Negli Stati Uniti “tax the rich” è molto più che uno slogan

Negli ultimi anni l'idea di tassare i ricchi ha assunto anche un valore culturale e sociale: i partiti, non solo i Democratici, se ne sono accorti

(David Dee Delgado/Getty Images)
(David Dee Delgado/Getty Images)
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Il 13 settembre del 2021 la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez si presentò al Met Gala di New York con un abito bianco di seta e tulle che aveva dietro una grande scritta in rosso: era lo slogan “tax the rich”, tassate i ricchi. Il Met Gala è la serata di beneficenza che tutti gli anni viene organizzata a New York in occasione dell’inaugurazione della mostra annuale del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, ed è uno degli eventi mondani più importanti della città, a cui vengono invitati celebrità, politici e artisti.

Ocasio-Cortez, che fa parte del Partito Democratico, è nota per le sue posizioni molto progressiste e il suo abito fece particolarmente discutere per l’appropriatezza di mostrare un messaggio così politico durante uno dei più dispendiosi, scenografici e opulenti eventi del mondo della moda. Ocasio-Cortez fu anche criticata per aver legittimato un evento che coinvolge proprio quei ricchi che lei vorrebbe tassare.

Lo slogan “tax the rich” è spesso usato in tutto il mondo dai partiti e dalle forze politiche che spingono per una maggiore eguaglianza economica e propongono politiche di redistribuzione dei redditi. Negli Stati Uniti degli ultimi anni, però, lo slogan ha assunto una dimensione politica e culturale molto più rilevante, che si è estesa ben oltre gli ambienti di sinistra a cui appartiene Ocasio-Cortez.

Negli anni lo slogan “tax the rich” si è allargato rispetto alla sola dimensione di sinistra rappresentata da Ocasio-Cortez ed è diventato un tema piuttosto trasversale a tutti i partiti, che in una certa misura e con toni diversi ha coinvolto anche la retorica della destra. L’opinione pubblica statunitense, davanti al forte aumento delle diseguaglianze economiche avvenuto negli ultimi decenni, è sempre più sensibile alla questione e col tempo il fascino che riuscivano a evocare i grandi ricchi statunitensi che ce l’avevano fatta si è trasformato perlopiù in insofferenza e senso di ingiustizia. A questo contribuisce anche il sistema fiscale americano, che fa sì che in molti casi le persone più ricche, fatte le dovute proporzioni, paghino meno tasse del cittadino medio.

Il primo grosso movimento a far emergere negli Stati Uniti negli ultimi anni il tema delle disuguaglianze fu “Occupy Wall Street”: fu una serie di manifestazioni organizzate da gruppi giovanili e studenteschi nell’autunno del 2011 per protestare contro la crisi economica di quegli anni e contro le disuguaglianze del mondo della finanza, i cui ricchi guadagni erano appannaggio di pochissimi. Le proteste si esaurirono piuttosto in fretta, ma il messaggio dei manifestanti rimase piuttosto forte negli ambienti della sinistra americana, tanto che negli anni successivi sono nate numerose associazioni e gruppi di pressione contro le diseguaglianze, molti dei quali avevano come obiettivo proprio una politica fiscale più progressiva: “tax the rich”, appunto.

Negli ultimi anni anche alcuni ambienti della destra americana – in particolare quella più vicina a Donald Trump – hanno cominciato a inserire nella propria retorica alcuni elementi più vicini a sensibilità sociali, ma sulle tasse non ci sono state azioni concrete. Al contrario, durante la sua presidenza Trump ha approvato una riduzione assai contestata delle tasse per i ricchi, restando dunque fedele alla visione tradizionale dei conservatori. E anche perché tassare i ricchi è difficilissimo a livello politico: il loro coinvolgimento in tante sfere di influenza rende il tema della tassazione dei grandi patrimoni uno tra i più controversi e complessi della politica e dell’economia statunitensi.

La popolarità dello slogan “tax the rich” non deriva però solo da una questione politica legata al consenso, ma risponde anche all’esigenza – sentita da molte forze politiche – di ridurre le disuguaglianze negli Stati Uniti, che sono altissime. L’1 per cento più ricco della popolazione statunitense ogni anno guadagna in media 1,3 milioni di dollari, 26 volte il reddito medio del restante 99 per cento: questo ristretto gruppo di persone guadagna da solo un quinto di tutto il reddito nazionale. E nel tempo le disuguaglianze sono molto cresciute: prima degli anni Ottanta l’1 per cento più ricco guadagnava meno di un decimo di tutto il reddito nazionale, ma da allora questa quota è sempre stata in aumento e attualmente è tornata sui livelli di un secolo fa.

Se si restringe ancora di più il campo alle 400 persone più ricche del paese,questi guadagnano almeno 110 milioni di dollari all’anno: un lavoratore medio che guadagna 40mila dollari l’anno dovrebbe lavorare 2.750 anni per riuscire a guadagnare quello che in un anno solo guadagna la persona meno ricca tra questo ristretto gruppo di persone.

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Le disuguaglianze esistono ovunque e sono fisiologiche dei sistemi economici, ma solitamente è compito dello stato e del sistema fiscale tentare di attenuarle: chi è più ricco dovrebbe contribuire proporzionalmente più di chi è povero alle spese dello stato, e pagare quindi più tasse. Quello che viene raccolto col fisco viene poi usato dal settore pubblico in termini di servizi – come la sanità, l’istruzione, la pulizia e la sicurezza delle città – e sussidi, come quelli a sostegno delle famiglie numerose, di chi perde il lavoro o di chi è ai margini della società. In questo senso lo stato redistribuisce la ricchezza da chi è più ricco a chi è più povero, attenuando in parte le disuguaglianze originarie.

Il sistema statunitense non è molto efficace nel farlo, perché talvolta i ricchi pagano meno tasse dei lavoratori ordinari, in proporzione al loro reddito. E questo si vede dal cosiddetto indice di Gini, la misura che si usa in economia per valutare come sono distribuiti i redditi in una società. Va da 0 a 1 e gli estremi sono condizioni ipotetiche: 0 significa che nella società c’è massima equità e tutti hanno gli stessi redditi; 1 corrisponde a una situazione massima disuguaglianza con tutti i redditi concentrati nelle mani di una sola persona.

L’indice di Gini tipicamente viene calcolato sulla distribuzione dei redditi prima e dopo le tasse. La differenza tra i due valori misura in sostanza l’efficacia del sistema tributario nella riduzione delle disuguaglianze: più è ampia e più è efficace. Negli Stati Uniti prima delle tasse il valore dell’indice di Gini era di 0,488 nel 2022, in linea con la media dei paesi avanzati; ma dopo le tasse (cioè dopo che i redditi sono stati tassati) restava a 0,43, un valore piuttosto al di sopra della media: significa che il sistema fiscale ha poco impatto nella correzione della disuguaglianza. Proprio nel 2022 poi si è vista una tendenza curiosa: l’indice prima delle tasse è diminuito dell’1,2 per cento rispetto al 2021, mentre dopo le tasse è aumentato del 3,2 per cento. Questo significa la società statunitense era diventata autonomamente meno diseguale, seppur di poco, ma che il sistema fiscale ha invece contribuito in senso opposto, ossia a far aumentare le disuguaglianze.

Solitamente avviene il contrario. Per esempio in Italia l’indice di Gini nel 2022 era pari a 0,464 prima delle tasse e a 0,296 dopo le tasse e i sussidi pubblici: significa che il sistema italiano è riuscito a ridurre le disuguaglianze di quasi 0,17 punti.

Il sistema tributario statunitense non riesce a ottenere lo stesso perché è disegnato in un modo che favorisce molto i più ricchi. Secondo uno studio della Casa Bianca tra il 2010 e il 2018 le 400 persone più ricche hanno pagato solo l’8,2 per cento di imposte sui loro redditi. E la percentuale si riduce ancora se si mettono in relazione le tasse pagate non con i redditi ma con i loro patrimoni complessivi, ben più alti dei redditi annuali. In un’inchiesta del 2021 i giornalisti di ProPublica, un giornale online indipendente e specializzato nel giornalismo investigativo, hanno stimato che tra il 2014 e il 2018 le 25 persone più ricche del paese – una lista che include tra gli altri Bill Gates, Elon Musk, Warren Buffett e Jeff Bezos — hanno pagato tasse molto basse se paragonate a quanto sono cresciuti i loro patrimoni nello stesso periodo: il 3,4 per cento, in media.

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Non significa automaticamente che questi evadano le tasse: in realtà spesso usano escamotage previsti dal sistema fiscale, che finisce per favorirli particolarmente. Come la maggior parte dei sistemi fiscali al mondo (compreso quello italiano), il sistema statunitense è progettato per essere progressivo: più soldi si guadagnano, maggiore è l’aliquota fiscale che si deve pagare. Per esempio, una coppia sposata paga complessivamente il 10 per cento di tasse sui primi 19.900 dollari di reddito imponibile, una quota che sale al 37 per cento per tutto ciò che guadagna oltre i 628.300 dollari. Ma questo vale solo sulla carta. Grazie agli sgravi, alle detrazioni, alle tassazioni di favore, ci sono molte eccezioni che riducono quasi sempre le tasse da pagare. Si considera dunque quella che si chiama l’aliquota fiscale effettiva, ossia la percentuale sul reddito che realmente va destinata alle tasse. Per esempio se su 100 dollari di reddito ci sarebbe da pagare il 20 per cento di tasse, non è detto che le tasse da pagare saranno infine davvero 20 dollari: magari si ha diritto a qualche deduzione o detrazione, come quelle per i figli o per le attività di beneficenza, che riducono la tassazione da 20 a 15 dollari. Significa che infine l’aliquota fiscale effettiva è del 15 per cento e non del 20.

Sono due i principali motivi per cui negli Stati Uniti le persone molto ricche riescono a pagare poche tasse. Il primo è che sfruttano tantissimo la tassazione per i redditi da capitali, ossia tutti quei redditi che originano dall’avere strumenti finanziari, come azioni e obbligazioni: sono tassati al 20 per cento, mentre i redditi da lavoro a quei livelli al 37. I guadagni e i patrimoni delle persone molto ricche derivano perlopiù dal possedere aziende o da investimenti, e non dai redditi da lavoro, col risultato che riescono a sfruttare moltissimo questa tassazione di favore. Il secondo deriva dai vantaggi fiscali garantiti a chi fa donazioni benefiche, che spesso sono molto sostanziose e fiscalmente deducibili.

Questi due metodi sono assai favorevoli per le persone molto molto ricche. Secondo ProPublica, nel 2018 Elon Musk non ha pagato niente in termini di tasse federali sul reddito, così nel 2020 l’ex presidente degli Stati uniti Donald Trump. È famosa la frase del miliardario Warren Buffett, che durante un’intervista disse che pagava «meno tasse della sua segretaria».

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Tutto questo nel tempo ha accresciuto notevolmente il sentimento di ingiustizia nella popolazione, i cui redditi sono stati intaccati prima dalla grossa crisi finanziaria del 2008, e più di recente dalla pandemia e dall’inflazione. Per questo, nonostante le proteste dei miliardari, “tax the rich” non è più uno slogan esclusivo degli ambienti estremamente progressisti, ma sta diventando sempre più mainstream.

Il tema è entrato anche nella retorica e nei piani di Joe Biden, un presidente dalle posizioni moderate che pure ha riproposto l’idea che i ricchi debbano pagare più tasse. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2023 ha detto che «nessun miliardario dovrebbe pagare un’aliquota fiscale più bassa di un insegnante o un pompiere» e ripete spesso che è il momento che i ricchi paghino la loro «giusta parte».

Benché la retorica di Biden sia più moderata rispetto allo slogan di “tax the rich”, il presidente americano ha fatto numerose proposte piuttosto radicali per tassare di più i ricchi, nel tentativo di ridurre le disuguaglianze e di aumentare le entrate per importanti programmi governativi di previdenza sociale. Tra queste: un’imposta patrimoniale del 20 per cento sulle famiglie con patrimoni da oltre 100 milioni di dollari; un’imposta minima del 15 per cento sulle grandi società; l’aumento dell’aliquota fiscale dal 37 al 39,6 per chi guadagna più di 400mila dollari all’anno, che abrogherebbe il taglio delle tasse voluto da Donald Trump nel 2017; l’aumento dell’aliquota per i redditi da capitale dal 20 al 39,6 per cento nel caso in cui superino 1 milione di dollari.

Queste proposte non hanno tuttavia trovato un appoggio politico per diventare legge, visto che dalle elezioni di metà mandato del novembre 2022 la Camera non è più a maggioranza Democratica. Le discussioni per approvare un aumento delle tasse federali sui più ricchi erano state complesse anche prima, quando il partito di Biden controllava con una maggioranza molto limitata entrambe le camere, ma di fatto non sono nemmeno cominciate. Nonostante questo nei suoi discorsi Biden punta molto sulla retorica della riduzione delle disuguaglianze e sulla tassazione dei più ricchi, che ritiene un messaggio efficace sul piano politico.

A livello dei singoli stati però c’è un nascente movimento politico trasversale su questo tema, che sta tentando di raggiungere risultati concreti. Per esempio nello stato di Washington è stata introdotta nel 2021 un’imposta sui guadagni derivanti dalla vendita di strumenti finanziari: se si ottiene un profitto vendendo azioni e obbligazioni, questo profitto viene tassato al 7 per cento. A fine 2022 gli elettori del Massachusetts hanno modificato la Costituzione statale con un referendum per introdurre una tassa aggiuntiva del 4 per cento su tutti i redditi sopra 1 milione di dollari. E in otto stati ci sono stati progetti di legge per riformare i sistemi fiscali più iniqui.

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