Vivere davanti a un cimitero ha i suoi vantaggi

«Dal balcone, in estate, vedo solo le cime degli alberi; la sera sento il vento tra i rami, qualche uccello notturno e, tra maggio e settembre, una volpe che ha fatto la sua tana vicino al muro di cinta, in un’area ancora inutilizzata. Ogni tarda primavera, anno dopo anno, sforna una cucciolata di quattro o cinque volpacchiotti casinisti e vivacissimi, in barba al mortorio che li circonda. Segue semplicemente il ciclo della natura e le leggi dell’esistenza, e io non posso non pensare all’ironia di chi, in un luogo simile, scava la terra per far nascere vita, invece che per metterci una pietra sopra»

Una volpe tra le tombe del cimitero di Bath in Gran Bretagna. 10 gennaio 2018 (Matt Cardy/Getty Images)
Una volpe tra le tombe del cimitero di Bath in Gran Bretagna. 10 gennaio 2018 (Matt Cardy/Getty Images)
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Vivere davanti a un cimitero ha i suoi vantaggi; il primo e più evidente – e anche più urgente, per chi come me è abituato a città caotiche come Barcellona e Milano – è il silenzio. Il mio appartamento di Berlino si affaccia su un cimitero e, se la cosa può suonare un po’ macabra, vi dirò che in realtà è molto più pacifica di quel che sembra. Pacifica almeno quanto il termine che in tedesco identifica un luogo per noi spesso tabù: Friedhof significa letteralmente “cortile della pace”; una definizione che suona molto più poetica e attraente da tutti i punti di vista – compreso quello delle agenzie immobiliari, che non mentono quando sponsorizzano una tranquillità permanente immersi nel verde. Perché tutto sommato è questo un cimitero a Berlino: un piccolo parco di tigli, aceri, querce, betulle e robinie.

Dal balcone, in estate, vedo solo le cime degli alberi; la sera sento il vento tra i rami, qualche uccello notturno e, tra maggio e settembre, una volpe che ha fatto la sua tana vicino al muro di cinta, in un’area ancora inutilizzata. Ogni tarda primavera, anno dopo anno, sforna una cucciolata di quattro o cinque volpacchiotti casinisti e vivacissimi, in barba al mortorio che li circonda. Segue semplicemente il ciclo della natura e le leggi dell’esistenza, e io non posso non pensare all’ironia di chi, in un luogo simile, scava la terra per far nascere vita, invece che per metterci una pietra sopra.

La verità è che nei cimiteri berlinesi di lugubre c’è ben poco e, nel mio, l’unico vero momento in cui l’ambiente si intristisce coincide con la chiusura del bar all’ingresso della Karl-Marx-Strasse – arredi hipster all’interno e una decina di tavolini davanti alle prime lapidi. Due cartelli accolgono chi varca la soglia: gli orari di visita e il menù del giorno. Un memento mori e un memento cameriere che non ho ancora deciso, può ripassare tra due minuti?

Il mio rapporto con i luoghi di sepoltura è cambiato quando ho scoperto che sono gradevoli per passeggiare, prendere un caffè, leggere e scrivere. Bertolt Brecht ha vissuto i suoi ultimi anni in una bella casa sul Dorotheenstädtischen Friedhof, nel quartiere di Mitte. Dalla finestra della sua biblioteca vedeva le tombe di Fichte e Hegel, che da un secolo stavano lì a riposare uno accanto all’altro, in sequenza, proprio come nel capitolo sull’idealismo di un manuale di filosofia. Ma vedeva anche l’angolo accanto al muro di cinta in cui sarebbe stato sepolto anche lui, insieme a sua moglie Helene Weigel. E quei piccoli lotti disponibili in cui più avanti sarebbero finiti i suoi compositori Paul Dessau e Hanns Eisler; i colleghi Heinrich Mann, Herbert Marcuse, Christa Wolf; i suoi successori al Berliner Ensemble: Heiner Müller, Jürgen Gosch, Dimiter Gotscheff, Thomas Langhoff, George Tabori… si può passare l’eternità in migliore compagnia? Quando li vedo lì tutti insieme, a pochi metri l’uno dall’altro, ho quasi la sensazione di partecipare a un grande conciliabolo in cui si ripercorre la storia del teatro tedesco.

La lapide, con la sua solenne gravità, è un punto di esclamazione eretto ad affermare che quella persona è davvero esistita e in qualche modo continua a esistere. Sant’Agostino e Napoleone, Manzoni e Galileo, Dante e Jim Morrison… tutti quei personaggi che per noi fanno parte della Storia con la S maiuscola hanno avuto una loro storia con la s minuscola che si è conclusa lì, in un posto preciso e concreto di questa Terra. Quando ci troviamo davanti alla sua tomba, quel personaggio per noi fittizio si incarna e acquista vita reale, e lo fa paradossalmente solo nel riconoscimento della sua reale morte. I sepolcri sono anche – come per Foscolo o per la volpe che mi abita sotto casa – luoghi di rinascita. In cui si mantiene in vita la memoria e la cultura.

Forse è proprio per questo che la Bertolt-Brecht-Haus con i suoi due cortili, quello condominiale e quello della pace, sono tra i miei luoghi preferiti di Berlino. Ogni tanto penso che, riconoscendo nel teatro epico uno dei fondamenti del teatro che faccio oggi, cerco inconsciamente in quel posto il mio posto, una sorta di conferma e di legittimazione. Perché ci commuoviamo davanti alle tombe di uno scrittore o scrittrice che abbiamo letto e creduto di comprendere; di un o una cantante che abbiamo ascoltato e la cui voce è rimasta viva nelle nostre orecchie; di un personaggio storico che abbiamo amato o odiato? Persone che pure non abbiamo mai conosciuto…

Non sarà proprio per questa illusione di continuità, che permette di sentirci i sopravvissuti di una grande tradizione? Si crea in quel momento un rapporto personale che pensiamo unico: riconosciamo, nell’altro che non è più, qualcosa di noi che siamo ancora, qualcosa che possiamo continuare a far vivere, nella nostra opera. Ci autoproclamiamo eredi. Non è dunque poi tanto differente dall’andare a trovare nonna il 2 novembre. Tranne che a me Brecht non ha mai infilato 20.000 lire in tasca di nascosto dalla mamma.

Qualche giorno fa mi trovavo a Parigi con uno spettacolo. La città con i suoi monumenti e musei la conosco bene, così ho deciso di dedicare il tempo che non dovevo passare in teatro a girare per cimiteri. Teatro e cimiteri sono luoghi che hanno molte cose in comune; se escludiamo che nell’uno e nell’altro spesso si riposa in pace, entrambi possono diventare dinamici vivificatori di memoria storica.

Sono dunque tornato al Père-Lachaise; però questa volta sono andato a cercare non una pietra tombale, ma un’intera parete. Pochi se ne ricordano, ma il 28 maggio 1871, al termine della Settimana di sangue che mise fine alla Comune di Parigi, il cimitero fu teatro (ironia) di una battaglia che si concluse con la fucilazione di 147 rivoluzionari da parte dell’esercito di Versailles. I comunardi furono schierati davanti a questo muro e gettati poi in una fossa comune, che in seguito si sarebbe riempita dei corpi di un migliaio di insorti. Le cifre sono approssimative perché in quei giorni i registri del Père-Lachaise non registrarono un bel niente.

Il muro dove furono fucilati i comunardi al cimitero Père-Lachaise di Parigi (via Wikimedia)

L’omissione di nomi e date non stupisce nessuno, già che è l’esatto riflesso in termini amministrativi di ciò che una fossa comune rappresenta: l’annullamento del singolo, della sua vita e delle circostanze della sua morte. Le fosse comuni sono luoghi interessanti e problematici, proprio perché affermano e negano allo stesso tempo i principi basilari del culto dei morti e della cultura della democrazia, di cui mostrano sottilmente i pregi e i difetti. Da un lato evidenziano che – come ci ricordano Lee Masters, De André e Totò in ‘A livella – nella morte tutti e tutte si è eguali; dall’altro però, con le differenze di classe, eliminano anche quelle identitarie, proprio laddove si dovrebbe compiere un estremo sforzo di differenziazione, posando una lapide a imperituro ricordo della propria memoria, ovvero della propria personalità. Nella fossa comune si perdono nomi e cognomi, date di nascita e soprattutto quei brevi epitaffi che “dicono proprio di noi”. E se si perde la mia narrazione, cosa resta di me? La fossa comune lega indissolubilmente il defunto alla comunità con cui è sepolto, ma gli nega la riconoscibilità; evitando anche che gli si crei attorno, per l’appunto, un culto e una cultura. Il tutto, di solito, per una perversa finalità politica.

Lo mise in evidenza la prima delle rivoluzioni moderne, quella del 1789: quando il sacrario della basilica di Saint-Denis venne profanato, le ossa dei vari re Luigi vennero gettate nel cortile, indistinguibili da quelle di altri prìncipi e regine e dignitari e gente comune. Solo durante la Restaurazione vennero raccolte e riposte nella cripta sotto l’abside della cattedrale, dove le vediamo ancora adesso, ammucchiate sotto un piccolo cartello che ci assicura che quelle ossa appartengono proprio a loro. Mah… in ogni caso, la stessa sorte toccò poco dopo ai rivoluzionari eliminati durante il Terrore, sepolti di nascosto in quei cimiteri cittadini che però, a distanza di qualche anno, con le leggi sanitarie, sarebbero stati chiusi e rimossi.

Le spoglie di Robespierre si trovano oggi mescolate a quelle delle migliaia di persone ospitate nelle gallerie sotterranee rese celebri da Victor Hugo. Se volete visitarle, sappiate che le catacombe di Parigi sono ormai tra le attrazioni turistiche più in voga: l’ingresso costa 31 euro e conviene prenotare con qualche giorno di anticipo, visto che l’accesso è consentito solo a gruppi ridotti e ogni 15 minuti. Si entra da piazza Dénfert-Rochereau, si scende attraverso una scala a chiocciola a una ventina di metri di profondità, e si percorre poco più di un chilometro in quella che una volta era una cava di pietra calcarea, la bianca “pietra di Parigi” con cui sono costruiti gli edifici di sopra. Alla fine si arriva agli ossari, ricavati proprio dagli scavi nelle pareti e ora riempiti di tibie, femori, costole e teschi in bell’ordine. Se devo essere sincero, la presenza dei turisti (sì, certo, lo sono anch’io…) rende per me il luogo privo di ogni magia; e direi che la visita non vale proprio la pena. A meno che uno non sia un esperto di geologia, un appassionato del musical I miserabili, o voglia scrivere questo articolo.

Tutt’altra atmosfera, ben lontana dai tour organizzati, avvolge uno dei pochi protagonisti della Rivoluzione a cui non sia andata poi tanto male – guarda caso un nobile. Il marchese di Lafayette dorme nel minuscolo cimitero di Picpus, ai limiti sud-est della città. Il suo ricordo è celebrato in anticipo di dieci giorni rispetto alla presa della Bastiglia; ma non si tratta di una svista, come accadde per gli autori della sigla di La stella della Senna, che fecero cantare a Cristina D’Avena «il 4 luglio si arrende il bastione / il 4 luglio c’è la rivoluzione» – errore storico che ancora costituisce un trauma indelebile per la mia generazione, come potete notare da queste righe.

Il 4 luglio Lafayette aveva sì contribuito al successo di una rivoluzione, ma era quella americana. Nel cortile di un antico convento, in mezzo a poche tombe della più prestigiosa nobiltà francese, spicca ancora una grande bandiera a stelle e strisce. Visitandola un paio di giorni dopo l’elezione di Trump, viene da chiedersi cosa penserebbe oggi il marchese del paese che contribuì a creare. Ma dopotutto, a pensarci bene, lo spirito rivoluzionario altro non era che la manifestazione di un nuovo afflato libertario e di un rinnovato pensiero razionale, di cui oggi vediamo le estreme propaggini nel neoliberismo più sfrenato e nella più cieca fiducia nella razionalità del mercato. E quanto all’idea di purificare il paese, emendandolo dal male causato dal governo precedente, siamo sempre lì…

Il fatto che nel 1793 i rivoluzionari avessero chiamato il loro principale organo di governo “Comitato di salute pubblica” ci dice molto di come la politica si specchiasse nella scienza medica. Si trattava di preservare la popolazione dalla peste reazionaria, pensando la società come un corpo da mantenere sano, al riparo da quelle malattie che avevano ammorbato la Francia del secolo XVIII, prime fra tutte l’assolutismo monarchico e il disordine finanziario. Lo stesso spirito scientifico che avrebbe portato, di lì a poco, a quella razionalizzazione della vita politica che rimodellò inesorabilmente anche il tessuto urbano di Parigi. E che determinò la definitiva espulsione dei morti dallo spazio dei vivi.

La legislazione napoleonica, oltre a ispirare a Foscolo la composizione Dei Sepolcri, fece applicare una serie di leggi sanitarie, già promulgate nel secolo precedente e scarsamente attuate, che cambiarono per sempre la collocazione dei cimiteri all’interno delle nostre città. Proprio in seguito all’editto di Saint Cloud, Venezia decise di dedicare alle sepolture un’intera isola, quella che è oggi San Michele, che si mangiò la dirimpettaia San Cristoforo giustappunto con l’ampliamento del cimitero. L’unico cimitero a cui non si accede camminando dietro la bara – a meno di non camminare sulle acque (ma in quel caso sarebbe un funerale destinato a essere smentito nel giro di tre giorni). Nulla meglio di un’isola, per rappresentare la morte come un viaggio sull’altra sponda. Il tragitto in vaporetto, anche se breve, conserva ancora un che di mistico, come in un quadro di Böcklin: è un passaggio dal mondano al sacro, sancito all’approdo da un silenzio sovrannaturale, soprattutto in bassa stagione all’orario di chiusura. Si capisce perché Igor’ Stravinskij, Ezra Pound, Iosif Brodskij e Helenio Herrera, gente che con il misticismo qualcosa aveva a che fare, abbiano voluto restare qui per sempre.

Anche Milano, pur priva di isole, aveva provveduto a isolare i suoi morti in modo eclatante: con il consueto pragmatismo che la contraddistingue, alla fine del ’700 aveva istituito un vero e proprio comune, detto appunti “dei Corpi Santi“. Era una fascia circolare di territorio che correva tutto intorno alle mura spagnole, quelle di cui oggi si conservano solo i caselli daziari, che noi milanesi continuiamo a chiamare “porte” e che ai tempi di Manzoni delimitavano la città in quanto sistema economico.

Alla vecchia usanza dell’obolo di Caronte, che accompagnava il morto nel suo viaggio nell’aldilà, faceva ora specchio la tassazione delle merci che entravano nell’aldiquà; come a dire che i morti vanno esclusi anche perché non producono. Nel 1873 i Corpi Santi vennero definitivamente integrati nella città, e i suoi cimiteri hanno lasciato posto con il tempo a giardini, piazze o suolo edificabile. Ma ancora poco fuori Porta Volta conserviamo il Monumentale, con la sua facciata falsamente rinascimentale e il suo famedio così ambito; perché, a Milano, anche la morte è uno status symbol.

Qualcosa di simile accadde a Parigi. Chi guarda oggi la disposizione sulla mappa dei suoi quattro cimiteri – Père-Lachaise, Montparnasse, Passy e Montmartre, elencati in rigoroso senso orario a partire da est – si accorgerà che si trovano ai quattro punti cardinali della città, come le stazioni del Monopoly. Non è un caso: vennero pianificati ad hoc, per supplire alla mancanza di spazi dopo l’eliminazione dei cimiteri dentro le mura. Nel giro di cinquant’anni, però, la riforma haussmanniana avrebbe abbattuto le mura cittadine e reinglobato le sepolture all’interno della città. Segno di come la morte non possa essere mai veramente espulsa dalla nostra vita; ma anche di come un camposanto, se ben organizzato, possa sì contribuire all’economia cittadina.

La tomba di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir al cimitero Montparnasse di Parigi (foto Davide Carnevali)

Oggi i quattro grandi cimiteri occupano un posto importante negli itinerari turistici: cartine plastificate e codici QR, in cui sono elencati nomi e posizione delle tombe dei personaggi più ricercati, sono a disposizione all’ingresso per i visitatori. Con un occhio alla mappa e uno alla distesa di lapidi davanti a me, ho l’impressione di partecipare a una strana caccia al tesoro. Mi sento un turista curioso e avido di passato, profanatore di una pace che dovrebbe essere prima di tutto sospensione dell’attività terrena, e che invece calpesto con quell’incalzante inseguimento della celebrità: una ricerca frenetica e un po’ comica, manco fossi un cacciatore d’autografi o il tombarolo di un film di Alice Rohrwacher.

Finché effettivamente, proprio come nel film della Rohrwacher, qualcosa di magico accade. Mentre sono lì che giro con la mia mappa di Montparnasse cercando Samuel Beckett – sempre per quella solita, stupida, illusione del sentirsi eredi di un certo modo di pensare il teatro – sento qualcuno, poco lontano, che parla a un volume di voce considerevole. Mi fermo, tendo l’orecchio: è spagnolo. Mi volto in direzione della voce. Tre uomini tengono in mano qualcosa, che alzano in aria di tanto in tanto, al cenno di uno di loro, seguendo il ritmo della metrica di una poesia. Mi avvicino. È un bicchiere. Di vino. Rosso. I tre uomini stanno brindando intorno a una tomba.

Non appena li raggiungo, scopro che è quella del peruviano César Vallejo, uno dei più grandi poeti latinoamericani del secolo scorso – il più grande, sostiene uno dei tre – forse insieme a Rubén Darío – precisa un secondo – anche se Rubén Darío è troppo condizionato dalla tradizione, mentre Vallejo è il primo che si emancipa dall’influenza culturale iberica per creare una poesia specificamente peruviana, andina – annuisce il terzo, e beve.

Davanti alla tomba di César Vallejo (foto Davide Carnevali)

Concordo, perché a un’affermazione di quella stazza puoi solo concordare, e sono accolto nel circolo: mi versano del vino e noto che sulle tombe circostanti sono disposti vari bicchieri vuoti, tovaglioli, un paio di bottiglie, un sacchetto con del pane già tagliato, un cartoccio con ali di pollo piccante e una cassa della Sony. Mi raccontano che ogni 15 del mese alle 13:00 (andate a verificare, se ne avete l’occasione) fanno visita al poeta per rendergli omaggio. Facciamo una minga – dice il primo: un rituale collettivo, aperto alla partecipazione di tutti.

È proprio questa la caratteristica di una minga: la comunanza. Tutti sono chiamati a partecipare con quello che sanno fare: chi sa cantare canta, chi sa recitare recita, chi non sa fare né l’una né l’altra cosa prende la parola. E così mi allungano una sovracoscia di pollo e sono chiamato a dire la mia. Ma cosa posso dire? Che mi trovo qui per caso ma che gli incontri non avvengono per caso, non questo tipo di incontri per lo meno; e che sono a Parigi per fare uno spettacolo sulla memoria storica e sugli scomparsi di una delle dittature latinoamericane più feroci, e che forse è proprio per questo che in questo momento sono in mezzo a loro a celebrare la vita, non la morte.

D’altra parte la minga – mi spiegano poi, nei tre quarti d’ora che passiamo in compagnia di Vallejo e delle sue poesie – non è un rituale funebre, ma una pratica della “messa in comune”, che in certe zone andine del Perù può coinvolgere anche i morti. Perché anche i morti possono partecipare. La scena, che alle prime mi appariva grottesca, trasmuta in qualcos’altro. Qualcosa di profondamente serio e poi addirittura invidiabile.

Come in molte culture non europee, preservate dal concetto di “salute pubblica”, vivi e morti convivono e conmuoiono, cioè coesistono e punto. Non spariscono con la fine della propria attività su questa terra, e non ne vengono esclusi. Ma non è forse questo, l’orizzonte utopico di chi fa letteratura, o teatro? Continuare a vivere anche da morti, nella propria opera. In quel momento, quell’orizzonte mi pare tutt’altro che utopico; è già lì, presente; ma senza bisogno di letteratura, teatro, biblioteche o famedi. Penso a quanto sarebbe contento Vallejo di ricevere un tale omaggio. E anche a quanto sarebbero contenti i suoi meno noti vicini di tomba, di essere in qualche modo partecipi di questa celebrazione… un pezzo di cimitero vive. Vive dell’unica vita che vale la pena di essere vissuta: quella che non ha paura della morte, non la rifiuta, ma la accoglie.

Qualche anno fa, in un viaggio in Turchia, avevo visitato i resti di una città neolitica, Çatalhöyük, in cui gli scheletri dei morti venivano adagiati in posizione fetale in buche scavate all’interno delle case. Su queste buche era poi collocato il letto principale della casa: gli abitanti di Çatalhöyük dormivano sopra le sepolture dei loro morti. E ancora in Messico, il 2 novembre, si organizzano pranzi e cene familiari intorno alle tombe di una persona cara.

Questa continuità tra il mondo dei morti e quello dei vivi nella loro comune relazione con la terra, questo “abitare insieme la terra”, mi sembra meraviglioso: credo non ci sia niente di più naturale, per l’essere umano. Quand’è che abbiamo perso questo contatto con la materia di cui siamo fatti? Quando abbiamo iniziato a concepire i morti come “altri”, come un qualcosa di diverso da noi…? Quando abbiamo iniziato ad avere paura della morte, e poi dell’esistenza stessa…? Invidio profondamente quelle culture che non inculcano l’idea della morte come una “fine”, che non la vedono come qualcosa di triste; quelle culture in cui l’essere umano può vivere tranquillo, senza il pensiero ricorrente del suo più grave peso e dal suo più pesante tabù.

Passeggiare, prendere un caffè, un bicchiere di vino, andarci volontariamente… hanno fatto in modo che, con gli anni, i cimiteri diventassero per me luoghi come altri all’interno della città, e all’interno della mia vita. Osservato ora dal balcone, in inverno, quando le cime degli alberi senza foglie lasciano intravedere alcune lapidi, il piccolo parco sotto casa sembra assopito, non morto. Addormentandosi e risvegliandosi, continuamente, anno dopo anno, segue semplicemente il ciclo della natura e le leggi dell’esistenza. Con i suoi tigli, i suoi aceri, le querce, le betulle, le robinie, con la sua terra rimossa, le sue buche ricoperte e quelle scoperte, con gli animali che vi abitano.

A proposito: nella cultura andina, chi custodisce le tombe degli avi dai viandanti curiosi o avidi, che ignorano il fatto che quei morti vivono ancora con noi, sono le volpi.

– Leggi anche: Ieri ho comprato un cimitero usato, forse

Davide Carnevali
Davide Carnevali

Vive e lavora tra Berlino, Barcellona e Milano, dove è artista associato presso il Piccolo Teatro. I suoi testi, tradotti in una quindicina di lingue, hanno ricevuto numerosi premi, tra cui il Theatertreffen Stückemarkt e il Premio Riccione. Ha pubblicato per Einaudi Variazioni sul modello di Kraepelin e Ritratto dell’artista da morto; per Il Saggiatore Limited Edition e Il teatro tiene banco; per Fandango la raccolta di racconti Il diavolo innamorato. Tiene la rubrica “Personaggi in cerca d’autore” su Doppiozero.

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