I falsi ricordi dell’11 settembre
Diversi studi dimostrano che le memorie individuali che associamo nitidamente a grandi eventi collettivi possono cambiare nel tempo, anche se siamo convinti di no
Nei primi giorni dopo l’11 settembre 2001, un gruppo di ricercatori dei dipartimenti di psicologia e neurologia di 15 istituti e università americane raccolse nelle principali città del paese una serie di ricordi istantanei riferiti da oltre 3 mila persone. I ricercatori chiesero a quelle persone dove si trovassero e cosa stessero facendo nei momenti dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York del 2001, e come avessero appreso e seguito quella notizia. Quelle interviste facevano parte di un ampio studio sui fattori che influenzano i ricordi autobiografici collegati a eventi di grande rilevanza storica e mediatica.
Un anno dopo, i ricercatori fecero le stesse domande alle stesse persone e scoprirono che circa il 40 per cento degli intervistati aveva ricordi diversi rispetto a quelli riferiti un anno prima. C’era, per esempio, chi diceva che nel momento dell’attacco terroristico si trovava in ufficio, ma un anno prima aveva detto di trovarsi su un treno. Altri che avevano detto di trovarsi in ufficio sostenevano, dopo un anno, di essere per strada al momento dell’attacco. Successivi studi per aggiornare i risultati, nel 2015, appurarono che le persone si attengono ai dettagli del “falso” ricordo, non di quello istantaneo, quando rievocano i momenti dell’evento a dieci anni di distanza.
«La memoria umana non è come un computer, la memoria umana è estremamente fallibile», commentò uno dei principali autori dello studio, William Hirst, docente di psicologia della New School for Social Research di New York. Il lavoro di Hirst e degli altri autori rientra in un cospicuo insieme di ricerche sulla memoria che da tempo dimostrano quanto il processo di formazione dei ricordi individuali – specialmente quelli traumatici – sia dinamico e tenda, nel tempo, ad alterare quelli istantanei o sistemarli in storie strutturate e coerenti, benché inaccurate, anche per effetto di condizionamenti riconducibili ai media, alle discussioni nel gruppo sociale di appartenenza e agli stati emotivi dell’individuo.
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Utilizzando un approccio simile a quello seguito da ricercatori come Hirst, il giornalista del New York Times Dan Barry ha recentemente intervistato alcune delle persone coinvolte nelle vicende umane e nei momenti fisicamente ed emotivamente più impegnativi legati ai fatti dell’11 settembre. E ha trovato conferma all’ipotesi, largamente condivisa tra gli studiosi che si occupano di memoria, che i ricordi istantanei possano a volte subire alterazioni significative o persino andare incontro a processi di rimozione, a seconda dei casi e delle circostanze.
Michael Regan, un ex vigile del fuoco che diventò primo vice-comandante dopo l’11 settembre e oggi lavora come dirigente per la banca JPMorgan Chase, coordinò decine di funerali e fornì aiuto a centinaia di famiglie direttamente coinvolte negli attentati. Ha raccontato al New York Times che per un certo periodo, dopo l’11 settembre 2001, continuò a essere tormentato dal senso di colpa e a rimproverarsi per non aver avuto il coraggio di andare al World Trade Center negli istanti subito dopo gli attacchi terroristici.
Quando Regan condivise questa sensazione parlando con un suo collega vigile del fuoco, due mesi più tardi, quello – sbalordito – gli rispose che al World Trade Center c’era stato eccome. Regan aveva aiutato a trasportare dal World Trade Center all’obitorio sulla First Avenue i corpi del primo vice-comandante, Bill Feehan, e del capo del dipartimento, Peter Ganci, morti nel crollo delle torri durante i primi soccorsi. Al New York Times ha spiegato che quel suo «blocco mentale» era un modo per far fronte alla morte istantanea di migliaia di persone, alcune delle quali suoi intimi amici. «Era un meccanismo di difesa. Quel giorno ho visto cose orribili, e non volevo pensarci», ha detto poi.
«Quando sento l’espressione “Non dimenticare mai” [Never Forget] associata all’11 settembre, la mia domanda è: “Non dimenticare mai cosa?”», ha detto Charles Stone, docente di psicologia al John Jay College of Criminal Justice della City University di New York. Alcuni si chiedono se con quella frase si intenda porre l’attenzione sullo scenario politico che fece da sfondo a quell’evento, o sulle insicurezze nazionali che seguirono quel periodo, o sui successivi vent’anni di guerra. «Probabilmente la risposta più precisa è: non dimenticare mai che è successo. Ma sono i piccoli dettagli, ciò che verrà dimenticato», ha detto Stone.
Secondo Elizabeth Phelps, docente di neuroscienze all’Università di Harvard e coautrice dello studio sulla memoria collettiva dell’11 settembre, uno degli aspetti che permettevano di distinguere i ricordi riferiti dalle persone intervistate dai normali ricordi autobiografici era l’estrema fiducia con cui avevano sviluppato quei loro ricordi alterati, e quanto quei ricordi – dal primo anno dopo l’evento in poi – si fossero rafforzati nel tempo. «Hai la tua versione e ti attieni a essa», ha detto Phelps.
Una scena del film del 2008 “Valzer con Bashir”, diretto da Ari Folman
Inoltre, a differenza di altri ricordi, quelli riferiti all’11 settembre e rimasti sostanzialmente immutati nel tempo dopo la prima alterazione di quelli istantanei – la discrepanza rilevata dai ricercatori nel 40 per cento dei casi – tendono a essere particolarmente dettagliati. Phelps e gli altri suoi colleghi scoprirono che le persone intervistate trattenevano molte informazioni legate a quei ricordi, e che alcuni dettagli precedentemente indefiniti o imprecisi tendevano a essere corretti nel tempo, probabilmente per effetto dei condizionamenti esercitati dalle narrazioni mediatiche o di quelle all’interno di un gruppo di appartenenza.
Anche secondo Hirst le alterazioni dei ricordi dell’11 settembre potrebbero essere in qualche modo collegate a un senso di identità. Allineare una propria narrativa personale e renderla coerente rispetto a un momento successivo della storia, da questo punto di vista, potrebbe essere un modo per affermare di essere parte della comunità interessata dall’evento. E il fatto che i ricordi non siano accurati potrebbe avere meno a che fare con la memoria e più con il modo in cui ci vediamo come parte di una comunità e parte della storia.
«Quel giorno – specialmente le prime ore – è stato raccontato, confezionato, interpretato e frainteso in modo così esaustivo negli ultimi due decenni che è facile ricordare cose che abbiamo visto solo in televisione o di cui abbiamo sentito parlare in seguito. È anche facile ricordare cose che non sono successe affatto», ha scritto l’autrice Mary Elizabeth Williams su Salon.
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Nel 2015, in una dichiarazione molto ripresa e contestata, l’allora candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump sostenne di ricordare di aver visto gruppi di musulmani americani riuniti a Jersey City, in New Jersey, a ballare e fare festa in strada subito dopo il crollo delle Torri. Invitato a chiarire quelle sue affermazioni, peraltro confermate dal conduttore televisivo di Fox News Steve Doocy, Trump disse: «L’ho visto in televisione. Ho visto i video. E li hanno visti molte altre persone. E altre lo hanno visto di persona». Nessun video del genere è mai stato trasmesso: «Le notizie riguardo a queste celebrazioni diffuse erano semplicemente false», disse nel 2015 l’allora governatore del New Jersey Donald DiFrancesco.
Nel 2016, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani si scusò pubblicamente con la candidata democratica alla presidenza Hillary Clinton per averle erroneamente attribuito alcune dichiarazioni. «Ho sentito che diceva di trovarsi a New York, quel giorno. Io ero lì quel giorno, e non ricordo di aver visto Hillary Clinton», aveva detto Giuliani. Clinton non aveva mai affermato di essere stata a New York l’11 settembre. Alcune foto di lei che cammina vicino a Giuliani, nella parte bassa di Manhattan, furono scattate il giorno dopo gli attentati.
Una prima, estesa descrizione scientifica dei «ricordi istantanei» (flashbulb memories) legati a eventi di importanza storica negli Stati Uniti risale agli anni Settanta. Nel 1977, due ricercatori dell’Università di Harvard, Roger Brown e James Kulik, notarono che le persone sembravano avere ricordi molto chiari delle circostanze e dei modi in cui avevano saputo dell’assassinio del presidente John F. Kennedy, avvenuta nel 1963.
Brown e Kulik scoprirono che le persone ricordavano molti dettagli – più di quanto càpiti in circostanze normali – riguardo al contesto di apprendimento delle notizie dal forte impatto emotivo. E ipotizzarono quindi che le notizie di quel tipo producessero una forma atipica di memoria, più persistente e più dettagliata. Utilizzarono la parola “flash” (flashbulb) per indicare che in quei casi è come se la memorizzazione del contesto si avvalesse di una sorta di lampo che illumina meglio alcuni aspetti della scena, ma non tutti. Non era esattamente come una fotografia.
Lo stesso Kulik, per esempio, disse di ricordare ancora – 13 anni dopo la morte di Kennedy – il momento in cui la sua insegnante aveva appreso della morte del presidente e, in lacrime, lo aveva annunciato in classe. Ma non ricordava né l’acconciatura dell’insegnante né l’abito che indossava. Lui e Brown conclusero che c’era qualcosa di intrinsecamente diverso nei «ricordi istantanei» rispetto a quelli comuni, probabilmente a causa della natura sorprendente, emotivamente coinvolgente e personalmente rilevante dell’evento a cui erano associati.
Quello che Brown e Kulik non descrissero, avendo rivolto una sola volta quelle domande ai volontari intervistati, è la conservazione e la parziale alterazione di quei ricordi istantanei nel tempo, processo poi approfondito da altri autori e successivi studi sui ricordi di particolari eventi traumatici, tra i quali il disastro del Challenger. Questi studi dimostrarono che i ricordi istantanei mutano nel tempo, sebbene le persone li percepiscano come nitidi e attendibili.
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Il 12 settembre 2001, i ricercatori della Duke University David Rubin e Jennifer Talarico posero a 54 studenti una serie di domande su dove si trovassero al momento degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle, e chiesero loro di fornire anche i ricordi di alcuni eventi quotidiani. Chiesero loro di formulare una stima di quanto ritenessero accurato e vivido ciascuno quei ricordi. Le stesse persone intervistate furono convocate per rispondere nuovamente alle stesse domande una settimana, sei settimane e 32 settimane dopo.
Rubin e Talarico scoprirono che le stime di accuratezza percepita dagli intervistati diminuivano nel tempo soltanto nel caso dei ricordi degli eventi quotidiani (le persone erano meno disposte a “fidarsi” della loro memoria, in quel caso). L’accuratezza percepita non diminuiva invece nel caso dei ricordi legati agli attacchi terroristici alle Torri Gemelle, nemmeno quando quei ricordi presentavano, nel tempo, alcuni elementi di incoerenza rispetto a quanto riferito in precedenza.
«Pare che siamo disposti ad ammettere che potremmo dimenticare qualcosa, o forse ricordare male i dettagli, per altri tipi di eventi», disse Talarico, affermando che riguardo ai ricordi dell’11 settembre e di eventi simili le persone rimangono invece insolitamente molto sicure. Lo studio su base nazionale condotto – già in quei mesi e poi ancora negli anni successivi – da Hirst, Phelps e gli altri ricercatori di 15 istituti e università americane riscontrò un declino nell’accuratezza dei ricordi istantanei ma una graduale stabilizzazione dopo il primo anno.
In un certo senso, sulla base dei risultati dello studio sulla memoria dell’11 settembre, non c’è modo di dire con certezza se quei ricordi siano accurati, secondo Hirst. «Non abbiamo una memoria che ti permetta di controllare le cose così facilmente. In effetti, si potrebbe dire che l’intera nozione di memoria accurata sia un’invenzione della tecnologia», ha detto. Allo stesso tempo, affermano diversi studiosi, la tecnologia è in grado di generare condizionamenti dei ricordi collettivi in modi che non sono ancora del tutto chiari.
«I ricordi sono condivisi tra i gruppi in modi nuovi attraverso siti come Facebook e Instagram, e questo rende sfumato il confine tra ricordi individuali e collettivi. Lo sviluppo della disinformazione basata su Internet, come i siti di notizie false, ha il potenziale per distorcere i ricordi individuali e collettivi in modi inquietanti», ha affermato lo psicologo Daniel Schacter dell’Università di Harvard alla rivista Scientific American.
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Un’altra ricerca sulla memoria collettiva, condotta nel 2015 da Hirst insieme allo psicologo della Princeton University Alin Coman, mostra che le persone sperimentano più spesso «dimenticanze selettive indotte» quando ascoltano qualcuno che appartiene al loro gruppo sociale – uno studente della stessa università, per esempio – che quando ascoltano qualcuno che percepiscono come estraneo.
È quindi più probabile che la «convergenza mnemonica» si verifichi tra parlanti e ascoltatori se appartengono allo stesso gruppo sociale: «un risultato importante alla luce del sondaggio che indica che il 62 per cento degli americani adulti ottiene le notizie attraverso i social media, in cui l’appartenenza al gruppo è spesso ovvia e rafforzata», osserva Scientific American.