In che senso Raffaele Fitto dovrà superare l’esame del Parlamento Europeo
È proprio un esame, scritto e orale, per i candidati membri della Commissione Europea: ci sono vari precedenti di bocciature, il più clamoroso dei quali fu italiano
Nelle prossime settimane il Parlamento Europeo sarà chiamato a esprimersi sui candidati alla carica di commissario europeo. I commissari, facendo un paragone grossolano, sono un po’ i vari “ministri” della Commissione Europea, cioè l’organo dell’Unione Europea che detiene il potere esecutivo. Il governo di ciascuno dei 27 Stati membri indica il proprio candidato alla presidente della Commissione, in questo caso Ursula von der Leyen, che poi, d’intesa con il Consiglio dell’Unione Europea, cioè i 27 governi nazionali, sottopone la sua proposta di composizione della Commissione al giudizio del Parlamento.
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Questa procedura avviene in due diverse fasi. In un primo momento, ciascun commissario viene esaminato dalle commissioni parlamentari competenti, cioè quelle che si occupano delle stesse materie di cui è responsabile quel commissario. Dopodiché la commissione giuridica del Parlamento Europeo (nota con la sigla JURI, una delle 20 commissioni permanenti del Parlamento), fa ulteriori verifiche sull’esistenza di eventuali problemi giuridici che impediscano la nomina, solitamente legati perlopiù a potenziali conflitti d’interesse. Sulla base dei responsi delle varie commissioni la presidente decide di confermare o modificare la sua squadra, e infine sottopone l’intera commissione al voto dell’assemblea plenaria del Parlamento Europeo: è una sorta di voto di fiducia, in cui la Commissione deve ottenere la maggioranza assoluta.
Sul primo di questi due passaggi si sta sviluppando da qualche giorno una polemica politica in Italia, legata all’eventualità che gli europarlamentari del Partito Democratico votino contro all’elezione del commissario indicato dal governo di Giorgia Meloni, e cioè Raffaele Fitto, l’attuale ministro per gli Affari europei. In realtà, dopo un iniziale confronto tra i dirigenti e la delegazione degli europarlamentari del PD, l’ipotesi di opporsi formalmente alla promozione di Fitto è stata subito scartata: un po’ perché Fitto, pur essendo un esponente di Fratelli d’Italia, è da anni apprezzato e stimato nelle istituzioni europee per il suo approccio moderato e tendenzialmente europeista, e un po’ perché per il PD significherebbe compromettere la possibilità che all’Italia venga assegnato un portafoglio importante, con deleghe di un certo rilievo sulle politiche di bilancio e di coesione (che sembrano appunto quelle che von der Leyen vorrebbe attribuire a Fitto).
Alcune perplessità su Fitto sono state invece espresse da esponenti stranieri, francesi e spagnoli perlopiù, che appartengono al gruppo dei Socialisti (lo stesso del PD) e a quello dei liberaldemocratici di Renew, che hanno come punto di riferimento il presidente francese Emmanuel Macron. Nelle riunioni e negli scambi di messaggi dei giorni scorsi tra gli europarlamentari di questi gruppi è emersa non tanto una contrarietà nei confronti del profilo personale di Fitto, quanto piuttosto sulla effettiva compatibilità del suo approccio con gli orientamenti programmatici della Commissione. Il partito di Fitto, cioè appunto Fratelli d’Italia, il 18 luglio scorso aveva infatti votato contro l’elezione di von der Leyen a presidente della Commissione, criticando le sue eccessive aperture alle richieste dei Verdi e dei Socialisti. Se davvero, come pare, von der Leyen vorrà assegnare a Fitto delle deleghe importanti sulle politiche di bilancio e sulla gestione dei fondi del Next Generation EU, secondo alcuni esponenti di Renew e dei Socialisti si porrà un tema: e cioè se si possa fare affidamento sul fatto che il dirigente di un partito che ha bocciato il programma della Commissione potrà poi rispettarlo e attuarlo fedelmente.
In particolare, l’eventuale attribuzione a Fitto delle deleghe sul Next Generation EU e su altri fondi di sviluppo e coesione europei potrebbe alimentare alcuni dubbi. I fondi di quei programmi, che servono tra l’altro a finanziare i vari Piani nazionali di riforme come il PNRR italiano, vengono concessi anche sulla base di alcuni princípi che riguardano l’impegno dei singoli governi ad attuare politiche coerenti sia con la transizione ecologica (il cosiddetto Green Deal), sia con il rispetto dello stato di diritto, cioè dei principi fondamentali di democrazia liberale. Fratelli d’Italia fin qui ha fortemente contestato le politiche del Green Deal seguite da von der Leyen, e ha spesso difeso i regimi illiberali come quello di Viktor Orbán in Ungheria o di Mateusz Morawiecki in Polonia, che si sono visti negare dei fondi europei proprio per il mancato rispetto dello stato di diritto.
Anche in virtù di queste perplessità, diventerà importante un passaggio burocratico che sembra scontato solo in apparenza: la prima parte dell’esame a cui il Parlamento Europeo sottoporrà le candidature dei vari commissari, tra cui quella di Fitto. Le commissioni competenti – nel caso di Fitto, se le indiscrezioni sulla sua nomina venissero confermate, si tratterebbe verosimilmente della commissione per i Bilanci – terranno conto di due cose: un questionario scritto e un’audizione orale.
Il questionario scritto, che verrà inviato al candidato via mail, sarà fatto di sette domande: due di natura generale, decise dai presidenti dei vari gruppi parlamentari e comuni per tutti i candidati, e cinque invece più specifiche, inerenti alle deleghe attribuite a ciascun commissario. I componenti delle commissioni riceveranno queste risposte e le discuteranno poi con i candidati durante un’audizione in presenza al Parlamento Europeo, dove verranno poi affrontate anche questioni più generali, sia tecniche sia politiche, e si svilupperà così un dibattito che in molti casi dura anche diverse ore, al termine del quale ci sarà un voto di conferma o di bocciatura del candidato. Il voto non è vincolante ma ha un peso notevole nella scelta dei vari commissari e commissarie.
Questa procedura fu adottata per la prima volta nel 1995, in attuazione del Trattato di Maastricht, cioè il trattato fondativo dell’Unione Europea approvato nel 1992. Da allora sono stati otto i candidati respinti (in tutto o in parte) dal Parlamento Europeo, e il primo caso di bocciatura, piuttosto clamoroso, riguardò peraltro proprio un italiano: Rocco Buttiglione nel 2004.
Presidente del partito moderato di centrodestra Unione di Centro, docente di filosofia e cattolico conservatore molto rigoroso, Buttiglione era ministro per le Politiche comunitarie (cioè degli Affari europei) nel secondo governo di Silvio Berlusconi, che il 23 luglio del 2004, dopo le elezioni europee abbastanza deludenti per la maggioranza di centrodestra, lo indicò come commissario europeo. La delega che il presidente della Commissione, il Popolare portoghese José Barroso, pensò di assegnargli era piuttosto rilevante: commissario alla Giustizia, alle Libertà e alla Sicurezza, con l’aggiunta dell’incarico di vicepresidente della Commissione. Tra gli europarlamentari socialisti e liberali iniziarono a circolare dei dubbi su quell’incarico, per via delle grosse polemiche che riguardavano le controversie giudiziarie in cui era coinvolto Berlusconi, prefigurando possibili conflitti di competenze per un membro del governo italiano che assumeva le deleghe alla Giustizia. La polemica però poi si spostò su altre questioni.
Il 5 ottobre del 2004 si svolse infatti l’audizione di Buttiglione presso la commissione Libertà pubbliche del Parlamento Europeo, presieduta dal liberale francese Jean-Louis Bourlanges. A un certo punto la deputata liberale olandese Sophie in ’t Veld, molto attiva sul fronte dei diritti civili, fece riferimento ad alcune leggi approvate dal governo di Berlusconi che a suo avviso discriminavano le persone omosessuali «in alcuni settori del lavoro». «Come facciamo a darle fiducia?», chiese. La domanda sembrava tutto sommato apparentemente innocua, ma Buttiglione si imbarcò in una complicata spiegazione «da filosofo», come spiegò lui stesso in seguito, proponendo «una distinzione kantiana tra morale e diritto», e dicendo che «come cattolico considero l’omosessualità un peccato, ma non un crimine». Aggiunse poi che «la mia è una posizione morale che non incide sui diritti che devono essere riconosciuti a tutti». A quel punto il dibattito si accalorò e si concentrò sul rispetto dei diritti civili, e a Buttiglione venne chiesto cosa pensava dei matrimoni omosessuali e dell’aborto. Lui rispose partendo «dalla radice latina» di matrimonio, «che significa protezione della madre: una protezione da parte dell’uomo che consente alle donne di generare figli». Alcune deputate tedesche e olandesi protestarono e lui ribatté: «Sono cattolico, ma questo non significa che non possa essere un buon europeo».
Le sue parole innescarono un caso politico che interessò l’intera commissione, e che generarono delle tensioni anche all’interno del governo italiano. Il 12 ottobre la commissione votò sul suo incarico, respingendo per due volte la sua elezione a commissario europeo e a membro della commissione in generale, sia pure con altre deleghe rispetto a quelle inizialmente assegnategli. Non c’erano precedenti a cui rifarsi e quindi si studiarono varie soluzioni e compromessi politici.
Mentre si sviluppavano le trattative, però, Buttiglione non fece nulla per disinnescare le polemiche, e anzi tirò fuori in altre occasioni le sue posizioni criticate. Il 25 ottobre, durante un convegno a Saint-Vincent, disse che «i bambini che non hanno un padre ma solo una madre sono figli di una madre non molto buona», attirandosi le critiche anche di esponenti del suo stesso governo (Stefania Prestigiacomo, ministra per le Pari opportunità, disse che quella pronunciata da Buttiglione era «una cosa che non sta né in cielo né in terra»). Due capi di governo, il belga Guy Verhofstadt e lo svedese Göran Persson, protestarono in maniera esplicita.
Alla fine Barroso fu costretto a rinviare il voto di fiducia sulla sua Commissione, inizialmente previsto per il 27 ottobre, fino al 22 novembre, e a ridefinire molti degli incarichi, anche perché la faccenda di Buttiglione aveva innescato una serie di ritorsioni politiche tra vari gruppi e vari paesi che aveva generato a catena altre bocciature di candidati commissari. Nel frattempo, il governo italiano ritirò la candidatura di Buttiglione sostituendola con quella di Franco Frattini, ministro degli Esteri, che ottenne la stessa delega inizialmente pensata per Buttiglione. Furono poi trovati accordi anche per le altre cariche rimaste in bilico.
Da allora altri candidati sono stati respinti nel corso degli esami da parte delle commissioni competenti o nel voto dell’assemblea. Dopo le elezioni europee del 2009, fu la ministra degli Esteri bulgara Rumiana Jeleva, designata commissaria alla Cooperazione internazionale, a ottenere un voto contrario che di fatto pose fine alla sua carriera politica: si dimise dal suo incarico di governo e fu rimpiazzata come commissaria dalla connazionale Kristalina Georgieva, che di lì invece iniziò la sua ascesa che la portò tra l’altro, nel 2019, a diventare direttrice del Fondo monetario internazionale. Nel 2014 invece la slovena Alenka Bratusek, designata dal governo di cui era a capo come commissaria all’Energia proprio pochi giorni prima che terminasse il suo mandato presidenziale, fu bocciata dal Parlamento Europeo e non ottenne l’incarico: al suo posto fu poi indicata Violeta Bulc, a cui andarono le deleghe ai Trasporti.
Nel 2019, l’ultima volta che si svolsero queste procedure, furono ben tre i commissari bocciati. Due furono respinti dalla commissione giuridica del Parlamento Europeo, per conflitti d’interesse: la romena Rovana Plumb e l’ungherese Laszlo Trocsányi. Ma il caso più clamoroso riguardò Sylvie Goulard, indicata dal governo francese come commissaria per il Mercato interno, la cui bocciatura mostrò bene come spesso, più che questioni tecniche, a determinare l’esito di queste verifiche da parte del Parlamento Europeo siano dinamiche più strettamente politiche (le stesse che potrebbero essere decisive per Fitto).
Già due volte eurodeputata e vicepresidente della Banca di Francia, Goulard venne bocciata dalle commissioni che la esaminarono per dei sospetti legati alle attività di suoi ex collaboratori (stipendiati dal Parlamento Europeo ma accusati di aver collaborato con Goulard in faccende esclusivamente francesi) e per un potenziale conflitto d’interessi dovuto a una sua partecipazione in un think tank statunitense. Molti videro quelle obiezioni più che altro come una ritorsione degli esponenti del Partito Popolare verso il presidente francese Macron, che aveva di fatto impedito la nomina del loro capogruppo Manfred Weber a presidente della Commissione Europea, favorendo invece von der Leyen. A quel punto Macron fu costretto a ritirare Goulard e a proporre Thierry Breton, che assunse le stesse deleghe al Mercato interno.