Che fine ha fatto il “petro”?

La criptovaluta ufficiale del Venezuela fu presentata con grande entusiasmo nel 2018: oggi è scomparsa e inutilizzata

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro mentre usa un binocolo
Il presidente venezuelano Nicolás Maduro mentre usa un binocolo (AP Photo/Ariana Cubillos)
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All’inizio del 2018 il presidente venezuelano Nicolás Maduro annunciò la creazione del petro, la criptovaluta voluta dal governo del Venezuela. Il petro fu presentato come un’alternativa alle valute tradizionali, da usare per pagare fornitori esteri e aggirare le pesanti sanzioni imposte dagli Stati Uniti, che imponevano stringenti restrizioni al commercio con il paese e che sono state ridotte solo di recente. Furono emessi 100 milioni di petro, per un valore complessivo di circa 6 miliardi di dollari: ogni petro valeva circa 60 dollari e corrispondeva all’epoca al prezzo di un barile di petrolio (di cui il Venezuela è produttore).

A prescindere dai motivi per cui fu introdotto, il petro fu allora considerato un progetto bizzarro, e un tentativo piuttosto disperato di risollevare l’economia di un paese che stava attraversando una grave crisi e una forte svalutazione della sua valuta, il bolivar. Sei anni dopo, la criptovaluta non ha mai avuto successo e non è riuscita a inserirsi tra le abitudini di pagamento e investimento degli abitanti del Venezuela, col risultato che è praticamente scomparsa dalla circolazione da quasi un anno e che recentemente è stata proprio ritirata.

Innanzitutto c’è una ragione giudiziaria. A marzo del 2023 tutte le operazioni effettuate con il petro furono sospese a causa di una grossa vicenda di corruzione che coinvolse la più importante compagnia petrolifera nazionale, la statale Petróleos de Venezuela (PDVSA), e l’allora ministro del Petrolio, Tareck El Aissami, che si dimise: secondo le indagini, tuttora in corso, sarebbero stati sottratti allo stato circa 3,5 miliardi di dollari di proventi pubblici del petrolio, e per farlo sarebbero stati usati proprio i petro grazie alla complicità dell’autorità di vigilanza venezuelana sulle criptovalute. A metà gennaio la piattaforma su cui venivano scambiati i petro è stata poi chiusa e quelli ancora in circolazione sono stati convertiti in bolivar, la moneta venezuelana corrente.

Ma già prima di questa vicenda, che ha di fatto decretato la fine della circolazione del petro, la criptovaluta venezuelana non veniva usata granché.

Il motivo principale è legato al fatto che subito dopo la sua creazione gli Stati Uniti ne vietarono l’acquisto e la vendita, rendendo i petro inutilizzabili fuori dal Venezuela. Fu un bel problema, perché la criptovaluta venezuelana nacque proprio con l’intento di aggirare le sanzioni statunitensi che ostacolavano il commercio estero.

Da allora il petro era diventata una valuta a uso principalmente interno: per pagare dipendenti pubblici e pensionati, o alcune tasse. I pensionati che ricevevano petro non sapevano che farsene, e i più giovani, che avevano più dimestichezza con la tecnologia, di fatto non ne venivano mai in possesso.

C’è poi una questione ideologica legata all’insuccesso del petro, che ha a che fare col fatto che fin dall’inizio non c’è mai stata una grande fiducia da parte degli abitanti del Venezuela verso la nuova valuta. Era un progetto del governo gestito dalla banca centrale del paese, ed entrambe le istituzioni non godevano (e non godono tutt’ora) di particolare popolarità nell’opinione pubblica, a causa di anni di corruzione e mancato rispetto dei diritti democratici e umani da parte del governo.

E proprio l’essere un progetto del governo, gestito a livello centrale, ha tolto al petro tutte quelle caratteristiche che garantiscono la popolarità delle criptovalute, come la non tracciabilità e l’essere alternative agli strumenti della finanza tradizionale. Visti gli usi limitati il petro aveva poi assunto la forma di unità di conto, una sorta di riferimento per fissare i prezzi, i salari, nonché per il pagamento di tasse, imposte e contributi.