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  • Giovedì 20 febbraio 2025

Donald Trump contro i giornali

E stavolta non solo a parole: i suoi interventi repressivi e discriminatori contro le testate "non amiche" sono senza precedenti, e accusati ormai di violazione dei diritti costituzionali

Donald Trump nella sala stampa della Casa Bianca (AP Photo/Alex Brandon)
Donald Trump nella sala stampa della Casa Bianca (AP Photo/Alex Brandon)
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Tra i diversi conflitti creati nel primo mese della presidenza di Donald Trump c’è stata una serie senza precedenti di scontri fra la nuova amministrazione statunitense e buona parte delle maggiori e più autorevoli testate giornalistiche del paese. Durante il primo mandato di Trump alcuni di quei giornali avevano aumentato lettori e ricavi con un atteggiamento critico e agguerrito verso la sua presidenza, ma oggi è Trump stesso che ha deciso di attaccarli preventivamente, e usando tutto l’esteso potere del suo ruolo. Al punto che i suoi interventi sono già stati accusati di violazione della Costituzione.

In poche settimane la nuova amministrazione ha fatto cancellare gli abbonamenti ai giornali usati dalle istituzioni pubbliche, eliminato consuetudini e molte possibilità di accesso alle fonti governative per le testate considerate più ostili, organizzato ritorsioni verso media specifici, ripetuto in più occasioni che alcune importanti testate sono «bugiarde» e che approfittano di contributi pubblici, mentendo palesemente in diversi casi. Come privato cittadino Trump ha poi intrapreso alcune azioni legali dalle basi piuttosto fragili, ma che stanno spaventando molti giornali e giornalisti.

Messe tutte insieme, le singole decisioni e le molte minacce creano un contesto piuttosto preoccupante di repressione della libertà di stampa, a cui i maggiori media non sembrano aver trovato una risposta unitaria. Alcuni avevano iniziato a riposizionarsi già prima delle elezioni, con un atteggiamento più condiscendente verso la nuova amministrazione, e assai criticato e discusso: sono per esempio i casi molto raccontati del rifiuto di pubblicare un endorsement a favore di Kamala Harris da parte del Washington Post di Jeff Bezos (proprietario anche e soprattutto di Amazon) e del ricollocarsi su posizioni più conservatrici del Los Angeles Times di Patrick Soon-Shiong, medico e imprenditore nel settore delle biotecnologie.

Altre aziende del settore sembrano disposte a evitare guai peggiori in futuro patteggiando pene pecuniarie per cause legali intentate da Trump che in altri tempi avrebbero considerato poco solide. Nessuno al momento sta chiamando alla mobilitazione i suoi lettori, come accadde invece nel 2017, anche perché gli stessi lettori sembrano molto più stanchi e meno agguerriti, come mostrano anche i problemi del Partito Democratico nell’elaborare una risposta alla vittoria di Trump.

Donald Trump con un ordine esecutivo il 23 gennaio 2025 (AP Photo/Ben Curtis)

L’attacco di Trump contro i giornali è iniziato seguendo una strategia sintetizzata a suo tempo dal suo consigliere Steve Bannon, che l’aveva chiamata flood the zone, ovvero “inonda l’area”: travolgere le opposizioni e i mezzi di informazione di iniziative quotidiane ogni giorno nuove, costringendoli a rincorrerlo e non dando loro modo di concentrarsi su una critica puntuale e organizzata.

Ma dopo pochi giorni Trump si è anche dedicato a più espliciti attacchi nei confronti dei media, muovendosi principalmente su tre piani. Il primo sono le dichiarazioni costanti ed estreme contro la presunta partigianeria dei media non allineati, accusati quasi giornalmente di «frode», di atteggiamenti «scandalosi», di seguire disegni politici «sovversivi» e per questo meritevoli di «chiusura immediata». Attacchi di questo genere non sono una novità nella storia politica di Trump, ma ora sono più minacciosi visto l’ampio potere del presidente e il modo spregiudicato in cui ha dimostrato di volerlo utilizzare. Inoltre critiche e accuse sono riprese da stampa, influencer e canali social di destra diventati mainstream, che contribuiscono a creare un clima ostile intorno ai cosiddetti “media tradizionali”, e a cui l’amministrazione sta dando sostegno e privilegi nell’accesso alle informazioni.

Il secondo piano è quindi quello delle decisioni operative e degli ordini esecutivi. La nuova portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha anche il compito di gestire l’affollata sala stampa presidenziale: appena insediata ha annunciato una redistribuzione dei posti per i giornalisti, con l’ingresso di podcaster, tiktoker, influencer e rappresentanti di media “alternativi” (quasi sempre vicini al governo), riducendo spazi e opportunità per le testate tradizionali e più famose.

Anche al Pentagono, sede del dipartimento della Difesa, sono stati annunciati cambiamenti: New York Times, NBC News, Politico, NPR, Washington Post, CNN, The Hill e War Zone hanno dovuto lasciare i loro uffici all’interno dell’edificio, a favore di New York Post, Breitbart News, One America News, HuffPost, Newsmax, Washington Examiner, Daily Caller e Free Press. Al primo gruppo appartengono perlopiù media storici, autorevoli ma anche critici con l’attuale amministrazione, al secondo testate più conservatrici, vicine a Trump, e in diversi casi molto meno note e affidabili. Avere un ufficio o uno spazio dentro la Casa Bianca o il Pentagono non è solo – né principalmente – una questione di prestigio, ma garantisce anche un accesso più costante e veloce alle fonti e quindi alle notizie, oltre che una sorta di precedenza nella possibilità di ottenere informazioni e diffonderle.

L’allontanamento dei media considerati ostili è stato ancora più esplicito nel caso che ha riguardato i giornalisti dell’agenzia di stampa Associated Press – la più nota e importante agenzia del mondo, chiamata anche semplicemente AP –, a cui è stato negato l’accesso a una serie di iniziative pubbliche del presidente, nonché l’ammissione sull’Air Force One, l’aereo presidenziale. Ed è stata una ritorsione esplicita contro la scelta dell’agenzia di mantenere la denominazione “Golfo del Messico” per il tratto di mare che conosciamo con quel nome, e che un ordine esecutivo di Trump ha ribattezzato “Golfo d’America”.

Il caso di Associated Press è quello che sta venendo discusso con più animosità e preoccupazione nelle redazioni americane, perché mostra un’ingerenza spregiudicata nelle scelte giornalistiche ed editoriali dei giornali, oltre che un puntiglio capriccioso e imprevedibile da parte del presidente. Trump ha infatti detto di voler «tenere fuori» i giornalisti di Associated Press finché non useranno il nuovo nome: AP sta conducendo delle trattative, anche con la mediazione dell’associazione dei corrispondenti della Casa Bianca, ma non è intenzionata a cedere sul punto specifico e ha citato la possibilità di portare la questione in tribunale per violazione dei propri diritti costituzionali. La portavoce Lauren Easton ha detto: «La questione qui è che il governo dice al pubblico e alla stampa quali parole usare e si vendica se non si seguono i suoi ordini». Nella sua newsletter Reliable Sources Brian Stelter di CNN segnala anche che i vertici di AP sarebbero delusi dalla limitata solidarietà espressa dagli altri grandi media, preoccupati di «essere i prossimi». Ma altri commentatori notano come la testardaggine di Trump e la sua inclinazione a tenere il punto rendano rischioso aumentare il livello dello scontro, e quindi sia forse più saggia la scelta di evitare una rottura ancora maggiore. Anche se in questo momento nessuno vede uno scenario realistico per cui la questione si possa risolvere.

Con il segretario all’Interno Doug Burgum e la moglie Kathryn Burgum, sull’Air Force One con una cartina con il “Golfo d’America” (AP Photo/Ben Curtis)

Un’altra questione è quella degli abbonamenti ai giornali pagati dall’amministrazione pubblica per i suoi dipendenti: gli enti di governo, compresi quelli che si occupano di sicurezza, dovranno cancellarli. L’indicazione è arrivata dagli uffici della presidenza e da quelli del DOGE, il “dipartimento per l’efficienza del governo” guidato dal miliardario Elon Musk. Hanno presentato questi abbonamenti come un indebito contributo pubblico ai giornali, citando soprattutto gli 8 milioni di dollari spesi nel 2024 per il sito Politico: è la più importante e seguita testata dedicata alla politica di Washington e ha un servizio di abbonamento a pagamento, Politico Pro, considerato una fonte utile per molti settori dell’amministrazione pubblica.

La cancellazione degli abbonamenti è stata imposta anche ad ambasciate e consolati all’estero: riguarda anche quelli ai media locali, con possibili problemi per i diplomatici nel reperimento di informazioni utili al loro lavoro. È stato però indicato che devono essere eliminati in modo prioritario gli abbonamenti a Economist, New York Times, Politico, Bloomberg News, Associated Press e Reuters.

Una terza parte dell’attacco contro i giornali riguarda le cause legali: fra le molte minacciate, due sono state portate avanti sin dalla campagna elettorale. La prima era contro l’emittente televisiva ABC News, con una denuncia per diffamazione: il 10 marzo 2024 il conduttore George Stephanopoulos durante un’intervista a una deputata del Partito Repubblicano aveva più volte detto che Trump era stato «condannato per stupro», quando invece è stato condannato per abuso sessuale (nel processo civile intentato dalla giornalista E. Jean Carroll). Disney, azienda proprietaria di ABC News, ha accettato di pagare 15 milioni di dollari in un patteggiamento, per evitare di andare a processo: l’accordo è stato trovato dopo le elezioni.

La seconda causa è più politica ed è giudicata decisamente più avventata: Trump sostiene da mesi che un normale lavoro di montaggio di un’intervista di CBS News a Kamala Harris sia stato una violazione deliberata delle regole del giornalismo, volta a favorire Harris alle elezioni e a danneggiare lui, tagliando parte di una sua risposta. Ha chiesto dieci milioni di dollari di risarcimento (poi aumentandoli a venti) in una causa contro Paramount Global, la grande multinazionale dei media che possiede CBS. Il lavoro di CBS e in particolare della trasmissione 60 Minutes in questo caso è stato simile a quelli di quasi tutte le redazioni che realizzano interviste televisive, e lo hanno dimostrato le trascrizioni integrali dell’intervista. Ma la causa è comunque un problema per Paramount: l’azienda ha infatti avviato un processo di fusione con un altro gruppo del settore, Skydance, soggetto ad approvazione della Commissione federale per la comunicazione.

A capo della Commissione è stato nominato Brendan Carr, agguerrito sostenitore di posizioni conservatrici e trumpiane. Carr ha espressamente dichiarato che il “caso CBS” potrebbe «essere considerato» quando si tratterà di decidere l’approvazione della fusione societaria. Principalmente per questo motivo Paramount starebbe valutando la possibilità di arrivare a un accordo di risarcimento, un’ipotesi però criticata da molti commentatori e definita da alcuni ai «limiti della corruzione».

Nei prossimi mesi l’attività della Commissione federale per la comunicazione potrebbe assumere un ruolo più rilevante che in passato, proprio in quest’ottica di contrapposizione a molti media “tradizionali”. Carr in questo mese ha già aperto indagini sulla PBS, la televisione pubblica statunitense, e sulla NPR, la radio pubblica, accusandole di mandare in onda degli spot pubblicitari, cosa che è loro vietata. Le due reti da anni accettano sponsorizzazioni dei loro programmi, definite underwriting spot, che si dovrebbero differenziare dalle pubblicità in senso stretto perché più limitate e senza inviti diretti all’acquisto. La minaccia è di bloccare il finanziamento pubblico delle due reti, che i sostenitori di Trump considerano troppo progressiste.