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  • Venerdì 31 gennaio 2025

Ma tu te la ricordi Brexit?

Il 31 gennaio di cinque anni fa il Regno Unito uscì dall’Unione Europea: oggi la questione non è più una priorità politica, ma c’è consenso sul fatto che sia andata male

di Matteo Castellucci

L'interno dell'ufficio al Parlamento Europeo di Nigel Farage, il 28 gennaio del 2020, pochi giorni prima dell'uscita formale del Regno Unito dall'Unione, e quindi della decadenza degli eurodeputati britannici
L'interno dell'ufficio al Parlamento Europeo di Nigel Farage, il 28 gennaio del 2020, pochi giorni prima dell'uscita formale del Regno Unito dall'Unione, e quindi della decadenza degli eurodeputati britannici (AP Photo/Francisco Seco)
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Alla mezzanotte del 31 gennaio di cinque anni fa il Regno Unito uscì formalmente dall’Unione Europea. Per celebrare l’evento, quella sera fu proiettato un countdown per la mezzanotte piuttosto pacchiano sulla residenza a Downing Street del primo ministro britannico, che all’epoca era Boris Johnson dei Conservatori. Ci fu anche una festa in piazza a Westminster, nel pieno centro di Londra, organizzata da Nigel Farage, il più influente politico antieuropeista britannico e uno dei protagonisti della mistificatoria campagna pro Brexit al referendum del 2016. Fu l’ultima volta in cui Farage fu davvero rilevante, almeno fino a pochi mesi fa.

Dal 2020 a oggi sono cambiati il governo britannico e il mondo che gli sta intorno, ma su Brexit non si è mosso granché, almeno nel dibattito pubblico del Regno Unito. Keir Starmer, primo ministro dei Laburisti dallo scorso luglio, ha promesso «un reset» delle relazioni con l’Unione Europea, ma finora è prevalsa una certa continuità con l’approccio del precedente governo Conservatore di Rishi Sunak. Questo perché da tempo Brexit non è più una priorità politica nel paese: per i partiti è un argomento problematico da maneggiare e i governi non sanno bene cosa farsene, adesso che l’hanno ottenuta.

«Se dovessimo riassumere l’umore pubblico, questo consisterebbe nell’aver accettato che Brexit non funziona bene e, per la maggior parte delle persone, nel rammarico per l’uscita» dall’Unione, racconta David Gauke, ministro della Giustizia nel governo Conservatore di Theresa May che ora scrive per la rivista New Statesman.

La bandiera britannica viene rimossa dalla sede del Consiglio Europeo, a Bruxelles, il 31 gennaio del 2020

Il lungo processo che portò il Regno Unito a lasciare l’Unione Europea iniziò nel 2016: nel giugno di quell’anno si tenne il referendum con cui i cittadini britannici votarono per il Leave, ossia per andarsene, con una risicata maggioranza del 3,8 per cento. Da lì e fino all’uscita effettiva ci sono state una serie interminabile di voti parlamentari, una profonda trasformazione del Partito Conservatore in una forza politica logorata e populista, snervanti trattative con le istituzioni europee e vari “periodi di transizione” introdotti per limitare i danni dovuti ai molti aspetti normativi che restavano da chiarire.

Secondo l’ex ministro Gauke gli anni dal 2016 al 2020, quando i media non parlavano d’altro che di Brexit, sono stati un’esperienza «stancante e frustrante» per i britannici e da allora è rimasta insofferenza attorno all’argomento. Christopher Grey, professore emerito alla Royal Holloway di Londra, lo definisce un paradosso «molto inglese»: Brexit «è un tema quasi invisibile, anche se persino tra le persone che votarono [a favore dell’uscita] c’è la consapevolezza che non sia andata come pensavano».

Le prime pagine dei giornali britannici il 1° febbraio del 2020

Le prime pagine dei giornali britannici il 1° febbraio del 2020 (Leon Neal/Getty Images)

I sostenitori di Brexit la presentavano come l’inizio di una stagione di impetuosa crescita economica e come la fine dell’«immigrazione incontrollata» verso il Regno Unito, un’espressione con cui si riferivano alla necessità di limitare sia i flussi migratori regolari, per esempio gli arrivi di persone da altri paesi europei, sia quelli irregolari. Non è andata così, semmai è successo il contrario.

La libertà di movimento dei cittadini europei era uno degli aspetti più invisi ai Brexiteers, come veniva chiamato il fronte che nel 2016 sosteneva l’uscita dall’Unione, che andava da Farage all’ala destra dei Conservatori con Johnson e Michael Gove. Le loro strumentalizzazioni poggiavano su anni di sensazionalismo dei tabloid, e accusavano le persone dei paesi europei allora meno sviluppati economicamente di andare nel Regno Unito per approfittare dei suoi servizi. Uscire dall’Unione, in questa narrazione nazionalista, sarebbe equivalso a «riprendere il controllo dei confini» e sigillarli.

In realtà l’immigrazione non è diminuita. Dal giugno del 2021 al giugno del 2024 sono arrivati legalmente nel Regno Unito 3,6 milioni di persone. È calato il numero di persone dai paesi dell’Unione Europea; è aumentato, di molto, quello dal resto del mondo. È aumentata anche l’immigrazione irregolare: dal 2018 in poi più di 150mila persone migranti hanno attraversato il canale della Manica su imbarcazioni di fortuna, e l’anno scorso è stato quello in cui ne sono morte di più.

Per quanto riguarda l’economia, si stima che dal 2020 a oggi l’uscita dall’Unione abbia comportato una riduzione del PIL britannico del 2,5 per cento e del 4 per cento sul lungo periodo. Causerà inoltre una riduzione del 15 per cento degli scambi commerciali, secondo l’Office for Budget Responsibility (l’ente di vigilanza sul bilancio statale). Il Regno Unito inoltre ha dovuto rinegoziare gli accordi di libero scambio di cui godeva come paese membro dell’Unione, e di solito ha ottenuto condizioni identiche o addirittura peggiorative di quelle precedenti.

Un report di questi giorni del think tank UK in a Changing Europe ha calcolato che dal 2019 in poi le esportazioni del Regno Unito sono aumentate solo dello 0,3 per cento all’anno, contro la media dei paesi OCSE del 4,2 per cento, e che 20mila piccole e medie imprese britanniche hanno smesso del tutto di esportare verso l’Unione, perché è diventato troppo costoso. Il Regno Unito ha lasciato il mercato unico europeo nel gennaio 2021, un anno dopo l’uscita formale dall’Unione, e da allora sono stati reintrodotti controlli doganali e documenti che prima non servivano.

Il settore agricolo, che era stato tra i maggiori sostenitori del Leave (l’uscita dall’Unione) nella campagna referendaria del 2016, è stato tra i più danneggiati. I sussidi europei della Politica agricola comune valevano quasi 4 miliardi di euro all’anno: il governo britannico non li ha rimpiazzati con programmi paragonabili e non è certo che quelli esistenti vengano confermati nel futuro. Un sondaggio del 2023 tra gli agricoltori ha scoperto che il 70 per cento considera «abbastanza negativo» o «molto negativo» l’impatto di Brexit. In questi mesi i più benestanti di loro sono tornati a protestare, per altre ragioni.

Tir in coda al porto di Dover, a fine 2020

Tir in coda al porto di Dover, a fine 2020 (AP Photo/Frank Augstein)

Le ripercussioni sulla vita quotidiana delle persone sono state limitate. «È quello che gli economisti chiamano un danno controfattuale: cioè quanto sarebbe cresciuta l’economia se non avessimo avuto Brexit. Ma le persone non vivono in un mondo controfattuale», spiega Grey.

Secondo Joël Reland, ricercatore di UK in a Changing Europe, il Regno Unito oggi ha «un’economia più isolata e meno integrata, anche se le persone non vedono un collegamento diretto con Brexit». Su questo ha inciso anche il momento storico in cui è avvenuta Brexit, subito prima della pandemia da Covid-19, seguita dalla crisi energetica per l’invasione russa dell’Ucraina: «Per anni l’inflazione è rimasta alta, e questo la gente lo sente da vicino, ma non lo riconduce a Brexit».

Questa specie di apatia è accompagnata da un giudizio negativo su Brexit che si è sedimentato nel tempo. In un sondaggio condotto dall’istituto YouGov lo scorso ottobre, il 59 per cento degli intervistati ha detto di pensare che sia andata «abbastanza male» o «molto male». I media hanno coniato una nuova parola, Bregret, per riferirsi al pentimento: una crasi tra regret, ossia pentimento, e Brexit.

Una manifestazione europeista fuori dal parlamento, a Londra, nel dicembre del 2018

Una manifestazione europeista fuori dal parlamento, a Londra, nel dicembre del 2018 (AP Photo/Frank Augstein)

È interessante come nel corso del tempo nei sondaggi sia aumentata la percentuale di chi la pensa così anche tra gli elettori di destra ed estrema destra. Quella parte dello spettro politico ne ha preso atto. Recentemente la leader dei Conservatori, Kemi Badenoch, ha ammesso che il suo partito portò il paese fuori dall’Unione «senza un piano per la crescita» economica.

Lo scorso dicembre anche Farage si è difeso in un confronto televisivo dicendo al suo interlocutore: «Fattene una ragione, [Brexit] è stata otto anni fa, vai avanti». Non è un’affermazione del tutto sorprendente, dato che già nel 2023 Farage aveva detto che «Brexit è stata un fallimento». È comunque un posizionamento bizzarro, dato che Farage ne fu uno dei principali promotori e che proprio l’uscita dall’Unione Europea rappresenta il suo principale successo politico (almeno finora).

I politici di destra che criticano Brexit di solito accusano un imprecisato establishment di averla sabotata o, peggio, d’aver tradito il mandato popolare del referendum. Il governo di Starmer sta adottando un approccio molto cauto anche a causa degli attuali livelli di consenso di Farage: nelle intenzioni di voto il suo partito Reform UK è il secondo più popolare dopo i Laburisti. Anche per questo finora non ci sono state grosse discrepanze tra l’orientamento di Sunak e Starmer nei rapporti con l’Unione Europea, come riscontrano anche le persone intervistate per questo articolo.

Il primo ministro Keir Starmer fa un discorso in un laboratorio dello University College London, il 13 gennaio

Il primo ministro Keir Starmer fa un discorso in un laboratorio dello University College London, il 13 gennaio (Henry Nicholls – WPA Pool/Getty Images)

Starmer sta comunque mantenendo attivi i rapporti del Regno Unito con l’Unione e sta provando ad approfondirli, almeno in qualche forma. Lunedì parteciperà alla riunione informale del Consiglio Europeo, che riunisce i capi di governo dei paesi dell’Unione. Ad aprile poi è previsto un incontro formale per discutere di come approfondire la collaborazione, solo che il Regno Unito non ha ancora chiarito cosa vuole. «Oltre all’atmosfera più positiva, che è indubbia, adesso il governo britannico deve farci capire meglio cosa intende per “reset” della relazione» dice Sandro Gozi, eurodeputato di Renew Europe che è presidente della delegazione del Parlamento Europeo per il partenariato UE-Regno Unito. «Noi siamo certamente interessati a rafforzare i rapporti su temi come la sicurezza, le opportunità per i giovani e l’intelligenza artificiale» dice Gozi.

Nonostante l’approccio non sia cambiato più di tanto, Starmer è in una posizione politica opposta, e più favorevole, rispetto a quella del suo predecessore. Sunak doveva rispondere alla classe dirigente dei Conservatori, che aspirava a una relazione antagonistica con l’Unione Europea, mentre il Partito Laburista è prevalentemente favorevole a migliorarla. La narrazione che ne fa all’esterno, però, non è sempre coerente: per esempio la ministra delle Finanze Rachel Reeves ha parlato di «opportunità fuori dall’Unione Europea» che secondo lei potrebbero rendere il Regno Unito un posto più attraente per gli investimenti sull’intelligenza artificiale, grazie a regolamenti meno vincolanti di quelli dell’Unione.

L’economia potrebbe convincere i Laburisti a smuoversi dal loro attendismo: «Un governo che ritiene la crescita economica un imperativo potrebbe prendersi maggiori rischi politici», dice l’ex ministro Gauke.

Nigel Farage a un evento di raccolta fondi a Londra, il 28 gennaio

Nigel Farage a un evento di raccolta fondi a Londra, il 28 gennaio 2025 (Ben Montgomery/Getty Images)

Un partito che, a differenza degli altri, ha ripreso a parlare con decisione di Brexit è quello Liberaldemocratico, lo storico partito centrista considerato il terzo grande partito della politica britannica. Il suo leader, Ed Davey, ha chiesto a Starmer di rinegoziare l’accordo di cooperazione commerciale (che andrà comunque rivisto quest’anno) per ripristinare l’unione doganale, e cioè riportare il Regno Unito nel mercato unico europeo. «Abbiamo visto i danni che un accordo raffazzonato ha fatto alle tasche della gente, e alla nostra sicurezza nazionale e capacità commerciali. Fare qualche modifica superficiale all’accordo attuale non è abbastanza: ce ne serve uno nuovo» dice il deputato dei Libdem James MacCleary.

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