L’assassinio di Martin Luther King
La storia di cosa successe prima, durante e dopo il giorno in cui il più importante leader afroamericano di sempre fu ucciso a Memphis
Il 4 aprile del 1968, poco dopo le sei di pomeriggio, il reverendo Martin Luther King, uno dei più importanti e influenti attivisti politici del Novecento, fu ucciso da un colpo di fucile mentre era sul balcone di un motel a Memphis, in Tennessee. Il colpo, che gli trafisse la guancia e lo trapassò fino alla spalla, fu sparato da James Earl Ray, un criminale comune razzista e convinto sostenitore del segregazionismo.
Più di cinquant’anni dopo la morte di King, non si conoscono i veri motivi del gesto di Ray. In molti, da decenni, sostengono che non abbia agito da solo e negli anni sono state formulate varie teorie cospirazioniste: c’è chi crede che Ray sia stato l’agente materiale e capro espiatorio di un complotto molto più vasto che ha coinvolto vari livelli del governo statunitense e dell’FBI, e chi addirittura – come i figli di King – credono che Ray sia innocente. Come la maggior parte dei grandi eventi e degli omicidi politici del Novecento, l’assassinio di Martin Luther King è ancora oggi circondato da misteri e circostanze non chiare, e che con ogni probabilità rimarranno tali per sempre.
Martin Luther King prima del 4 aprile 1968
Martin Luther King Jr. era nato il 15 gennaio 1929 ad Atlanta, in Georgia, figlio di un reverendo battista e di un’ex insegnante. Crebbe in un ambiente relativamente agiato per un afroamericano, ma conobbe fin da bambino le discriminazioni razziali che negli anni Trenta e Quaranta erano quotidiane nel sud degli Stati Uniti. Si laureò in sociologia e decise di diventare pastore battista come suo padre, cominciando gli studi religiosi alla fine degli anni Quaranta.
Diventato pastore, divenne presto uno dei più promettenti leader afroamericani del sud degli Stati Uniti, e nel 1955 fu tra i principali organizzatori dello sciopero dei mezzi pubblici di Montgomery, Alabama, che seguì alla protesta pacifica di Rosa Parks, che si era rifiutata di cedere il suo posto a un passeggero bianco su un autobus. Lo sciopero durò quasi un anno, durante il quale il movimento guidato da King ottenne fama a livello nazionale. Si concluse con la fine della segregazione razziale sui bus della città.
King era diventato il più visibile leader del movimento per i diritti degli afroamericani. Con la sua nuova fama arrivarono minacce di morte, intimidazioni, arresti e tentativi di omicidio, ma King proseguì la sua battaglia. Insieme tra gli altri all’attivista Ralph Abernathy, fondò la Southern Christian Leadership Conference (SCLC), un’organizzazione con lo scopo di coordinare e dare una piattaforma al movimento per i diritti dei neri, fino ad allora disgregato tra le comunità religiose delle varie città.
King venne eletto capo della SCLC e negli anni successivi riuscì a espandere la sua protesta nel resto degli Stati Uniti, incontrando prima il presidente Dwight Eisenhower e poi John F. Kennedy, organizzando marce a Washington e finendo sulla copertina di Time. La SCLC aveva molti obiettivi, dall’abolizione delle leggi Jim Crow, cioè quelle leggi locali del sud degli Stati Uniti che mantenevano attiva la segregazione, al pieno diritto di voto per gli afroamericani, ancora largamente discriminati nelle procedure di registrazione elettorale e di fatto privati di potere politico.
Per raggiungere questi obiettivi, King adottò la strategia della disobbedienza civile, cioè l’insubordinazione pacifica alle leggi ritenute ingiuste, accettandone le conseguenze penali. Fu arrestato più volte a sit-in pacifici e manifestazioni. Il caso più famoso fu quello di Birmingham, in Alabama, dove nel 1963 la SCLC condusse una delle più note battaglie contro la segregazione. Il 28 agosto dello stesso anno, sfruttando la visibilità ottenuta con Birmingham, King organizzò la “marcia per il lavoro e la libertà” di Washington, a cui parteciparono circa 250mila persone e durante la quale pronunciò uno dei discorsi più famosi del Novecento, quello di “I have a dream”. L’anno successivo, King ricevette il premio Nobel per la Pace.
Memphis, Tennessee
Il primo febbraio 1968, due netturbini afroamericani di Memphis morirono schiacciati dal camion dei rifiuti. In quel periodo la SCLC stava organizzando la Poor People’s Campaign, una campagna nazionale di sensibilizzazione verso le condizioni di lavoro delle persone povere, soprattutto appartenenti a minoranze, in tutti gli Stati Uniti. La campagna si sarebbe dovuta concludere con una marcia a Washington, e King decise di raggiungere Memphis dove nel frattempo era stato organizzato uno sciopero degli operai della nettezza urbana per protestare contro le condizioni di lavoro e le discriminazioni salariali.
Il 3 aprile, dopo una marcia che si era conclusa con scontri con la polizia e la morte di un ragazzo afroamericano, King tenne un discorso al tempio del vescovo Charles J. Mason, che sarebbe diventato famoso e ricordato per i suoi toni premonitori. Il volo di King per Memphis era infatti stato ritardato per un allarme bomba, e King parlò della possibilità che sarebbe morto prematuramente.
«Sono stato in cima alla montagna. E non mi importa. Come tutti, vorrei vivere una vita lunga. La longevità ha la sua importanza. Ma non mi interessa ora, voglio fare il volere di Dio. E Lui mi ha permesso di salire in cima alla montagna. E ho guardato giù, e ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che sappiate stasera che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. Sono così felice stasera. Non sono preoccupato di niente. Non temo nessun uomo»
King alloggiava al Lorraine Motel, uno dei pochi alberghi in città ad ammettere senza problemi gli afroamericani: stava nella stanza 306, la stessa in cui alloggiava sempre. La sera del 4 aprile si stava preparando con il suo staff e altri attivisti, tra cui Abernathy e Jesse Jackson, ad andare a un evento in programma per lo sciopero. Alle 6.01 era sul balcone della stanza. Mentre il suo amico Andrew Young gli diceva di prendere un cappotto perché avrebbe potuto avere freddo, King fu colpito da un singolo colpo di fucile. Fu portato al St. Joseph’s Hospital per un intervento d’urgenza, ma fu dichiarato morto alle 19.05.
Dopo la morte
La notizia dell’assassinio di King provocò violente proteste in decine di città degli Stati Uniti, nelle quali morirono in totale 35 persone. Il presidente Lyndon Johnson, che nel 1964 aveva firmato il Civil Rights Act che aveva dichiarato illegali la segregazione e le discriminazioni negli Stati Uniti, annunciò un giorno di lutto nazionale il 7 aprile. Il giorno successivo i netturbini di Memhphis, guidati dalla vedova di King Coretta Scott, marciarono pacificamente per la città. Il funerale si svolse lo stesso giorno ad Atlanta, alla presenza dell’ex First Lady Jacqueline Kennedy, del vicepresidente Hubert Humphrey e di decine di migliaia di persone.
Il proiettile che aveva ucciso King era un .30-06 Springfield, sparato da un fucile Remington 760, che gli aveva fracassato la mascella, reciso la giugulare e trapassato diverse vertebre. I testimoni dissero di aver visto un uomo bianco scappare da una casa davanti al Lorreine Motel subito dopo lo sparo, e la polizia trovò lì vicino il fucile e un binocolo, con sopra delle impronte digitali. Corrispondevano a quelle di James Earl Ray, un criminale comune di 40 anni allora latitante: l’anno precedente era evaso da un carcere del Missouri.
Ray era originario dell’Illinois e aveva ricevuto diverse condanne per rapina a mano armata e frode. Dopo essere evaso, aveva vissuto tra gli Stati Uniti e il Messico sotto falso nome, ed era diventato un acceso sostenitore di George Wallace, ex governatore Democratico dell’Alabama che partecipò a tre primarie presidenziali tra gli anni Sessanta e Settanta e che si candidò come indipendente nel 1968: in tutti i casi, promuovendo una piattaforma apertamente razzista e segregazionista.
Ray aveva comprato il fucile dell’omicidio sei giorni prima in Alabama e aveva affittato una stanza in una casa davanti al Lorraine Motel durante la permanenza di King. Sulla sua colpevolezza non ci furono molti dubbi, e fu organizzata una caccia all’uomo internazionale. La notte del 4 aprile, Ray guidò fino ad Atlanta, e da lì verso il Canada. Rimase a Toronto per alcune settimane, e dopo essersi procurato un passaporto falso volò in Europa.
L’8 giugno 1968, due mesi dopo l’assassinio di King, Ray fu fermato all’aeroporto Heathrow di Londra mentre tentava di volare a Bruxelles. Il suo nome falso era stato segnalato nei registri criminali internazionali. Ray fu estradato negli Stati Uniti, e nel marzo del 1969 si dichiarò colpevole dell’omicidio di King. Fu condannato a 99 anni di prigione.
Complotti
Tre giorni dopo la sua confessione, fornita su consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, Ray ritrattò, dicendo di essere stato soltanto coinvolto marginalmente nell’omicidio di King, ma di non esserne stato l’esecutore materiale. Era stato costretto a confessare, disse. Ray raccontò che giorni prima dell’omicidio aveva incontrato un uomo di nome Raoul, che lo aveva convinto a comprare il fucile e ad affittare la stanza a Memphis. Poco prima dell’omicidio, però, Ray gli aveva consegnato l’arma. La ritrattazione di Ray fu respinta, e lui provò ad evadere dal carcere nel 1977, per poi essere catturato pochi giorni dopo. Morì in carcere nel 1998, di epatite C.
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Nel 1977, un comitato speciale della Camera statunitense condusse un’indagine sull’omicidio di King, e concluse che Ray con l’omicidio sperava di ottenere una taglia su King messa in palio dai sostenitori di Wallace. Ma le conclusioni del comitato non furono sostenute da prove solide e iniziarono a rafforzarsi le teorie del complotto che sostenevano che il suo ruolo nell’omicidio fosse stato marginale, se non del tutto assente.
Nel 1993 un uomo di nome di Loyd Jowers sostenne di essere tra i responsabili dell’omicidio di King, in un complotto che aveva coinvolto la mafia e il governo. Identificò diverse persone come i veri assassini, ma le sue accuse non furono considerate credibili dal dipartimento di Giustizia americano. Nel 1999 Coretta Scott King, da sempre convinta dell’esistenza di un complotto organizzato per uccidere suo marito, iniziò una causa civile contro Jowers e ignoti, tra i quali secondo lei doveva essere incluso l’FBI.
L’FBI diretto da J. Edgar Hoover aveva in effetti condotto una decennale campagna contro King, quando era ancora in vita, sorvegliandolo e diffondendo false informazioni sul suo conto per minarne la credibilità. In una famosa lettera anonima che si scoprì poi essere stata scritta da alcuni agenti per invitarlo a mettere fine alle sue battaglie, l’FBI lo aveva invitato a suicidarsi. E fu l’FBI a condurre le indagini sulla morte di King – secondo Scott manipolando le prove per incolpare Ray. Tra le altre, si fece strada una teoria del complotto che riguardava un uomo che era stato visto nascondersi tra i cespugli da alcuni testimoni, compreso un giornalista del New York Times, subito dopo l’omicidio. I cespugli furono tagliati il giorno dopo, distruggendo una potenziale scena del crimine.
Il tribunale del Tennessee che esaminò la causa della famiglia King diede ragione alla teoria che incolpava Jowers e ambienti governativi, ma il processo si basò su prove e documenti fragili di seconda mano, e fu condotto senza le testimonianze dei diretti interessati. Non ebbe conseguenze, perché la famiglia King aveva chiesto soltanto un risarcimento simbolico di 100 dollari. Un’altra richiesta della famiglia King, fatta direttamente al presidente Bill Clinton per aprire una nuova indagine di un comitato speciale sull’omicidio, fu accolta: ma le conclusioni furono le stesse del 1977.
Bernice King, la più giovane delle figlie di King, che dirige il King Center di Atlanta, ha detto più volte di considerare Ray innocente, e di essere addolorata dal fatto che abbia trascorso la sua vita in carcere. Come lei la pensano Dexter e Martin III, gli altri due figli di King ancora in vita. Diversi importanti e rispettati attivisti afroamericani concordano con la teoria del complotto, che estendono anche agli omicidi di Kennedy e di Malcolm X. Oltre alla teoria che sostiene l’innocenza di Ray, ce n’è un’altra, più condivisa, che ritiene che Ray abbia avuto un’assistenza di qualche tipo da persone o gruppi di un certo potere ed esperienza, che non è stata riconosciuta nel suo processo.