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  • Giovedì 2 maggio 2024

Pagare chi vince le medaglie alle Olimpiadi, oppure no?

La Federazione dell'atletica leggera ha deciso di farlo per la prima volta a partire dalle Olimpiadi di Parigi di quest'estate, ma c'è chi ritiene che possa essere penalizzante per gli atleti di altri sport

Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Eseosa Desalu e Filippo Tortu, vincitori della staffetta 4x100 alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 (Christian Petersen/Getty Images)
Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Eseosa Desalu e Filippo Tortu, vincitori della staffetta 4x100 alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 (Christian Petersen/Getty Images)
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Nelle ultime settimane si sta parlando molto della scelta della World Athletics, la Federazione internazionale dell’atletica leggera, di dare un premio in denaro ai vincitori e alle vincitrici delle medaglie alle Olimpiadi. A Parigi 2024 saranno premiati solo i vincitori delle medaglie d’oro (con 46mila euro, che nel caso delle staffette andranno divisi), mentre da Los Angeles 2028 saranno pagati anche gli argenti e i bronzi, ancora non si sa quanto.

Non era mai successo prima che una federazione di uno sport pagasse le atlete e gli atleti che vincono alle Olimpiadi. In molti, soprattutto tra chi lavora nelle federazioni di altri sport, non sono d’accordo con la decisione, che la World Athletics ha preso in maniera unilaterale. La ritengono contraria ai principi olimpici, ingiusta per gli atleti che non arrivano a medaglia e soprattutto “pericolosa” per altre federazioni, che potrebbero sentire l’urgenza di pagare a loro volta gli atleti, senza la disponibilità sufficiente per farlo. D’altra parte, c’è chi vede in questa novità un primo passaggio per riconoscere l’impegno e i risultati di atlete e atleti di élite che generalmente non ricevono attenzioni e ricompense minimamente paragonabili a quelle di altri sport più ricchi e popolari.

Antonella Palmisano, medaglia d’oro nella 20 chilometri di marcia alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 (Matthias Hangst/Getty Images)

I premi per le medaglie olimpiche non vengono dati né dalle federazioni dei singoli sport, né dal Comitato olimpico internazionale (il Cio, che organizza e gestisce le Olimpiadi). I singoli comitati olimpici nazionali, che comunque ricevono buona parte dei loro fondi dal Cio (che a sua volta guadagna dall’organizzazione delle Olimpiadi, in particolare da diritti televisivi e sponsorizzazioni), sono invece liberi di decidere se e come pagare i propri atleti. Il Coni, il Comitato olimpico italiano, ai Giochi di Parigi darà 180mila euro (lordi) ai vincitori delle medaglie d’oro, 90mila euro agli argenti e 45mila ai bronzi.

Sono le stesse cifre di Tokyo e verranno date a tutti i singoli vincitori: quindi se una squadra di pallavolo o di pallacanestro vincerà una medaglia, tutti i giocatori o le giocatrici riceveranno il premio. Alle ultime Olimpiadi in Giappone, quando l’Italia vinse 40 medaglie (il numero più alto di sempre), il Coni spese poco meno di 7 milioni di euro per pagarli tutti. I premi del Coni sono abbastanza alti, se confrontati con quelli dei comitati olimpici di altri paesi: gli Stati Uniti, per esempio, a Tokyo pagavano 30mila euro le medaglie d’oro, mentre a Parigi la Francia darà 80mila euro ai vincitori delle competizioni.

Ora però la federazione dell’atletica leggera ha deciso autonomamente di dare un ulteriore riconoscimento ai suoi migliori atleti. Il presidente della World Athletics Sebastian Coe (che con la Gran Bretagna vinse l’oro nei 1.500 metri a Mosca 1980 e a Los Angeles 1984) ha definito questa scelta «un impegno fondamentale per dare potere agli atleti e ricompensare il ruolo fondamentale che svolgono nel successo delle Olimpiadi, garantendo loro parte dei ricavi che generano».

Le medaglie d’oro nelle discipline dell’atletica leggera a Parigi saranno 48, quindi la World Athletics spenderà 2,4 milioni di euro. Il fatto che l’atletica leggera sia stato il primo sport a intraprendere questo cambiamento è senza dubbio significativo, perché è lo sport che più di tutti rappresenta le Olimpiadi, visto che molte delle sue discipline esistevano già ai tempi dell’antica Grecia.

Gianmarco Tamberi, medaglia d’oro nel salto in alto alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 (Roger Sedres/Gallo Images)

Tra i critici di questo provvedimento c’è l’Association of summer olympic international federations (Asoif), un’associazione che rappresenta molte federazioni di sport olimpici. Secondo l’Asoif, la World Athletics non tiene conto degli atleti meno privilegiati, cioè quelli che finiscono più in basso nella classifica finale. I vincitori già beneficiano indirettamente di sponsorizzazioni e accordi commerciali che spesso aumentano, in numero e in valore, in caso di una medaglia d’oro. Inoltre l’Asoif dice che «non tutti gli sport potrebbero, anche se volessero, fare lo stesso», e quindi secondo l’associazione dare premi in denaro andrebbe contro il principio di solidarietà delle Olimpiadi.

È la stessa obiezione che ha fatto in un’intervista a Sky l’amministratore delegato del comitato olimpico britannico Andy Anson: «Penso sia sbagliata la scelta della World Athletics di farlo per conto proprio, senza includere gli altri sport». Questo, secondo Anson, potrebbe mettere pressione alle altre federazioni anche da parte dei loro atleti, soprattutto negli sport in cui i guadagni sono più bassi. Anson ha detto di non essere contrario a parlare della questione, perché è evidente che alle Olimpiadi ci siano atleti professionisti come calciatori, tennisti e golfisti che guadagnano tanti soldi, e altri che invece ne guadagnano molti meno. Ha anche detto però che è una discussione che va affrontata collettivamente. La World Athletics ritiene invece di aver avviato questa discussione proprio con la sua decisione di dare ricompense in denaro per le medaglie.

Molti atleti e atlete che partecipano alle Olimpiadi faticano a mantenersi solo con i guadagni sportivi. È uno dei motivi per i quali, per esempio, una buona parte degli atleti italiani appartiene alle forze armate o di polizia (a Tokyo furono 270 su 384), perché senza il sostegno economico statale farebbero fatica a trovare il tempo e le risorse per allenarsi e prepararsi alle competizioni. Alle Olimpiadi ci sarà il cestista statunitense LeBron James, che solo di stipendio guadagna quasi 50 milioni di euro all’anno e ha un contratto a vita con la Nike da 1 miliardo di dollari, e ci saranno atleti con un normale stipendio delle forze armate, da 30, 40mila euro all’anno.

Massimo Stano, anche lui medaglia d’oro nella 20 chilometri di marcia alle Olimpiadi di Tokyo del 2021 (Christian Petersen/Getty Images)

Come ha spiegato la giornalista sportiva Lia Capizzi nel numero di Cose dedicato alle Olimpiadi, «una medaglia olimpica può fare tutta la differenza del mondo per quelle discipline che faticano a trovare una visibilità costante. Per i tuffi, ma pure per la scherma, per il sollevamento pesi, per il tiro con l’arco, e potrei continuare con l’elenco». Vincere una medaglia può insomma aprire opportunità commerciali importanti, ma a tutti quelli che non vanno sul podio le Olimpiadi non cambiano la vita.

Nel 2020 Associated Press fece un sondaggio tra 491 atleti di alto livello (200 dei quali olimpici o paralimpici), provenienti da 48 paesi. Il 58 per cento di loro non si considerava economicamente stabile e il 57 per cento riteneva che il Comitato olimpico internazionale dovesse pagare gli atleti per partecipare agli eventi. Secondo chi non è d’accordo con la World Athletics, però, pagare i medagliati non colmerà questo divario, e anzi potrebbe crearne uno ulteriore tra i pochissimi che vincono e tutti gli altri.

Rimangono poi dei preconcetti storici in chi si oppone a dare premi in denaro ai vincitori. Per buona parte della loro storia, dalla rinascita nel 1896 fino ai Giochi di Seul del 1988, le Olimpiadi furono riservate agli atleti cosiddetti dilettanti, cioè a coloro i quali non guadagnavano facendo sport, né attraverso premi o stipendi, né tramite sponsor. L’idea nacque sulla base di un presunto principio di uguaglianza e di recupero della tradizione dell’antica Grecia, dove non esistevano atleti “professionisti” per come li intendiamo oggi.

Questa cosa però diventò ogni anno più difficile da sostenere e cominciò a essere vista come un’ipocrisia: perché era sempre più difficile separare i dilettanti dai professionisti, perché gli sportivi (a parte i più benestanti) avevano bisogno di guadagnare per vivere, e soprattutto perché, visto il crescente successo delle Olimpiadi, non aveva senso che non vi partecipassero i migliori atleti al mondo. Anche oggi che partecipano i professionisti è ancora presente questo ideale di uguaglianza alle Olimpiadi, l’unica competizione in cui qualsiasi sport, anche il più piccolo e apparentemente meno in vista, può diventare importante. L’uguaglianza è però solo apparente, soprattutto dal punto di vista economico, perché atleti di altissimo livello in sport minori guadagnano molto meno di altri magari non eccellenti, ma che praticano sport di maggior successo commerciale e di pubblico.