francese era considerato il massimo della raffinatezza, ma cadde di nuovo in disgrazia durante la Seconda guerra mondiale, fino a essere definito «letame straniero».

Anche Natasha Edwards, che gestisce la Garlic Farm sulla celebre isola di Wight, ha raccontato al Guardian: «Abbiamo aperto l’azienda agricola quando l’aglio non era così popolare. Nessuno dei miei amici sapeva cosa fosse e quelli che lo sapevano pensavano che fosse straniero e che facesse venire l’alito cattivo» (Ma guarda…).

Non è una storia nuova. L’odore di aglio e cipolla era già stato usato per stabilire graduatorie tra le genti. In Gusti del Medioevo lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari racconta che il vescovo e diplomatico Liutprando di Cremona, inviato a Costantinopoli nel 968 da Ottone I di Sassonia, descrisse l’inferiorità dell’imperatore bizantino Niceforo II Foca basandosi proprio sul fatto che si cibasse abitualmente di aglio, porro e cipolla.

La cattiva nomea di aglio e cipolla non è colpa mia, purtroppo. E, checché ne abbia detto Liutprando per ingraziarsi Ottone, è diffusa da sempre anche in Italia. E infatti a Roma vicino a San Giovanni in Laterano esisteva il monte cipollaro perché era coltivato a cipolle, che molti secoli dopo furono portate in America dal nostro Colombo viaggiatore. Nel Decamerone di Boccaccio c’è un Frate Cipolla, così chiamato perché originario di Certaldo, in Toscana, dove già allora si coltivavano le famose cipolle rosse, che è un avido imbroglione che fa credere ai contadini di possedere una piuma dell’Arcangelo Gabriele. Che la cipolla puzzasse di imbroglio, e quindi di magia, è attestato anche da Giovambattista della Porta e Gabriele Falloppio, che raccontano come il succo di cipolla fosse usato per scrivere lettere «che si leggono col fuoco», cioè come una specie di inchiostro simpatico. Simpatico, per modo di dire.

A proposito di puzza, quelle di aglio e cipolla si devono a due sostanze chimicamente molto simili: l’isoalliina per la cipolla, l’alliina per l’aglio (botanicamente parlando appartengono con porri e altre piante puzzolenti al genere Allium ed è per questa ragione, io credo, che pochi al mondo ne schifino uno e l’altro no). E difatti io il loro odore lo sento (e mi fa rabbia, spesso li confondo pur così diversi) un po’ dappertutto. Annuso e individuo come un lagotto romagnolo una carota o un gambo di sedano che al mercato sono stati vicini a una cipolla; o se esagerano con l’aglio nel salame (accade soprattutto a Cremona, patria di Liutprando, nel mantovano e nel ferrarese) o nel prosciutto cotto, così come in molte salse.

Leggo le etichette come un maniaco (e i bugiardini alimentari scritti in corpo 4) alla ricerca di tracce di aglio e cipolla. Quando trovo il generico “aromi naturali” o “spezie” mi astengo dall’acquisto. Se mi invitano in un ristorante coreano o greco non ci vado neanche morto. (Detto tra parentesi, l’aglio era molto usato per coprire il deperimento delle scorte alimentari soprattutto in navigazione, un po’ come i semi di finocchio – si dice – per spacciare per buono del vino decrepito se non già in aceto, da cui il verbo “infinocchiare”.)

Nella mortadella (quella che io ho sempre chiamato e chiamo “la bologna”), non so perché, lo tollero e lo giustifico. E una volta, a Parigi, ho assaggiato per sbaglio di ordinazione una soupe à l’oignon che per me sapeva solo di formaggio e mi è sembrata buonissima. Anche la cipolla per il soffritto del risotto, se non è eccessiva, la rispetto come un male necessario, la tollero. Così nella caponata siciliana fatta da un mio amato cuoco tunisino.

– Leggi anche: Dinamiche dei menu dei ristoranti

Anni fa si è molto parlato di Amatrice per via del terremoto e di conseguenza dell’amatriciana intesa come spaghetti alla. Be’ anche qui per qualcuno la cipolla non ci va proprio, ma la maggioranza ne fa abbondante uso. Ma la cosa che mi fa più schifo è il frigorifero che sa di cipolla e aglio (e fa sapere tutto di cipolla e aglio, anche l’acqua in bottiglia, anche il ghiaccio che è in un altro scomparto). Le mani puzzolenti di qualcun’altro o l’aglio bruciacchiato magari sulla pizza, per dire.

La mia vita, insomma, è un continuo cercare di evitarli. E tutte le volte a chiedere se c’è l’aglio o la cipolla e quelli a rispondermi che c’è già nel sugo da prima (da quando l’hanno preparato) ma che tanto non si sente (e io: ma cosa lo mettete a fare, allora?), oppure che l’aglio lo mettono ma poi lo tolgono. Che serve solo per «insaporire», che ci vuole ma che in ogni caso non si sente, non si sente. Sempre le stesse cose. Sempre uguali. O che lo «depongono» un attimo «con la camicia», che lo fanno appena «vedere», ma lo tolgono subito.

Questa idea che sapori e odori si formino attraverso lo sfioramento e addirittura la prossimità mi lascia perplesso, ma la contaminazione mi pare incontrovertibile nel caso della cipolla e dell’aglio. È quello che per qualcuno (molto estremista) dovrebbe succedere al Martini con il gin nel famoso e omonimo cocktail. Dicono, insomma, che anche il Martini Dry – la bottiglia, dico – dovrebbe soltanto sfiorare il gin senza lasciarne neanche una lacrima. Questo per i puristi sarebbe il vero martini cocktail: gin ghiacciato con il soffio (protetto dal vetro) del vermouth. Ma questo è un altro discorso (di cui presto ci si occuperà).

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STORIE/IDEE

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