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  • Domenica 9 febbraio 2025

Spiegare la mafia ai turisti stranieri

Lo fa un'agenzia nel meritorio ma arduo tentativo di rovesciare i miti per cui sarebbe onnipotente e invincibile

di Isaia Invernizzi

Linda Vetrano spiega a turisti stranieri chi erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo
Linda Vetrano spiega a turisti stranieri chi erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo (Isaia Invernizzi/il Post)
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Di fronte alla scalinata del teatro Massimo di Palermo, dove nel Padrino – parte III sparano al boss Michael Corleone, Linda Vetrano mette subito le cose in chiaro. «Non dirò che è un brutto film, ma dà un’immagine falsa della mafia, una visione romanticizzata», dice in un inglese perfetto e fluente.

I turisti stranieri che partecipano alla visita guidata, intitolata No Mafia e organizzata dall’agenzia Addiopizzo Travel, rimangono in silenzio, un po’ perplessi. Alcuni sono capitati un po’ per caso, altri avevano già qualche conoscenza sommaria della mafia e dell’antimafia. Vetrano si prende un quarto d’ora per raccontare cosa li aspetterà nelle tre ore successive. Introduce nomi che ripeterà più volte, spiega che la mafia non è solo un fenomeno criminale – è insieme economico, politico, culturale e sociale – e soprattutto che non è onnipotente, invincibile.

Non è semplice spiegare la mafia in così poco tempo. Servirebbero giornate intere solo per ricostruire il contesto in cui si è sviluppata Cosa Nostra in Sicilia, senza nemmeno considerare la ’ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania o la Sacra Corona Unita in Puglia, tutte diverse tra loro e ancora di più dalla mafia americana, da quella russa, dalla yakuza giapponese e dalle altre mafie. Il dibattito sulla definizione stessa di mafia è ancora aperto nonostante decenni di studi, tant’è che si dovrebbe parlare di mafie, al plurale, e non di mafia.

L’errore più istintivo è confondere la mafia con la semplice criminalità organizzata, la collaborazione tra persone o gruppi che sfruttano la loro alleanza per intimidire e assoggettare qualcuno con lo scopo di commettere crimini per fare affari o acquisire potere. Mafia è infatti una parola che indica un’influenza più estesa su un territorio, un legame opprimente e pervasivo fondato sul controllo, protetto dall’omertà; indica anche una capacità di competere con lo Stato sfidandolo, adattandosi ai cambiamenti economici, istituzionali e sociali, oscillando tra arcaismo e modernità, pubblico e privato, campagna e città, ordine e disordine, borghesia e proletariato.

Turisti tedeschi si fanno una doto di fronte al muro della legalità, a Palermo

Turisti tedeschi si fanno una foto di fronte al muro della legalità, a Palermo (Isaia Invernizzi/Il Post)

Nei film che hanno contribuito a far conoscere la mafia nel mondo – su tutti, Il padrino di Francis Ford Coppola – questi livelli si appiattiscono o addirittura si annullano. Emergono solo gli aspetti funzionali all’intrattenimento, alla narrazione cinematografica, che trasforma la realtà fino a costruirne una nuova, edulcorata e ingannevole. Il mafioso è sempre “uomo d’onore”, la storia della famiglia mafiosa è sempre una saga, la violenza è centrale. «Quando non c’era internet si iscrivevano persone un po’ più preparate: molte erano impegnate in iniziative sociali, alcuni erano attivisti», dice Vetrano. «Ora il pubblico è più vasto».

C’è chi sceglie di partecipare alla visita guidata consapevolmente, chi la trova in un motore di ricerca cercando un banale “Cosa fare a Palermo”, mentre altri digitano esplicitamente “Mafia tour” aspettandosi un racconto banalizzato, condito da coppole e lupare. Alla fine dell’intensa mattinata la maggior parte delle persone ammette di aver sempre associato la Sicilia alla mafia, senza pensarci troppo, e molti riconoscono i loro pregiudizi. Qualche tempo fa un turista americano che si era presentato con la maglietta di Don Vito Corleone, il boss del Padrino interpretato da Marlon Brando, alla fine della visita decise di togliersela di fronte a tutti, come per scusarsi.

Addiopizzo Travel è un’agenzia fondata nel 2009 da tre attivisti di Addiopizzo, un movimento antimafia impegnato soprattutto nel contrastare il fenomeno del “pizzo”, come dice il nome stesso. «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità», dicevano migliaia di adesivi appiccicati nel centro di Palermo il 29 giugno del 2004, il giorno in cui Addiopizzo si fece notare per la prima volta. Il movimento si ispirò alla resistenza di Libero Grassi, imprenditore siciliano del settore tessile ucciso dalla mafia per aver rifiutato di pagare il pizzo e per aver denunciato i suoi estorsori.

Lo zaino con la scritta No Mafia

(Isaia Invernizzi/il Post)

La memoria delle vittime della mafia e del periodo delle stragi è una parte fondamentale del lavoro di chi spiega la mafia ai turisti stranieri, ma anche agli italiani e alle scolaresche, dice Edoardo Zaffuto, uno dei tre fondatori di Addiopizzo Travel. Più passano gli anni e più diventa importante tramandare fatti e nomi di persone. «Già quando iniziammo, nel 2009, era sorprendente trovarci di fronte bambini o ragazzini che all’epoca delle stragi di mafia, nel 1992, non erano ancora nati. Ora ci sentiamo ancora più investiti di questa responsabilità».

Il lavoro con gli stranieri passa anche dall’attenzione al contesto, al linguaggio e al significato delle parole. Ogni accompagnatore per esempio dedica qualche minuto a spiegare l’origine della parola pizzo: in inglese si traduce con espressioni un po’ superficiali – protection racket o protection money – che danno più l’idea di un servizio di protezione a pagamento, mentre il pizzo è una forma di estorsione più complessa.

In dialetto siciliano pizzo, o pizzu, sta per becco. L’immagine di un uccello nell’atto di bagnarsi il becco in una fonte o in una pozza è il modo usato dai mafiosi per intendere un sistema estorsivo in cui i commercianti sono costretti ad aprire le casse dove la mafia, appunto, intinge il becco. L’atto di bagnarsi il becco evoca anche il modo in cui si dissetano gli uccelli, una goccia di qua e una di là: così fa la mafia, che non drena soldi da una sola azienda, ma impone una sorta di tassa diffusa.

Accanto alle antiche mura di San Vito, tra il teatro Massimo e il mercato del Capo, Linda Vetrano riunisce i partecipanti per spiegare i metodi di approccio dei mafiosi, non diretti o aggressivi come nei film. «Il pizzo è un esercizio di potere che inizia nel momento in cui un mafioso si presenta al commerciante chiedendo una donazione oppure semplicemente se può essere d’aiuto in qualche modo, con fare amichevole», dice Vetrano. «I passaggi successivi sono graduali». Dalla colla nei lucchetti delle saracinesche si passa alla consegna di un mazzo di fiori, agli spari alle vetrine durante la notte e così via, fino alla violenza fisica.

Il passaggio di fronte al “muro della legalità”, un lungo murale realizzato in via San Gregorio, è l’occasione per introdurre i nomi e le facce delle vittime della mafia più conosciute: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Emanuela Loi, Rocco Chinnici. Piazza della Memoria, vicino al tribunale, è invece il posto perfetto per addentrarsi negli anni del super trial, il maxi processo di Palermo, e delle stragi del 1992.

Un murale che ritrae il giudice Paolo Borsellino

Un murale che ritrae il giudice Paolo Borsellino (Isaia Invernizzi/il Post)

Dopo quasi due ore di visita non è facile tenere alta l’attenzione. Serve un compromesso tra una narrazione fluida, talvolta semplificata, quasi cinematografica, e il rispetto rigoroso dei fatti. «Il nostro è turismo etico, ma pur sempre turismo», dice Vetrano. «Non dobbiamo mai dimenticare che loro sono in vacanza. Se diventa tutto pesante rischiamo di perderli poco dopo l’inizio della visita».

Anche a Casa Memoria arrivano molti turisti stranieri. Si trova a Cinisi, a una ventina di chilometri da Palermo: era il paese del boss Gaetano Badalamenti, Zu Tano; ora è conosciuto come il paese di Peppino Impastato, attivista, giornalista, politico e speaker radiofonico ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978.

Il corpo di Impastato fu trovato dilaniato da un’esplosione sui binari della ferrovia vicino al paese. Le forze dell’ordine e la maggior parte dei giornali dissero che era morto mentre stava preparando un attentato, o che forse si era suicidato. A Cinisi però molte persone avevano capito che Impastato era stato ucciso dalla mafia perché da tempo denunciava i boss mafiosi dai microfoni di Radio Aut. Impastato chiamava Badalamenti «Tano seduto», Cinisi era «mafiopoli».

La scrivania di Peppino Impastato all'interno di Casa Memoria, a Cinisi

La scrivania di Peppino Impastato all’interno di Casa Memoria, a Cinisi (Isaia Invernizzi/il Post)

Casa Memoria era la casa dove Peppino Impastato viveva insieme alla madre Felicia e al fratello Giovanni, che per oltre due decenni si impegnarono per far emergere la verità fino alla condanna all’ergastolo di Badalamenti, mandante dell’omicidio. All’interno della casa si trovano gli scritti di Impastato, le sue foto, alcuni numeri del giornale che fondò, l’Idea Socialista, e i pochi giornali che all’epoca raccontarono il suo omicidio, ma anche molte foto di Felicia Impastato, che ebbe un ruolo cruciale nell’opporsi alla versione ufficiale, continuando a denunciare il boss.

– Leggi anche: Chi era Felicia Impastato

Ora a portare avanti le iniziative di Casa Memoria c’è Luisa Impastato, figlia di Giovanni e nipote di Peppino. «Qui arrivano sempre più stranieri. Molti, soprattutto qualche anno fa, avevano convinzioni basate su stereotipi legati alla mafia e in generale alla Sicilia», dice. «C’era chi si aspettava di trovare il mafioso con la coppola. La cosa che mi colpisce ancora oggi è che molti arrivano qui con paura, come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro. In poco tempo però capiscono che Casa Memoria è un luogo di riscatto, un simbolo di lotta alla mafia».

Un disegno che ritrae Peppino Impastato

Un disegno che ritrae Peppino Impastato (Isaia Invernizzi/il Post)

A cento passi da Casa Memoria si trova l’ex casa di Tano Badalamenti, ora confiscata. Al primo piano c’è la biblioteca comunale. Mostrare ai turisti che quella casa è diventata un luogo di cultura, dove si contribuisce a tramandare la memoria di Peppino Impastato, aiuta a smontare i pregiudizi sull’attuale potere della mafia, dice Luisa Impastato.

Come scriveva nel 2015 Giuseppe Rizzo in un articolo di Internazionale, oggi occuparsi della mafia significa ancora parlare di crimini e violenza, corruzione e omertà, ma anche del “secondo atto”, raccontare le stragi ma ripetere «fino allo sfinimento» cosa è successo dopo. « La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto», scriveva Rizzo. Cosa Nostra infatti non è mai stata così debole come negli ultimi anni, dopo migliaia di arresti, ergastoli e confische. Gli omicidi di mafia sono drasticamente diminuiti e il numero di commercianti che non pagano il pizzo continua ad aumentare. Cosa Nostra, insomma, è in decadenza.

Il rischio maggiore nel tentativo di raccontare cosa è oggi la mafia, dice Federico Varese, criminologo esperto di mafie e professore di sociologia all’università Sciences Po di Parigi, è appunto mitizzarla: mostrare cioè i mafiosi come supercattivi che controllano tutto e sanno tutto di tutti, concetti che sembrano fare molta presa sulle persone straniere. «La mafia vive di reputazione, quindi questa narrazione le fa gioco anche se non è reale», spiega Varese. «Invece bisogna dire chiaramente che i mafiosi sono anche codardi, che fanno errori e si tradiscono tra di loro, che hanno paura».

Una foto di Peppino Impastato

Una foto di Peppino Impastato (Isaia Invernizzi/il Post)

Una consapevolezza maggiore passa da una considerazione meno eroica della stessa antimafia. «È più facile concentrarsi sull’eroe, positivo o negativo, invece che sull’aspetto più sociologico del fenomeno mafioso che è sì criminoso, ma anche sociale, economico e politico», continua Varese. Per citare le parole di Giovanni Falcone, la mafia è un fatto umano.

Il movimento antimafia ha già in parte elaborato questa fase perché oggi l’antimafia è più comunitaria, non ha bisogno di nuovi eroi o martiri. È un atto di responsabilizzazione collettiva. Per chi arriva dall’estero e della mafia siciliana conosce giusto Il padrino, senza molte informazioni di contesto, non è semplice fare propria questa evoluzione in poco tempo. Secondo Varese, tuttavia, è una presa di coscienza indispensabile per evitare di alimentare il mito della mafia, anche lontano dalla Sicilia e dall’Italia.