La candidatura di Roma per l’Expo 2030 non era mai decollata

Storia di un progetto fallimentare iniziato già con poco entusiasmo, e che non è stato aiutato dalle scelte diplomatiche venute dopo

Roberto Gualtieri fa un sopralluogo a un cantiere di Expo 2030, 24 gennaio del 2023 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
Roberto Gualtieri fa un sopralluogo a un cantiere di Expo 2030, 24 gennaio del 2023 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
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Martedì è stato assegnato l’Expo 2030 a Riyad, la capitale dell’Arabia Saudita. La votazione decisiva è avvenuta a Parigi, nella sede del Bureau International des Expositions (BIE), l’organizzazione intergovernativa che gestisce le Esposizioni universali, e che assegna le varie edizioni attraverso un voto in cui ciascuno Stato esprime una preferenza tramite un suo delegato. A Riyad sono andati 119 dei 182 voti disponibili, la città sudcoreana di Busan è arrivata invece seconda con 29 voti. Roma è arrivata terza, ottenendo appena 17 voti.

È stato un risultato particolarmente deludente per la capitale italiana: nelle ultime settimane era diventato chiaro che Riyad avrebbe vinto agevolmente, e anche se si sapeva che la concorrenza saudita sarebbe stata proibitiva i responsabili della candidatura designati dal governo erano convinti di poter fare affidamento su una base minima di 50 voti, e quindi di poter raggiungere almeno il secondo posto.

Insomma, la prevedibile sconfitta ha assunto solo nelle ore finali della votazione la dimensione di un’inaspettata disfatta diplomatica. Ma in effetti, a ripercorrere a ritroso le varie tappe che hanno portato al voto di martedì, si capisce che la candidatura di Roma era piuttosto debole fin dall’inizio, e che a renderla poi difficilmente sostenibile hanno contribuito le scelte diplomatiche del governo italiano al di là della questione dell’Expo in sé.

L’annuncio della candidatura di Roma arrivò con una lettera firmata dal presidente del Consiglio Mario Draghi il 28 settembre del 2021. Il 7 ottobre seguente la richiesta fu ufficializzata nella sede del BIE. Dato che era in corso la campagna elettorale per le elezioni comunali a Roma, i collaboratori di Draghi elaborarono un piccolo stratagemma diplomatico per evitare di doversi esporre in una sfida su cui Draghi voleva restare neutrale.

I candidati erano quattro, e a sostenere con maggiore convinzione la candidatura di Roma per l’Expo era Virginia Raggi, la sindaca uscente del Movimento 5 Stelle, che in particolare su questo argomento aveva una chiara finalità elettorale. Nel 2016 infatti aveva ritirato la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024, poi assegnate a Parigi, in una fase in cui il M5S era fortemente critico contro qualsiasi ipotesi di “grande evento”, ritenuto fonte di sprechi, corruzione e deturpamento del paesaggio. Negli anni seguenti Raggi provò poi a liberarsi dallo stereotipo di “sindaca del no” in cui la costringevano i suoi critici, e l’ipotesi di candidare Roma per l’Expo 2030 sembrò dunque essere un’ottima soluzione in questo senso, anche per riavvicinarsi ai settori produttivi e industriali della città rimasti sempre tiepidi nei suoi confronti.

A Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio, arrivò la proposta informale di sostenere questo progetto. Ma per evitare di appoggiare l’ipotesi di una sola candidata sindaca, i collaboratori di Draghi riuscirono a convincere anche gli altri a sostenere la candidatura all’Expo. Questa via peraltro avrebbe permesso di dare un’immagine di compattezza politica utile a rafforzare il progetto: nessuna forza politica a quel punto si sarebbe potuta opporre. Così a Palazzo Chigi venne inviata una lettera firmata da Raggi, da Roberto Gualtieri del Partito Democratico, da Enrico Michetti del centrodestra e da Carlo Calenda di Azione: chiunque fosse diventato sindaco, avrebbe sostenuto la candidatura di Roma.

A sostegno della candidatura c’era il fatto che molti degli investimenti necessari per l’Expo sarebbero stati analoghi o complementari a quelli inseriti nel PNRR e a quelli già previsti per il Giubileo del 2025. Giampiero Massolo si espresse convintamente a favore della candidatura e dopo pochi mesi venne nominato presidente del comitato promotore di Roma 2030, in virtù della sua lunga esperienza diplomatica: attualmente è presidente dell’Istituto per gli studi internazionali (ISPI) e di Mundys (ex Atlantia), ma è stato anche alto funzionario del ministero degli Esteri, capo dei servizi segreti italiani e presidente di Fincantieri.

Inoltre, al momento dell’annuncio di Draghi, la candidatura di Riyad non era ancora certa: si sarebbe concretizzata solo nelle settimane seguenti, a fine ottobre. Le candidature certe erano invece Busan e Mosca. E poi c’era un’altra ipotesi, in quel momento forse la più accreditata: Odessa. L’Ucraina stava già valutando da tempo la candidatura della città sul Mar Nero, e l’avrebbe confermata il 15 ottobre seguente.

Le cose cambiarono però dopo l’inizio della guerra scatenata dalla Russia. La candidatura russa perse subito peso. Quella ucraina divenne un po’ un’incognita. In caso di una conclusione rapida della guerra Odessa sembrava l’ipotesi più solida, anche per il valore simbolico che la scelta avrebbe assunto: e a quel punto anche l’Italia avrebbe dovuto rinunciare alla propria candidatura in favore di quella ucraina. Non a caso alcuni mesi dopo Matteo Salvini durante un suo intervento in Senato chiese a Draghi di provare a convincere Putin a ritirare il progetto di Mosca e sostenere quello di Odessa come gesto distensivo. Era il 19 maggio del 2022.

Il 23 maggio la Russia ritirò la candidatura di Mosca. A metà giugno anche l’Ucraina rinunciò. A luglio la crisi di governo portò in Italia alle dimissioni di Draghi e a nuove elezioni, vinte dalla coalizione di destra: Giorgia Meloni divenne presidente del Consiglio.

Meloni durante la serata di gala parigina per la candidatura di Roma all’Expo 2030, il 20 giugno 2023 (Filippo Attili/LaPresse)

Meloni non ha mai mostrato ufficialmente perplessità sull’Expo, del resto un eventuale ritiro della candidatura di Roma l’avrebbe esposta alle inevitabili critiche delle opposizioni, e l’avrebbe in un certo senso accomunata proprio a Raggi che si era sottratta alle Olimpiadi. Informalmente, però, i dirigenti di Fratelli d’Italia hanno spesso mostrato scetticismi e tentennamenti. Durante la sua visita a Kiev, nel febbraio del 2023, Meloni propose pubblicamente al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di lavorare a una candidatura congiunta “europea” di Roma e Odessa. Il sindaco di Roma Gualtieri lasciò intendere di non essere al corrente del progetto, di cui comunque poi non si è saputo più niente.

Il progetto di Roma 2030, infatti, era sostanzialmente rimasto quello elaborato dalla giunta di Raggi, anche dopo la vittoria di Gualtieri e del centrosinistra alle comunali dell’ottobre del 2021. Il principale responsabile di quel progetto era stato Giuseppe Scognamiglio, consigliere di Raggi per i rapporti con i grandi investitori che si era avvalso della collaborazione di Unindustria, l’associazione degli industriali romani. L’idea fondante del progetto era la “città orizzontale”: non grattacieli o palazzi imponenti, ma villaggi diffusi soprattutto nell’area est della città, alimentati da un enorme parco di pannelli fotovoltaici.

Il 20 giugno del 2023 Meloni intervenne all’assemblea parigina del BIE per inaugurare la campagna a sostegno di Roma 2030. Alcuni commentatori notarono come il suo discorso e il resto dei contributi della delegazione italiana fossero incentrati su valori e principi (inclusività, multiculturalismo, contrasto alla crisi climatica, superamento delle differenze di genere) che apparivano quantomeno distanti dalle priorità dell’agenda di governo, e in apparente contraddizione con l’immagine di leader sovranista di destra radicale con cui Meloni veniva abitualmente rappresentata all’estero.

Dopo il suo viaggio diplomatico a Washington di fine luglio lo staff di Meloni evidenziò l’apparente apertura del presidente degli Stati uniti Joe Biden riguardo alla candidatura di Roma per l’Expo 2030, inserita nella dichiarazione congiunta pubblicata dalla Casa Bianca. Il documento diceva che gli Stati Uniti accoglievano favorevolmente il tentativo dell’Italia di ospitare l’Expo nel 2030, ma era una semplice formula di rito. Un anno prima quella stessa identica formula era stata utilizzata nella nota congiunta tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita per parlare della candidatura di Riyad.

Inoltre nel corso dei mesi l’ipotesi di una candidatura europea è venuta progressivamente meno, nonostante i buoni propositi e le promesse fatte dal capo della diplomazia dell’Unione Europea, l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell. In questo ha contribuito soprattutto la decisione del presidente francese Emmanuel Macron di sostenere Riyad: la Francia ha un peso diplomatico rilevante in queste vicende, sia per il suo storico ruolo di principale paese promotore di eventi internazionali, sia per il fatto che la sede del BIE è appunto a Parigi.

Alla scelta di Macron, come è stato notato da diversi analisti, ha contribuito tra le altre cose la volontà della Francia di rafforzare i legami commerciali con l’Arabia Saudita, un paese con grosse prospettive di sviluppo. Nell’ultimo anno diversi ministri francesi sono andati in visita a Riyad, incontrando i dirigenti di importanti imprese locali. Viceversa con l’Italia, specialmente nei primi mesi del governo Meloni, le relazioni sono state particolarmente complicate.