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  • Mercoledì 31 gennaio 2024

Com’è che Democratici e Repubblicani si scambiarono i ruoli

Sono da sempre le due forze politiche principali degli Stati Uniti: oggi hanno identità ben distinte, ma in secoli di storia sono cambiate molte cose

(Drew Angerer/Getty Images)
(Drew Angerer/Getty Images)
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Da secoli la politica statunitense gira intorno a due partiti, Democratico e Repubblicano, ai quali oggi può sembrare facile attribuire posizioni ben precise: i Repubblicani sono conservatori e difendono i valori tradizionali, mentre i Democratici sono più aperti e progressisti. Siamo abituati a pensare, per esempio, che chi è favorevole al possesso di armi e contrario all’immigrazione dai paesi dell’America Latina voterà per i Repubblicani, mentre chi sostiene il diritto all’aborto o appartiene alla comunità LGBTQ+ sia vicino ai Democratici. In molti casi è vero, ma non sempre, e non è sempre stato così.

Cambiamenti politici e sociali hanno trasformato i due grandi partiti statunitensi, che inizialmente sostenevano posizioni praticamente opposte rispetto a quelle attuali: nella seconda metà dell’Ottocento il partito Democratico era di gran lunga il più conservatore, mentre i Repubblicani volevano abolire la schiavitù ed erano favorevoli alla creazione di un governo centrale forte e molto presente nella vita dei cittadini (oggi è il contrario).

La storia dei partiti politici statunitensi si intreccia inevitabilmente con quella degli Stati Uniti, e comincia nella seconda metà del Settecento. I primi abitanti che dal Regno Unito si insediarono sulla costa orientale del paese erano contrari alla creazione di un sistema politico basato sui partiti e sui poteri molto concentrati, consci delle difficoltà e del caos che questo aveva creato in Europa. Nel corso del XVII secolo infatti nelle isole britanniche si erano combattute diverse guerre civili tra i tre regni di Inghilterra, Scozia e Irlanda, che ebbero al centro i rispettivi poteri, la persistenza o meno delle monarchie e il ruolo della Chiesa: fu un periodo molto sanguinoso e turbolento, che iniziò proprio a causa delle divisioni tra parlamentaristi e monarchici sulla forma di governo da adottare e sul ruolo della religione. Quell’esperienza fu tra i fattori per cui da allora e ancora oggi la questione centrale che attraversa ogni questione politica americana è: quanto potere al governo centrale, quanto potere ai singoli stati.
La Costituzione degli Stati Uniti, scritta nel 1787, non contiene alcun riferimento all’eventuale formazione di partiti politici.

Il passaggio però si rivelò inevitabile, e anzi le prime divisioni nacquero proprio in merito all’approvazione della Costituzione: da un lato si posero i Federalisti, favorevoli alla ratifica del testo e alla creazione di un forte governo centrale, e dall’altro gli anti-Federalisti, poi diventati Democratici-Repubblicani, che invece chiedevano di modificarlo in modo da attribuire maggiori poteri ai singoli stati.

Il partito Democratico-Repubblicano prevalse presto, facendo scomparire quello Federalista, e nella prima metà dell’Ottocento subì una scissione che creò i presupposti del sistema moderno. Andrew Jackson, eletto presidente nel 1828 e poi nel 1832, fondò il Partito Democratico, mentre dall’altro lato nacque il Whig Party, il predecessore del Partito Repubblicano che fu fondato ufficialmente nel 1854. In quel momento i Democratici, radicati soprattutto al Sud, sostenevano l’autonomia degli stati e la schiavitù. I Repubblicani invece, presenti in gran parte al Nord, erano a favore del sistema federalista e di un governo centrale che sostenesse l’industria capitalista locale, e contrari allo schiavismo.

Nel corso della campagna elettorale per elezioni del 1828, gli oppositori di Jackson iniziarono a riferirsi a lui con il termine dispregiativo “jackass”, traducibile con “asino” o “somaro”. Arriva da qui quello che ancora oggi è il simbolo del partito Democratico: un asino.

Il partito Repubblicano invece iniziò a essere associato al proprio simbolo, un elefante, durante la Guerra civile, dato che alcuni suoi esponenti adottarono il modo di dire “vedere l’elefante”, usato per riferirsi a esperienze impegnative o combattive. La rappresentazione fu interpretata come ufficiale solo a partire dal 1874, quando venne usata per la prima volta in una vignetta pubblicata sulla rivista Harper’s Weekly: nel disegno si vede un elefante, indicato come simbolo del “voto repubblicano”, che sta per cadere da un dirupo. Thomas Nast, l’autore della vignetta, continuò a usare l’elefante come simbolo del Partito Repubblicano in altre vignette, trasformandolo così nel simbolo del partito.

La statua del presidente Abraham Lincoln al Lincoln Memorial di Washington, D. C. (Kevin Dietsch/Getty Images)

I due partiti si sfidarono per la prima volta nelle elezioni del 1856, vinte dai Democratici. Quattro anni dopo, però, fu eletto un Repubblicano che avrebbe cambiato per sempre la storia degli Stati Uniti: Abraham Lincoln, ricordato per aver formalmente abolito la schiavitù e messo fine alla Guerra civile che divise il paese tra il 1861 e il 1865.

Dopo la fine della Guerra civile iniziò un lungo periodo di predominanza del Partito Repubblicano. Tra il 1868 e il 1932 i suoi candidati vinsero quasi tutte le elezioni presidenziali, con le sole eccezioni dei mandati di Grover Cleveland, alla fine dell’Ottocento, e Woodrow Wilson, durante la Prima guerra mondiale. I Repubblicani erano radicati nelle città del Nord, che stavano attraversando un periodo di forte sviluppo urbano e industriale, e il partito divenne presto il difensore degli interessi delle imprese e delle attività commerciali. I Democratici, presenti soprattutto a Sud, rimasero invece un partito sostanzialmente rurale, che voleva difendere le persone comuni dalla crescente influenza delle grandi industrie e continuava a sostenere i princìpi dello schiavismo e la necessità di separare i neri dai bianchi nella società.

Era un periodo storico molto particolare, in cui prevaleva una generale ostilità all’integrazione tra gruppi etnici diversi: nonostante la schiavitù fosse stata formalmente abolita nel 1865, molte altre forme di discriminazione razziale rimasero in vigore. Nel 1896 la Corte Suprema statunitense emanò una tra le sue sentenze più controverse: stabiliva il concetto di «separate but equal», secondo cui i bianchi e i neri dovevano rimanere separati, pur mantenendo gli stessi diritti. Nella pratica, la prima parte della frase fu molto più rispettata della seconda. Gli abusi continuarono per quasi un secolo e negli stati del Sud si diffusero le leggi chiamate “Jim Crow”, che contribuirono a sistematizzare la segregazione razziale per i neri e per i membri di altri gruppi etnici diversi dai bianchi.

Non è chiaro come il personaggio di Jim Crow, un menestrello nero, sia diventato il nome con cui ci si riferisce alle leggi sulla segregazione razziale del XIX secolo. Il personaggio fu inventato intorno al 1830 da Thomas Dartmouth Rice, un cabarettista bianco che diventò uno dei più conosciuti artisti che si dipingevano la faccia di nero per rappresentare in modo caricaturale e offensivo le popolazioni africane. Da lì in poi “Jim Crow” divenne un’espressione dispregiativa per indicare gli afroamericani, e quando furono emanate le leggi per la segregazione razziale presero questo nome.

– Leggi anche: Cosa furono le leggi “Jim Crow”

Nei primi anni Trenta la storia dei due partiti statunitensi cambiò. Era il periodo della Grande Depressione, iniziata nel 1929 e ancora oggi considerata la più grande crisi economica dell’Occidente moderno. Nel 1932 fu eletto presidente il Democratico Franklin Delano Roosevelt: il suo New Deal, un enorme pacchetto di riforme pensato per rilanciare l’economia, favorì una forte espansione del governo federale, promuovendo la costruzione di nuove infrastrutture e la creazione di moltissimi posti di lavoro. Il partito Democratico venne associato a un pensiero molto più progressista, basato sullo sviluppo del welfare state e sulla regolamentazione delle attività delle imprese. Roosevelt è l’unico presidente a essere stato rieletto per più di una volta, e morì durante il suo quarto mandato (il limite di due mandati fu introdotto nel 1951).

A partire dagli anni Trenta del Novecento il partito Democratico riuscì quindi a imporsi sulla scena politica nazionale, ma presto avrebbe dovuto affrontare una nuova divisione interna, relativa questa volta ai diritti civili. La società statunitense continuava a trasformarsi, e l’arrivo della Seconda guerra mondiale cambiò ancora la situazione, soprattutto per quanto riguarda la composizione demografica del paese: nella seconda metà del secolo molti afroamericani si trasferirono dal Sud al Nord, sia per cercare nuove opportunità lavorative nelle fabbriche delle grandi città del Midwest che per sfuggire all’oppressione delle leggi Jim Crow.

Nel 1954 un’importante sentenza della Corte Suprema, la Brown v. Board of Education, ordinò la desegregazione delle scuole. Iniziò il periodo delle lotte per i diritti civili, guidate da persone come Martin Luther King Jr., uno tra i più importanti e influenti attivisti politici del Novecento, e Rosa Parks, la donna afroamericana che nel 1955 si rifiutò di cedere il suo posto su un autobus a una donna bianca a Montgomery, in Alabama, provocando molte proteste.

In quel momento i Repubblicani continuavano a essere il partito più vicino agli afroamericani, e i Democratici si ritrovarono in una posizione scomoda: da un lato le proteste per i diritti civili erano diventate troppo grandi per essere ignorate, dall’altro il suo elettorato al Sud era ancora in gran parte formato da persone bianche, conservatrici e favorevoli alla segregazione. Alcuni Democratici del Sud, contrari alla svolta tollerante verso la quale il partito si stava indirizzando, si separarono e fondarono il partito dei Dixiecrat, che però ebbe vita breve e non influì in modo significativo sulla scena politica nazionale.

Il 2 luglio del 1964 il presidente Democratico Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act, che tra le altre cose dichiarava illegale la segregazione razziale nelle strutture pubbliche. L’approvazione del testo divise il partito, la discussione fu complicata da un tentativo di ostruzionismo durato 60 giorni e guidato proprio da esponenti dell’ala più intransigente dei Democratici. Alcuni senatori sfruttarono lo strumento del cosiddetto filibuster, con cui un membro del Congresso può continuare a parlare a oltranza durante una discussione in aula in modo da bloccare, o perlomeno rallentare, i lavori e impedire di fatto l’approvazione del testo in questione. L’iniziativa fu avviata dal Democratico Robert Byrd, che la sera del 9 giugno commentò il Civil Rights Act per 14 ore e 13 minuti di seguito (da giovane Byrd si era iscritto anche al gruppo razzista del Ku Klux Klan, salvo poi pentirsene).

Alla fine 21 senatori Democratici votarono contro il Civil Rights Act, insieme a soli sei Repubblicani. Oggi il partito Democratico presenta l’approvazione della legge come una grande vittoria politica e un simbolo della propria identità tollerante e progressista, ma al tempo il tema fu molto più controverso.

Il presidente Lyndon Johnson firma il Civil Rights Act, il 2 luglio del 1964 (AP Photo, File)

Mentre il partito Democratico si spostava su posizioni più progressiste e attente ai cambiamenti degli anni Sessanta, i Repubblicani fecero la mossa opposta e adottarono principi più conservatori e reazionari, spinti anche dall’aumento della criminalità e dai movimenti della contestazione giovanile. Alle elezioni presidenziali del 1964, vinte da Johnson con un enorme vantaggio, il candidato Repubblicano era Barry Goldwater, che in campagna elettorale si disse contrario al Civil Rights Act e alla fine della segregazione razziale. Vinse però solo in sei stati del Sud, che a lungo avevano votato per i Democratici ma non erano d’accordo con le loro nuove politiche tolleranti.

Nel 1968 il candidato Repubblicano alla presidenza, Richard Nixon, affinò la retorica inaugurata da Goldwater e la trasformò in quella che oggi viene definita la “Southern Strategy”: una strategia comunicativa adottata da alcuni esponenti Repubblicani con l’obiettivo di ottenere i voti degli elettori bianchi e conservatori facendo leva sulla loro ostilità nei confronti delle persone nere, ma senza presentarsi come esplicitamente razzisti o troppo radicali.

Nacque così il motto del “Law and Order”, un approccio che divenne molto popolare tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, fondato soprattutto sulla persecuzione di crimini minori legati alla violenza e allo spaccio di droga nel tentativo di ripristinare un senso di sicurezza tra i cittadini e guadagnare consensi nella maggioranza bianca. Di fatto era una politica implicitamente razzista, e le persone nere o ispaniche furono prese di mira molto più di quelle bianche.

A partire dagli anni Settanta, il partito Repubblicano diventò una forza politica conservatrice che attrae soprattutto persone bianche e che si oppongono ai cambiamenti, mentre il partito Democratico si spostò su posizioni molto più egualitarie, a partire dal rispetto delle minoranze. Sono posizioni mantenute ancora oggi, anche se in alcuni casi iniziano a confondersi.

I grossi sconvolgimenti degli ultimi anni, tra cui lo sviluppo della tecnologia e di nuove sensibilità più attente ai temi dell’inclusività, hanno creato una società estremamente sfaccettata, a cui un sistema politico bipolare comincia a stare stretto. I due principali partiti non sono entità monolitiche, ma al loro interno coesistono diverse “correnti” che rappresentano le tante sfumature del pensiero progressista da un lato e conservatore dall’altro.

– Leggi anche: La crisi d’identità dei Repubblicani americani

La deputata Repubblicana Marjorie Taylor Greene, tra i membri del Freedom Caucus (Kevin Dietsch/Getty Images)

Negli ultimi anni nel partito Repubblicano si sono formate varie fazioni interne. Nel 2009 nacque il Tea Party movement, un movimento basato sui principi del conservatorismo fiscale, che proponeva genericamente di tagliare le tasse e ridurre il debito e la spesa pubblica ma sfociò anche nel complottismo. Nel 2015 alcuni deputati Repubblicani del Tea Party movement fondarono il Freedom Caucus, un gruppo parlamentare estremamente conservatore che ancora oggi influenza molto le decisioni della Camera degli Stati Uniti.

Oggi il Freedom Caucus conta circa 40 esponenti Repubblicani, tutti fedeli sostenitori dell’ex presidente Donald Trump. I membri del Freedom Caucus si riferiscono agli esponenti più moderati del partito con l’acronimo RINO, che significa“Republicans in name only” (ossia Repubblicani solo a parole), un’allusione al fatto che le loro idee non siano abbastanza radicali.

Il partito Democratico è diviso tra una posizione maggioritaria, rappresentata tra gli altri dal presidente Joe Biden, e un’altra più radicale e socialista che si è formata solo nell’ultimo decennio soprattutto con la candidatura alle primarie di Bernie Sanders. Ne fa parte per esempio la popolare deputata Alexandria Ocasio-Cortez, che proviene da una famiglia portoricana e nel 2019 fu eletta in un distretto multietnico di New York. Nel 2020 Ocasio-Cortez disse in un’intervista che il partito Democratico era ormai diventato «una tenda troppo grande»: il riferimento è al concetto della “big tent”, cioè ai partiti che ospitano al loro interno posizioni politiche anche molto diverse. Ocasio-Cortez disse: «In qualunque altro paese, io e Joe Biden non saremmo nello stesso partito, ma in America è così».

La deputata Alexandria Ocasio-Cortez (Drew Angerer/Getty Images)

Nonostante le divisioni interne, la ragione per la quale la politica americana continua a essere basata su due grandi partiti dipende principalmente dal sistema elettorale, che negli Stati Uniti è prettamente maggioritario: in inglese viene spesso definito con la formula “first past the post”, ossia il candidato che prende più voti vince tutto e gli altri partiti non ottengono alcun seggio. Nel caso delle elezioni presidenziali, per esempio, vince in ogni stato il candidato del partito che prende anche un solo voto più dell’altro: votare un partito piccolo, che non ha alcuna possibilità di ottenere più voti degli altri, è praticamente inutile. La stessa Ocasio-Cortez ha poi infatti insistito pubblicamente sul sostegno a Biden.

In passato ci sono stati alcuni tentativi di mettere fine al predominio dei grandi partiti statunitensi e al sistema bipolare che rappresentano, senza grande successo. Ci provò nel 1912 Theodore Roosevelt, che era già stato presidente con il partito Repubblicano tra il 1901 e il 1909: si candidò alle primarie ma le perse e fondò un nuovo partito, noto come partito Progressista o Bull Moose Party. Alle elezioni del 1912 si sfidarono quindi il candidato Repubblicano William Howard Taft, il Democratico Woodrow Wilson, il Progressista Roosevelt e anche Eugene V. Debs, esponente del partito Socialista. Vinse Wilson, ma Roosevelt ottenne più voti rispetto a Taft: fu l’unica elezione in cui uno dei due principali partiti venne superato da un’altra forza politica.

Negli anni Novanta l’imprenditore e milionario texano Ross Perot si candidò come indipendente in due elezioni, nel 1992 e nel 1996: finanziò la campagna in gran parte con fondi personali, fondò il Reform Party e nella prima occasione gli fu concesso di partecipare ai dibattiti politici con gli altri due candidati “maggiori”, George H.W. Bush (Repubblicano) e Bill Clinton (Democratico). Nel 1992 ottenne il 19 per cento dei voti, il miglior risultato di un indipendente dai tempi di Roosevelt, e arrivò secondo in Maine e in Utah. Quattro anni dopo si fermò all’8,4 per cento dei voti, un risultato comunque non trascurabile.

Un altro caso che viene spesso ricordato è quello di Ralph Nader, avvocato e politico di sinistra che nel 2000 si candidò alle presidenziali con il Green Party (si era già candidato prima e si sarebbe candidato ancora). Gli altri due contendenti erano George W. Bush, con i Repubblicani, e Al Gore, con i Democratici. Fu un’elezione molto contestata, tanto che per oltre un mese il risultato rimase incerto soprattutto a causa di continui problemi con il conteggio dei voti in Florida. Bush e Gore erano distanziati da poche centinaia di voti, ma Nader ne prese più di 97mila nello stato: una quota complessivamente molto piccola, ma data l’incertezza dei risultati gli analisti fecero notare che se non ci fosse stato Nader il risultato finale avrebbe potuto essere diverso, e forse Gore avrebbe vinto.

Ma per tornare al titolo di questo articolo, i due grandi partiti americani sono non solo delle «big tent» ma sono capaci – grazie alla loro fluidità e al sistema delle primarie – di adattarsi ai cambiamenti sociali e alle domande dell’elettorato, e alle leadership che ottengono maggiore consenso, come dimostrano appunto il recente spostamento a sinistra del partito Democratico e soprattutto l’adeguamento al potere e al successo di Donald Trump da parte del partito Repubblicano. Sviluppi nati all’esterno di ciascuno dei due partiti.

– Leggi anche: Le incredibili elezioni presidenziali statunitensi del 2000