Non siamo fatti per ricordare le pandemie
A poche persone va di parlarne, per ragioni psicologiche e cognitive, e questo ha effetti su ciò che resta nella memoria delle generazioni future

All’inizio degli anni Novanta un anziano eschimese yupik, Harold Napoleon, scrisse un libro mentre era detenuto nel carcere della città di Fairbanks, in Alaska. Si intitolava Yuuyaraq, che nelle lingue yupik significa “come essere un essere umano”, e descriveva gli effetti storici delle epidemie sulla cultura delle popolazioni native dell’Alaska. La più grave, un’epidemia di influenza chiamata dagli anziani «la grande moria», aveva causato nel 1900 la morte di circa metà della popolazione.
Napoleon era il nipote di uno yupik della numerosa generazione di giovani rimasti orfani durante l’epidemia. Per scelta comune ma inconsapevole, forse per paura di non saper gestire le loro emozioni, quei giovani non avevano mostrato né condiviso il dolore per quella catastrofe. Nessuno ne aveva mai più parlato, e tutti si erano limitati a citarla come «la grande moria». Ignorarla diventò un tratto culturale degli yupik, che hanno anche una parola per descrivere un preciso modo di affrontare certi problemi ed eventi spiacevoli della vita: nallunguarluku, “far finta che non sia successo”.
Sebbene in proporzione molto meno mortale rispetto all’epidemia del 1900 in Alaska, la pandemia da coronavirus del 2020 ha suscitato nella popolazione una reazione storica che sembra in parte replicare su larga scala diversi aspetti della rimozione collettiva del trauma intergenerazionale della popolazione yupik. Già prima del 2023, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva stabilito che non fosse più un’emergenza sanitaria, la pandemia era uscita dall’ordine dei discorsi molto rapidamente, dopo esserne stata a lungo il centro.
Qualcosa di simile era già successo con un’altra pandemia, la più devastante del Novecento, che uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone in tutto il mondo: l’influenza spagnola del 1918-19. Gli storici non se ne occuparono per decenni. La loro attenzione rimase invece a lungo concentrata sulla Prima guerra mondiale, come ricostruito dallo storico della scienza e della medicina Mark Honigsbaum, che ne scrisse nel 2018 sul sito The Conversation.
Quell’oblio provvisorio, peraltro attestato dall’assenza di monumenti in ricordo delle persone morte durante le tre ondate di influenza, aveva destato qualche curiosità già nella prima metà del Novecento. L’epidemiologo inglese Major Greenwood, autore di un rapporto ufficiale sull’influenza spagnola nel Regno Unito, aveva definito nel 1935 «psicologicamente interessante» che l’impatto emotivo lasciato dalla pandemia fosse apparentemente «più debole di quello prodotto da eventi epidemiologici molto meno gravi».
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Le persone hanno “dimenticato” la pandemia da coronavirus per ragioni diverse. Una larga maggioranza ha smesso di parlarne in parte come meccanismo di difesa psicologico, ma anche per effetto di una carenza di ricordi precisi di quel periodo, dovuta alla monotonia della vita durante i lockdown e alla sovraesposizione alle informazioni. Prassi e sigle all’epoca usate ogni giorno e familiari a chiunque – i bollettini, i DPCM, le mascherine FFP2, il valore erre con zero, la variante delta – sono diventate meno chiare nei ricordi e apparentemente molto più distanti nel tempo, man mano che da quelle consuetudini smettevano di dipendere le giornate di tutti.
Per un sottoinsieme numericamente rilevante di persone il Covid è però stato più di un evento collettivo sconvolgente, ha scritto il giornalista Alexander Jürgs sulla Frankfurter Allgemeine. Su molti operatori sanitari e su chiunque abbia perso una persona cara, in alcuni casi senza poterla salutare e senza nemmeno poterne celebrare il funerale, la pandemia ha avuto un impatto emotivo diverso da quello che ha avuto su tutte le altre persone.
Gli effetti dell’isolamento forzato hanno avuto un peso diverso anche per ragazze e ragazzi adolescenti, privati di importanti risorse sociali in un momento fondamentale della loro formazione, con effetti non trascurabili sulla loro salute mentale. Insomma, la possibilità di dimenticare non è distribuita equamente nella popolazione, ha scritto Jürgs.

Una donna cammina vicino al bosco della Memoria, creato in memoria delle vittime della pandemia, al parco della Trucca, a Bergamo, il 26 ottobre 2021 (AP Photo/Luca Bruno)
In generale moltissime persone semplicemente non hanno voglia di parlare della pandemia. Quando questa ritrosia aveva già cominciato a manifestarsi nel 2023 diversi studiosi l’avevano associata alla voglia di non pensare al passato in modo da rendere più facile superare un momento difficile. Le persone tendono infatti a vedere il futuro in modo più positivo rispetto al passato, spiegò al Washington Post la psicologa cognitiva Suparna Rajaram, autrice di diversi studi sull’apprendimento e sull’amnesia. E la principale ragione è che il futuro può essere immaginato in molti modi rispetto al passato, che è invece considerato immutabile.
Il funzionamento della memoria è in realtà più complesso di così, perché molto di ciò che ricordiamo del passato dipende dalla nostra predisposizione nel presente. Gli eventi drammatici ed emotivamente coinvolgenti hanno più probabilità di essere ricordati, ma anche quelli sono soggetti a effetti distorsivi e processi di rimozione, come qualsiasi altro evento. Secondo William Hirst, docente di psicologia della New School for Social Research di New York, e autore di ricerche molto citate sulla formazione dei ricordi, l’aspetto meno affidabile della memoria è proprio il ricordo delle emozioni.
«Se chiedi alle persone di ricordare come si sono sentite nei primi giorni dopo l’11 settembre, [la risposta] è più simile a ciò che provano adesso che a ciò che davvero hanno provato i primi giorni dopo l’11 settembre», disse Hirst al Washington Post.
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Considerando memoria e oblio come parti in equilibrio e fondamentali di uno stesso processo, è come se l’inclinazione collettiva nel presente fosse più sbilanciata sull’oblio. In una certa misura è un comportamento «sano e adattivo», aveva scritto nel 2022 sul New York Times il neurologo statunitense Scott A. Small.
L’oblio agisce come una protezione da ansia, dolore e altre emozioni, anche più ordinarie, perché non cancella i ricordi ma ne riduce la potenza emotiva. Nei pazienti con disturbo post-traumatico da stress, per esempio, è vero il contrario: l’equilibrio è molto più sbilanciato verso la memoria, in genere di ricordi che generano ansia e paura.
Il precedente dell’influenza spagnola, al netto delle molte differenze storiche con il Covid, mostra che se e come una pandemia rimane nella memoria collettiva dipende soprattutto da come la società decide di elaborarla e di commemorarla per le generazioni future. La memoria trasmessa soltanto attraverso i racconti di storie di famiglia tende infatti a durare non più di due o tre generazioni. A volte non esiste affatto, come nel caso dei giovani yupik sopravvissuti all’epidemia del 1900 in Alaska.
In Italia la giornata nazionale in memoria delle vittime della pandemia da coronavirus si celebra ogni anno il 18 marzo. Fu istituita il 17 marzo 2021, in un momento in cui la pandemia era in corso e in cui l’immagine più simbolica e potente di quell’evento era ancora “fresca” nella memoria collettiva. Un anno prima, il 18 marzo, i camion militari in colonna lungo le strade di Bergamo avevano contribuito a rimuovere centinaia di bare depositate nel cimitero monumentale.
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Come ipotizzato nel 2023 sul Wall Street Journal dallo scrittore e giornalista Mark Oppenheimer, è anche possibile che la nostra ridotta capacità di ricordare le pandemie dipenda dal particolare significato che attribuiamo agli eventi catastrofici non riconducibili ad azioni umane dirette. Oppenheimer è nipote di una coppia di Philadelphia che, come molte altre persone, sopravvisse alla spagnola senza che ne venisse tramandata alcuna memoria nei racconti di famiglia. Eppure la pandemia ebbe effetti devastanti sulla popolazione della città, la più colpita negli Stati Uniti (solo in un giorno, il 18 ottobre 1918, morirono di influenza 759 persone).
Una delle teorie riportate da Oppenheimer e suggerita anche da Honigsbaum è che la pandemia fu eclissata dalla Prima guerra mondiale, un evento imparagonabile per molti aspetti, a cominciare dall’impatto sulle coscienze. «L’intero mondo civilizzato che si rivoltava contro sé stesso in un’orgia di guerra era più traumatizzante di un atto della natura», scrisse Oppenheimer. E questo perché, in sostanza, «sembrava qualcosa che l’umanità avrebbe potuto, con impegno, impedire che si ripetesse».
Questo portò a una concentrazione maggiore di risorse intellettive, politiche, economiche e culturali intorno alla Prima guerra mondiale. Numerose ricerche di immunologia ed epidemiologia indicano che migliori programmi di riduzione dei rischi e risposte più efficaci alle pandemie sono non solo possibili ma necessari. Esiste però anche una diffusa consapevolezza che i virus saranno in ogni caso sempre con noi, e con essi il rischio di nuove pandemie. Secondo Oppenheimer tendiamo invece a essere un po’ meno disillusi quando pensiamo alle guerre e alla crudeltà umana, perché immaginiamo che, volendo, potremmo non farle esistere.
Inoltre, a differenza dei milioni di soldati che erano morti per la patria nella Prima guerra mondiale, i milioni di morti per l’influenza non si prestavano facilmente a narrazioni di nazionalismo e sacrificio, scrisse Honigsbaum nel 2018. E diventarono «caduti dimenticati».
Anche l’infettivologo Renaud Piarroux, capo del dipartimento dell’ospedale Pitié-Salpetrière a Parigi e autore di libri sulle malattie infettive, parlando con il quotidiano Libération nel 2023 disse che le pandemie sono raramente citate nei libri di storia. In una sua opera monumentale sulla storia della Francia lo storico Jules Michelet cita a malapena la peste nera che colpì l’Europa nel Trecento, dilungandosi invece sulla coeva guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra.
Se parliamo molto raramente delle pandemie, disse Piarroux, «è perché è difficile costruire una narrazione commemorativa che renda omaggio a un particolare attore o eroe», e «perché non ci serve a costruire una nazione».
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Probabilmente non è un caso che anche nelle recenti commemorazioni collettive della pandemia da coronavirus sia comunque rintracciabile quasi sempre un’attenzione particolare alle attività sanitarie e alla solidarietà umana: cioè a tutto ciò che si presta a narrazioni di eroismo, di coraggio e di impegno civico volontario e intenzionale, non solo alle vittime di una catastrofe indiscriminata. Il bosco della Memoria inaugurato a Bergamo il 18 marzo 2021 sorge vicino al Papa Giovanni, l’ospedale al centro delle attenzioni del mondo durante la prima ondata per lo sforzo dei suoi medici e operatori sanitari.
Nemmeno il muro commemorativo a Londra, inaugurato anche questo a marzo 2021, è in un punto casuale della città. È il muro che costeggia l’ospedale St Thomas, uno dei più impegnati e attrezzati durante la pandemia: prima di allora era solo un muro; da allora è decorato con oltre 150mila cuori rossi, uno per ogni persona morta per il Covid.

Un gruppo di persone passa davanti al monumento commemorativo della pandemia da coronavirus davanti all’ospedale St Thomas, sulla riva sud del Tamigi, a Londra, il 7 aprile 2021 (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)



