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  • Lunedì 28 agosto 2023

«I have a dream», sessant’anni fa

Il famoso discorso di Martin Luther King Jr. fu pronunciato al termine della marcia su Washington, la storica manifestazione per i diritti civili negli Stati Uniti

Martin Luther King Jr., il 28 agosto 1963 (AFP/Getty Images)
Martin Luther King Jr., il 28 agosto 1963 (AFP/Getty Images)
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“I have a dream”, tra le frasi più famose del Novecento, fu pronunciata il 28 agosto di 60 anni fa da Martin Luther King Jr. davanti ad almeno 200mila persone che si erano radunate a Washington, negli Stati Uniti, per partecipare a una delle più grandi marce politiche mai organizzate nel paese. In breve tempo quella frase sarebbe diventata il simbolo delle proteste e delle richieste per chiedere la fine della segregazione e il riconoscimento dei diritti civili senza discriminazioni.

La marcia del 28 agosto 1963 era stata organizzata da King insieme ai leader delle principali organizzazioni per la lotta per i diritti civili. All’epoca, King aveva 34 anni e da pastore protestante era diventato un attivista e politico molto in vista e ascoltato. L’anno seguente fu insignito con il Premio Nobel per la Pace, all’epoca la persona più giovane a ottenere quel riconoscimento. Quattro anni dopo, nel 1968, tenne il proprio ultimo discorso a Memphis, il giorno prima di essere ucciso da James Earl Ray, che gli sparò un colpo alla testa con un fucile di precisione mentre King era affacciato al balcone della stanza di un motel.

In quell’estate del 1963, King e gli altri leader per i diritti civili avevano deciso di organizzare la “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà” sulla scia del successo delle oltre 1.300 manifestazioni organizzate localmente in pochi mesi in più di 200 città statunitensi. La marcia di Washington aveva obiettivi più ambiziosi e prevedeva una grande mobilitazione verso la capitale del paese. Lo scopo era chiedere pacificamente, ma in modo più incisivo, l’approvazione di una nuova legge per impedire qualsiasi forma di segregazione. All’epoca erano infatti ancora in vigore le “leggi Jim Crow”, che di fatto rendevano legali le discriminazioni nei confronti degli afroamericani.

In quel momento si riteneva che la tensione sociale avesse raggiunto il proprio massimo e che la questione razziale potesse tramutarsi in una rivoluzione. La maggior parte delle manifestazioni organizzate fino ad allora era stata pacifica, ma c’erano comunque stati casi di scontri, con violenze e rivolte. Alcuni gruppi si erano inoltre allontanati dall’organizzazione pacifica di King e degli altri leader, sostenendo che fosse necessario rinunciare alla nonviolenza per ottenere più rapidamente i pari diritti.

La spilla di una donna che partecipa alla marcia su Washington, 28 agosto 1963 (Photo by Express Newspapers/Getty Images)

Seppure minoritaria, la presenza di questi gruppi più estremisti fu spesso sfruttata soprattutto dai politici e dai media conservatori per sostenere che il movimento per i diritti civili e le manifestazioni violente fossero in sostanza la stessa cosa, e che costituissero di conseguenza una minaccia per l’ordine pubblico e più in generale per gli Stati Uniti. Ciò contribuì a creare una certa inquietudine tra la popolazione quando fu annunciata la marcia su Washington. L’organizzazione dell’evento fu raccontata da alcuni giornali e televisioni con toni allarmistici, evocando la possibilità di disordini, scontri e saccheggi.

Nelle prime ore del mattino del 28 agosto c’erano pochissime persone in giro per Washington, fatta eccezione per i manifestanti che si stavano riunendo intorno al Washington Monument, il grande obelisco di marmo in mezzo al National Mall, l’ampio viale monumentale della capitale. Gli uffici governativi erano chiusi e le autorità locali avevano invitato gli impiegati a rimanere a casa. Erano chiusi anche negozi e varie altre attività commerciali, con molte persone che avevano preferito prendere ferie e allontanarsi da Washington, nel timore che potessero esserci disordini e violenze. La vendita di alcolici era stata proibita in tutta la città per almeno 24 ore, la prima volta che accadeva dai tempi del proibizionismo.

A sorvegliare la marcia c’erano almeno seimila poliziotti, duemila membri della guardia nazionale e migliaia di soldati, senza contare gli agenti dell’FBI e dei servizi segreti che controllavano la manifestazione dai piani alti di alcuni edifici. Erano stati inoltre infiltrati più di 150 agenti tra i vari gruppi che dovevano partecipare alla manifestazione, in modo da raccogliere informazioni sulla fase organizzativa e sui piani dei manifestanti. King e gli altri leader erano tenuti sotto controllo da tempo, i loro spostamenti e i loro telefoni erano costantemente sorvegliati.

Il Washington Monument, l’obelisco alto 169 metri al centro della città e luogo fissato per il raduno della marcia del 28 agosto 1963 (AP Photo)

Una parte rilevante delle precauzioni era stata presa su ordine diretto di John Fitzgerald Kennedy, all’epoca presidente degli Stati Uniti, e del fratello Bob, procuratore generale del paese. Per lungo tempo il presidente aveva ritenuto che la questione dei diritti civili dovesse essere affrontata politicamente, ma non aveva usato la questione razziale per farne uno dei temi forti della propria amministrazione. Il Partito Democratico, quello cui faceva riferimento, era del resto diviso tra i liberal del nord e i segregazionisti del sud: una posizione troppo netta avrebbe rischiato di portare a una rottura all’interno del partito.

L’orientamento di Kennedy era in parte cambiato nell’estate del 1963: la questione razziale era ormai di strettissima attualità ed era evidente che il modo in cui sarebbe stata gestita avrebbe definito più di molto altro la sua presidenza. Già a giugno, Kennedy aveva deciso di fatto di dare un forte segnale al movimento, inviando al Congresso il testo del Civil Rights Act, una legge che se fosse stata approvata avrebbe reso illecita buona parte delle forme di discriminazione. Kennedy riteneva che la marcia non fosse opportuna: uno degli scopi della proposta di legge era del resto togliere il movimento dalle strade, seguire da subito una soluzione politica e ridurre le manifestazioni, che costavano spesso dure critiche al presidente, accusato di gestirle con eccessiva accondiscendenza.

Le preoccupazioni sul mantenimento dell’ordine per la marcia su Washington erano comunque condivise anche dai principali leader del movimento per i diritti civili: eventuali violenze e disordini sarebbero stati sfruttati dagli oppositori per screditare le iniziative nonviolente. Centinaia di volontari furono incaricati di fare il servizio d’ordine per la manifestazione e per proteggere i leader del movimento.

Per portare i manifestanti in città fu organizzata una decina di treni speciali e 21 voli charter, in aggiunta ai treni e agli aerei regolari già al massimo delle loro capacità. Già alle otto del mattino la polizia di Washington aveva iniziato a calcolare l’ingresso di circa 450 bus in città ogni ora: in poco tempo ne sarebbero arrivati oltre 2mila, senza contare migliaia di automobili. La marcia sarebbe dovuta partire dal Washington Monument e avrebbe poi dovuto percorrere circa metà del National Mall, attraverso un percorso di un chilometro che sarebbe dovuto terminare davanti al monumento dedicato a Lincoln, dove i leader del movimento avrebbero poi tenuto il loro comizio.

Il corteo partì come previsto con in testa Joan Baez e Bob Dylan che cantavano guidando i manifestanti. C’erano diversi altri personaggi del mondo dello spettacolo come Marlon Brando e Charlton Heston. I leader del movimento arrivarono poco dopo, terminata una riunione con alcuni rappresentanti politici al Congresso. I manifestanti raggiunsero ordinatamente il Lincoln Memorial e il comizio iniziò con l’inno statunitense intonato dalla cantante gospel Marian Anderson. Ci furono interventi, preghiere e canzoni con Dylan, Baez e Mahalia Jackson.

Infine, fu il turno di Martin Luther King, l’ultimo leader che prese la parola dal palco. Il suo discorso partì con un chiaro riferimento a Lincoln, il presidente che aveva portato alla messa al bando della schiavitù: «Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci troviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione». Nei passaggi successivi, King ripeté per otto volte la frase «I have a dream», dicendo di sognare un paese unificato in nome dell’integrazione, segnalando come fosse ormai quello il momento di agire per essere liberi, condizione senza la quale «non potremo mai essere soddisfatti».

Martin Luther King Jr., mentre pronuncia il celebre discorso “I have a dream”, 28 agosto 1963 (AP Photo)

Dopo il discorso di King la manifestazione finì e i manifestanti iniziarono a disperdersi, senza che fosse segnalato un solo incidente. I leader del movimento raggiunsero la Casa Bianca per incontrare Kennedy e discutere la sua proposta di legge. Kennedy non assistette però all’approvazione del Civil Rights Act che entrò in vigore nel luglio del 1964, circa otto mesi dopo il suo assassinio a Dallas.

Le richieste della marcia al governo furono piuttosto chiare e comprendevano la fine della segregazione nelle scuole, la protezione dagli abusi della polizia per gli attivisti, un salario minimo e leggi chiare ed efficaci sul tema dei diritti civili. Fu anche grazie a quella mobilitazione nonviolenta che negli anni successivi furono approvate leggi molto importanti per la tutela dei diritti come il Voting Rights Act e il Civil Rights Act.

A sessant’anni di distanza, il sogno di King si è però realizzato solo in parte: le disparità economiche dividono ancora fortemente la società statunitense, al punto da condizionare l’accesso all’istruzione superiore e universitaria per molte fasce della popolazione. Le discriminazioni rimangono anche nella gestione dell’ordine pubblico, come hanno mostrato negli ultimi anni le violenze da parte della polizia nei confronti degli afroamericani.