Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemia

È una conseguenza della scarsa varietà di stimoli ambientali in quel periodo e del modo in cui funziona la memoria

memoria
Una scena del film “Memento”
Caricamento player

Negli ultimi tre anni, soprattutto nel 2020 e nel 2021, le condizioni eccezionali determinate dalla pandemia e dalle misure adottate per contrastarla hanno fornito a ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo l’opportunità di raccogliere e analizzare enormi quantità di dati e informazioni. Diverse ricerche di psicologia e neuroscienze hanno permesso di approfondire le conoscenze sui sogni, per esempio, o sulle reazioni agli eventi traumatici e alla sovraesposizione alle notizie.

Una parte delle ricerche si è concentrata anche sulla percezione distorta del tempo durante la pandemia e su come il normale funzionamento della memoria sia stato condizionato da molti fattori relativi alle routine atipiche di quel periodo. Un’impressione comune e molto condivisa è che sia piuttosto faticoso rievocare e distinguere con chiarezza i ricordi delle cose successe durante le fasi di isolamento. E che sia difficile associare con precisione un determinato evento a un particolare momento della pandemia anziché un altro: dire se quell’evento sia avvenuto nell’autunno del 2020 o del 2021, per esempio.

Questa sensazione largamente condivisa è stata interpretata e descritta dagli studiosi che se ne sono occupati come un fenomeno del tutto normale, molto utile a spiegare per contrasto come funziona la memoria in circostanze normali. Le nostre giornate sono solitamente scandite da eventi – spostamenti in macchina o appuntamenti a cena, per esempio – che forniscono «punti di riferimento temporali», scriveva già alla fine del 2020 un gruppo di ricercatori canadesi della Université Laval, a Québec, in uno studio sulla percezione del tempo durante la pandemia pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology.

Quando quei punti di riferimento vengono meno, non solo la nostra percezione del tempo cambia ma cambia anche il modo in cui memorizziamo le informazioni. Non avere molti ricordi chiari e contestualizzati delle cose successe durante la pandemia non è quindi l’effetto di una successiva rimozione o perdita della memoria di quegli eventi, in questo caso, ma piuttosto del fatto che in quel periodo non abbiamo “immagazzinato” informazioni nel modo in cui lo facciamo abitualmente.

Per codificare nuovi ricordi e recuperare quelli vecchi il nostro cervello utilizza i cambiamenti nel contesto e i confini degli eventi come una specie di sostegno: stimoli che attivano una diversa attenzione alle circostanze. E tanto più forti e fuori dall’ordinario sono gli stimoli, tanto è più probabile la formazione dei ricordi di quegli eventi. Dopo l’impatto iniziale con la straordinarietà della pandemia – e molti infatti ricordano bene cosa facevano e dove si trovavano nei primissimi giorni – la vita di moltissime persone nel mondo si è svolta invece in un contesto di eccezionale monotonia.

– Leggi anche: La pandemia noiosa

L’ambiente ripetitivo e privo di stimoli vari in cui le persone hanno trascorso grandissima parte del loro tempo in isolamento è un tipo di ambiente «cognitivamente scarso», ha detto alla rivista canadese The Walrus la neuropsicologa e scienziata cognitiva canadese Morgan Barense della University of Toronto. E questa condizione comporta inevitabilmente una serie di conseguenze.

Il cosiddetto doomscrolling, la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie (perlopiù drammatiche e deprimenti) sugli smartphone, è stato per molte persone un tentativo del tutto spontaneo di arricchire la memoria a breve termine in momenti della giornata che prima della pandemia erano destinati ad altre attività. Ricevere meno stimoli nuovi significa anche stimolare di meno la memoria in generale: una carenza che si riflette sia in una ridotta formazione di nuovi ricordi, sia in una diminuzione degli stimoli necessari a rafforzare i ricordi di esperienze passate correlate a stimoli di quello stesso tipo.

Percorrere ogni giorno in macchina una certa strada da casa all’ufficio, per esempio, è un’attività routinaria che in quanto tale generalmente non attiva un’attenzione diversa da quella di tutti i giorni lungo quello stesso tragitto. Il percorso fornisce però una serie di stimoli – passare da un certo negozio o da una scuola, o incrociare un amico – che possono in molti casi, anche in modo molto indiretto, funzionare come segnali di recupero di esperienze già vissute e rafforzarne il ricordo.

Aver formato meno ricordi durante la pandemia è un fenomeno direttamente associato anche alle alterazioni nella normale percezione del tempo, e cioè la sensazione che scorra troppo lentamente o troppo velocemente, o l’incapacità di distinguere un giorno feriale da uno festivo: distorsioni conosciute nella letteratura psichiatrica come «disintegrazione temporale» e associate a vari disturbi della salute mentale.

Per uno studio longitudinale, cioè che misura le variazioni nel tempo, pubblicato nel 2022 su una rivista della American Psychological Association (la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti), un gruppo di ricercatori della University of California Irvine condusse due sondaggi su 5.661 persone all’inizio e alla fine dei primi sei mesi della pandemia. Circa due terzi degli intervistati riferirono di aver avuto una percezione distorta del tempo. I ricercatori conclusero che le distorsioni nella percezione del tempo erano molto comuni e associate a diversi fattori tra cui la salute mentale e i livelli di stress prima della pandemia, e l’esposizione a eventi traumatici durante la pandemia.

Nel caso delle esperienze traumatiche l’alterazione dei ricordi e della percezione del tempo ha ragioni diverse dalla povertà degli stimoli e dalla monotonia dell’ambiente, e riguarda piuttosto una difficoltà nella rielaborazione degli eventi.

– Leggi anche: Vi capita di ricordare in terza persona?

Come spiegava sul New York Times in un articolo del 2022 il neurologo statunitense Scott A. Small, noto per le sue ricerche sull’Alzheimer e sull’invecchiamento cognitivo, i neuroni contengono quelle che a volte sono definite «nanomacchine» dedicate alla formazione di nuovi ricordi, ma anche nanomacchine completamente diverse che servono allo scopo opposto: smantellare accuratamente – e quindi dimenticare – le parti dei nostri ricordi immagazzinati.

In una certa misura, l’oblio determinato da questa attività neurologica – da non confondere con la rimozione nella psicoanalisi – è un fenomeno normale. E non dovrebbe essere considerato un malfunzionamento della memoria, secondo Small, ma una parte «sana e adattiva» del normale funzionamento del cervello. Memoria e oblio, in altre parole, sono parti di uno stesso processo e in un equilibrio fondamentale per la nostra salute mentale: dipendiamo dalla memoria per «registrare, imparare e ricordare» gli eventi, e dall’oblio per «compensare, scolpire e soffocare i nostri ricordi».

La mancanza di questo equilibrio è particolarmente evidente, per esempio, nei casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In circostanze normali l’oblio agisce come una protezione dall’ansia debilitante, ha scritto Small, perché non cancella i ricordi ma ne riduce la potenza emotiva. Che è un meccanismo del cervello in funzione sempre, anche quando i ricordi sono associati a emozioni più ordinarie: dimenticare nel senso di mettere da parte dolore o risentimento, per esempio, è spesso una condizione necessaria a preservare relazioni sociali e amicizie. E non vuole dire che il ricordo in sé sia scomparso dalla memoria.

Nei pazienti con disturbo post-traumatico da stress l’area del cervello che immagazzina ricordi che generano ansia e paura è molto attiva, e appare invece molto diminuita la capacità dell’individuo di ridurre la potenza emotiva di quei ricordi. Semplificando i termini ma con cautela, ha scritto Small, è possibile pensare al disturbo post-traumatico da stress come a un disturbo contraddistinto da un eccesso di memoria e un difetto di oblio nel senso di «dimenticare in modo sano» un’esperienza traumatica.

Di disturbo post-traumatico da stress si è parlato anche in relazione a particolari reazioni alla pandemia, da alcuni associate per tipologia di sintomi a forme lievi di PTSD. Lo stress cronico e l’incertezza sulla propria sopravvivenza sperimentate da molte persone durante la pandemia, secondo Barense, ha provocato in loro un’ansia prolungata e condizionato negativamente la loro memoria e la salute mentale, anche in assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia.

– Leggi anche: Cosa può insegnare un incidente aereo sulle nostre reazioni alla pandemia

In alcuni casi, ha detto a The Walrus lo psicologo canadese della University of Toronto Scarborough Steve Joordens, persone che hanno temuto per la loro vita anche in funzione di particolari vulnerabilità – persone immunodepresse o in precarie condizioni di salute – hanno avuto attacchi di panico o altre reazioni emotive incontrollate al momento di tornare a uno stile di vita normale.

Casi di questo tipo possono succedere per il modo in cui sono fatti i nostri cervelli, che si sono evoluti per prevedere minacce immediate – i predatori, per esempio – e riconoscere segnali già associati in precedenza a esperienze pericolose, ha ricordato Joordens. Quei segnali attivano a loro volta sensazioni di paura, ma in alcuni casi lo fanno anche in assenza di un pericolo concreto. Vivere l’esperienza di trovarsi in un bar poco prima di una sparatoria, per esempio, potrebbe portare una persona a sentirsi in pericolo in futuro anche solo ascoltando il rumore della macinatura del caffè, associato all’evento traumatico (che è il funzionamento classico del disturbo post-traumatico da stress).

Nel caso delle persone che hanno avuto difficoltà a tornare alla normalità dopo i lunghi periodi di isolamento durante la pandemia, il cervello ha tracciato una serie di associazioni tra determinati stimoli – gli assembramenti, per esempio – e una profonda sensazione di paura. In alcuni casi particolarmente problematici le persone hanno avuto bisogno dell’aiuto di specialisti.

Per la maggior parte delle persone il ritorno alla normalità invece non è stato difficile, e ha determinato anzi una scarica molto intensa di stimoli nuovi e per lungo tempo assenti. Questa condizione particolare, ha detto Barense, può in molti casi portare anche a diversi tipi di miglioramento improvviso della memoria negli adulti. È un fenomeno noto nella letteratura scientifica come «picco di reminiscenza», e si verifica – a volte a seguito di un cambiamento significativo nella vita – quando le persone sperimentano un miglioramento dei ricordi della prima infanzia o dell’adolescenza.

– Leggi anche: A che età risalgono i nostri primi ricordi