Vi capita di ricordare in terza persona?

La rievocazione di esperienze personali da una prospettiva esterna è dovuta a diversi fattori ma dice molto anche del normale funzionamento della memoria

ricordi terza persona
Una scena della serie animata “I Simpson”
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Ricordare una normale esperienza quotidiana, specialmente se recente, implica di solito una visualizzazione degli oggetti e dello spazio dallo stesso punto di vista che si aveva al momento dell’esperienza vissuta. Se cerchiamo di ricordare con precisione la colazione di stamattina o un appuntamento con qualcuno qualche giorno fa, per esempio, recuperiamo generalmente una successione di immagini mentali – salvo eccezioni – in cui la nostra prospettiva visiva e spaziale non è nel frattempo cambiata.

Esistono però casi in cui il ricordo di un’esperienza vissuta in prima persona si presenta come la scena di un film, ripresa da un’inquadratura non in soggettiva: quindi da una prospettiva esterna al soggetto del ricordo. In altre parole: nei ricordi, a volte, il nostro punto di vista non coincide con quello che avevamo al momento dell’esperienza che stiamo ricordando. È un fenomeno comune ma che non tutti sperimentano, ed è solitamente circoscritto a particolari ricordi.

Oltre che oggetto di ricerche e studi specifici, vedersi da fuori nei ricordi di esperienze vissute personalmente è considerato un esempio utile a spiegare il funzionamento della memoria: sia nei casi patologici che in circostanze normali. Lo studio dei casi patologici, necessario per stabilire cure più appropriate, può anche chiarire i processi che portano alla normale formazione dei ricordi e i possibili effetti di particolari sostanze su quei processi.

Le discussioni e le analisi portate avanti a partire dal fenomeno dei ricordi in terza persona contribuiscono inoltre a indebolire l’idea molto diffusa, ma ampiamente smentita dalle neuroscienze e dalla psicanalisi, che la memoria funzioni come una sorta di videoregistratore di esperienze. E stimolano riflessioni che hanno poi importanti implicazioni in tutti i diversi ambiti in cui ai ricordi è spesso attribuito un valore di eccessiva affidabilità trascurando i molti fattori che li influenzano.

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Il celebre neurologo austriaco Sigmund Freud è considerato uno tra i primi teorici ad aver descritto la prospettiva dei ricordi in terza persona, e ad averla associata prevalentemente ai ricordi dell’infanzia. Freud ipotizzò che fosse una sorta di «schermo» utilizzato dalle persone per prendere le distanze da esperienze emotivamente difficili occorse durante quella fase della vita. E che l’atto di ricordare da una prospettiva esterna fosse associato a una trasformazione della memoria originaria dell’evento, un’interpretazione poi divenuta prevalente nella letteratura scientifica dei decenni successivi.

Gli studi sui ricordi in terza persona sono stati approfonditi in particolare negli ultimi vent’anni, e hanno permesso di riscontrare una diffusione del fenomeno più estesa di quanto si pensasse precedentemente. Una maggiore frequenza di ricordi di questo tipo, accompagnata da un aumento dei deficit di memoria, è stata associata a diverse condizioni psicopatologiche, tra cui la depressione, l’ansia e la schizofrenia, attraverso i resoconti di pazienti che riferivano di essere spettatori passivi delle proprie esperienze passate.

In anni recenti proprio la ricerca di nuove terapie per la depressione resistente ai farmaci ha peraltro portato a studiare meglio alcune sostanze psichedeliche, in particolare la ketamina, i cui marcati effetti dissociativi presentano alcuni aspetti in comune con la prospettiva dei ricordi in terza persona. Della ketamina è infatti nota, tra le altre cose, la capacità di indurre la sensazione di essere scollegati dall’ambiente fisico circostante e da sé stessi.

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La letteratura scientifica più recente descrive in generale i ricordi in terza persona come un fenomeno piuttosto comune, sebbene diffuso nella popolazione con frequenza, cause e implicazioni diverse rispetto a quelle relative ai casi psicopatologici. Secondo alcune ricerche, in circa un terzo dei ricordi spontanei la popolazione adulta assume una prospettiva in terza persona. E circa il 90 per cento delle persone ha almeno un ricordo in terza persona, ha detto recentemente all’Atlantic Peggy St. Jacques, docente di psicologia alla University of Alberta ed esperta in materia.

Una difficoltà nella stima dell’incidenza dei ricordi in terza persona è data dal fatto che meno recenti sono gli eventi a cui si riferiscono – come appunto nel caso dell’infanzia – più aumentano le possibilità che quei ricordi siano il risultato di rielaborazioni compiute a partire da racconti, fotografie o altre fonti, piuttosto che da una reale esperienza diretta. E il confine tra una cosa e l’altra è in quei casi molto incerto.

Il fatto che gli eventi possano essere rievocati assumendo una prospettiva in terza persona è descritta in molti studi come una prova della capacità ricostruttiva della memoria, che è in grado di trasformare eventi precedentemente sperimentati e codificati da una prospettiva in prima persona. Questa capacità è stata inoltre correlata a un insieme di fattori e di vari attributi relativi al contenuto della memoria.

In alcuni casi la prospettiva esterna è associata più frequentemente al ricordo di esperienze in cui la persona abbia provato sensazioni di ansia, di imbarazzo o di vergogna, come per esempio subire un’umiliazione in pubblico. In altri casi le ricerche mostrano una correlazione, comprensibile anche intuitivamente, tra la prospettiva in terza persona e quanto lontano sia nel tempo l’evento ricordato.

Una spiegazione ritenuta plausibile del perché i ricordi in terza persona siano più frequenti nel caso dei vecchi ricordi è l’assenza di sufficienti dettagli relativi all’avvenimento in questione. E meno dettagli si hanno di un certo ricordo lontano, meno è probabile riuscire ad assumere nuovamente il punto di osservazione originario, come ha spiegato all’Atlantic David Rubin, ricercatore del dipartimento di psicologia e neuroscienze della Duke University, uno dei più conosciuti e citati esperti di memoria autobiografica insieme alla ricercatrice e sua collega Jennifer Talarico.

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Provare ad assumere la prospettiva di una terza persona quando si rievoca un ricordo è un’azione a volte incentivata in alcuni contesti non sperimentali in modo probabilmente controproducente, ha detto all’Atlantic St. Jacques riferendosi alle aule di tribunale. Per cercare di ottenere descrizioni più dettagliate della scena di una rapina, per esempio, ai testimoni oculari può essere chiesto di ricordarla dal punto di osservazione di un impiegato. Ma diversi studi, tra cui uno di St. Jacques pubblicato nel 2019, indicano che le persone sono tendenzialmente in grado di ricordare più dettagli quando viene loro chiesto di assumere una prospettiva in prima persona.

Capita inoltre che i testimoni oculari assumano spontaneamente una prospettiva esterna, soprattutto nel caso di ricordi emotivamente intensi o traumatici come una rapina. Questa forma, come in parte già ipotizzato da Freud, potrebbe essere il risultato del tentativo inconscio di allontanarsi visivamente e spazialmente dall’esperienza dolorosa. Oppure, come sostiene Rubin, potrebbe essere l’effetto del bisogno di ricordare dettagliatamente qualcosa ma in mancanza di informazioni sufficienti.

In certe situazioni le persone tendono infatti a concentrarsi su un particolare piuttosto che sui dettagli della scena. Alcuni studi molto conosciuti della psicologa statunitense Elizabeth Loftus sull’affidabilità delle testimonianze oculari, per esempio, hanno descritto la concentrazione dell’attenzione sulle armi (un effetto noto come weapon focus). E hanno mostrato quanto sia difficile per un testimone ricordare accuratamente i dettagli di una scena, come per esempio gli abiti di una persona, in presenza di un’arma.

Anche le cosiddette esperienze di pre-morte, secondo Rubin, potrebbero essere spiegate meglio attraverso gli argomenti e le ipotesi formulate per studiare i ricordi in terza persona. Persone che, parlando di un evento passato, affermano retrospettivamente di aver vissuto fuori dal loro corpo per qualche breve attimo potrebbero essere state indotte da un trauma a ricodificare un ricordo in prima persona in uno in terza persona.

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Gli studi di St. Jacques mostrano quanto la rievocazione di ricordi in terza persona abbia in comune, sotto molti aspetti, con la memoria in generale e con l’immaginazione. Le ricerche nel campo delle neuroscienze, sebbene ancora in una fase iniziale, hanno permesso infatti di scoprire che lo spostamento del punto di osservazione nei ricordi e la descrizione di scene inventate del tutto si basano su processi mentali che si verificano nelle stesse aree del cervello. E le prime conclusioni descrivono come atti molto simili tra loro sia ricordare il passato che proiettare sé stessi nel futuro.

I ricordi in terza persona, scrive l’Atlantic, sono un esempio incontrovertibile di quanto la memoria possa confondersi con l’immaginazione. Ci permettono di avere certezza di un effetto distorsivo della memoria, nella misura in cui sappiamo per certo di non avere sperimentato la prospettiva che assumiamo nel ricordo. E se siamo in grado di distorcere qualcosa di così centrale come la prospettiva, senza nemmeno accorgercene, «quanto possiamo essere davvero sicuri di uno qualsiasi dei dettagli del ricordo?», si chiede l’Atlantic.

Alcune ricerche recenti si sono infine occupate della relazione tra identità e ricordi in terza persona, mostrando come i cambiamenti di prospettiva influenzino il senso che le persone danno a sé stesse. In uno studio del 2019 pubblicato sul Journal of Experimental Psychology: General – una rivista della American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti – i ricercatori e le ricercatrici condussero una serie di esperimenti su un gruppo di giovani studentesse.

Inizialmente chiesero loro se fossero interessate o no alle materie scientifiche e tecnologiche. Dopodiché le invitarono a partecipare ad attività di tipo scientifico: alcune ad attività pensate per essere coinvolgenti, altre ad attività pensate per essere noiose. In successive interviste chiesero alle studentesse cosa ne pensassero di quelle attività: ma ad alcune chiesero di farlo da una prospettiva in prima persona, e ad altre da una prospettiva in terza persona.

I risultati dell’esperimento mostrarono che le risposte del primo gruppo, quello che aveva assunto la prospettiva in prima persona, tendevano a riflettere quanto l’attività fosse realmente coinvolgente, a prescindere da precedenti affermazioni delle partecipanti. Le risposte del secondo gruppo si attenevano invece alla risposta fornita all’inizio dell’esperimento, prima di svolgere l’attività.

Secondo la psicologa statunitense Lisa Libby dell’Ohio State University, una delle coautrici dello studio, ai due diversi tipi di prospettiva sembrerebbero corrispondere funzioni diverse. Nei ricordi la prima persona tende a essere una prospettiva più pratica e sincera, che facilita il tentativo di recuperare le sensazioni provate al momento dell’evento ricordato. La terza persona tende invece a essere una prospettiva più narrativa e coerente, che favorisce una contestualizzazione dell’esperienza che sia in linea con convinzioni precedenti.