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  • Domenica 12 novembre 2023

L’attentato di Nassiriya, vent’anni fa

Il 12 novembre 2003 19 italiani e 9 iracheni furono uccisi nel più grave attacco subito dall'esercito dopo la Seconda guerra mondiale

Un soldato italiano davanti alla base Maestrale, distrutta dall'esplosione (AP Photo / Anja Niedringhaus)
Un soldato italiano davanti alla base Maestrale, distrutta dall'esplosione (AP Photo / Anja Niedringhaus)

Il 12 novembre 2003 alle 10:40 ora locale, le 8:40 in Italia, un’autocisterna piena di esplosivo scoppiò all’ingresso della base Maestrale, presidiata dai carabinieri italiani dell’Unità specializzata multinazionale (MSU) nella città di Nassiriya, nel sud dell’Iraq. L’attentato uccise 19 cittadini italiani e 9 iracheni. Fu il più grave attacco subito dall’esercito italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale e fu compiuto da gruppi vicini al gruppo terroristico islamista di al Qaida. I processi su quello che avvenne quel giorno andarono avanti per anni.

I militari italiani si trovavano a Nassiriya da luglio a seguito dell’invasione dell’Iraq decisa dagli Stati Uniti per deporre il dittatore Saddam Hussein, giustificata con la falsa accusa che il regime iracheno fosse in possesso di armi chimiche, biologiche e forse nucleari. L’invasione della «coalizione di volenterosi», come la definì l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, era iniziata a marzo e nel giro di poche settimane aveva deposto Hussein.

Prima dell’invasione, l’Iraq era abitato in maggioranza da musulmani sciiti che però venivano oppressi dalla minoranza sunnita al potere, di cui faceva parte Saddam Hussein. Erano sunniti anche gli iracheni affiliati ad al Qaida, che Hussein era accusato di proteggere. Gli scontri con gli eserciti guidati dagli Stati Uniti avvenivano principalmente nel centro e nel nord del paese, dove si trovava la capitale Baghdad e dove era concentrata la popolazione sunnita.

– Leggi anche: Il grande falso che diede inizio alla guerra in Iraq, vent’anni fa

Mentre la guerra continuava, le Nazioni Unite avevano autorizzato delle operazioni militari di peacekeeping nei territori conquistati. L’Italia partecipò con una missione chiamata “Antica Babilonia” e si stabilì a Nassiriya, nel sud orientale del paese, dove la popolazione era principalmente musulmana sciita. In quella regione gli scontri con la minoranza sunnita e con le forze internazionali erano al tempo molto meno gravi e frequenti che in altre zone del paese, come attorno alle città di Baghdad e Tikrit, presidiate dall’esercito statunitense. A Nassiriya i militari italiani avevano diversi compiti, come quello di mantenere la sicurezza e riattivare i servizi essenziali, ma anche quello di addestrare le forze di sicurezza irachene sciite per volere del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

Il comando italiano dell’operazione si trovava a 7 chilometri dal centro abitato di Nassiriya, nella base White Horse, mentre in città i carabinieri e i militari avevano occupato altre due basi, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra: il contingente dell’esercito si era installato nella base Libeccio e i carabinieri nella base Maestrale, soprannominata “Animal House”, nel vecchio edificio della Camera di Commercio.

Poche settimane prima dell’attentato, alcuni ufficiali dichiararono che la missione stava procedendo senza problemi e in modo molto soddisfacente. Tuttavia, nei documenti prodotti dal contingente italiano nel corso del mese precedente all’attentato si era ipotizzato che «gli attentati con mezzi esplosivi» sarebbero potuti aumentare. Il 5 novembre, una settimana prima dell’attentato, l’intelligence militare scrisse in un rapporto che «un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si è trasferito nella città di Nassiriya».

Il 12 novembre un camion-cisterna si avvicinò alla base Maestrale per poi svoltare e puntare dritto all’ingresso. A bordo c’erano due persone: un autista e un uomo armato che si sporse verso l’esterno e cominciò a sparare contro il militare di guardia all’ingresso della base, che rispose sparando. Il camion sfondò la barra di metallo all’ingresso ma si bloccò pochi metri dopo, scontrandosi con i bastioni Hesco che delimitavano il parcheggio della base, dei gabbioni che di solito vengono riempiti di sabbia o terra che in ambito militare si utilizzano per proteggersi dalle esplosioni. Lì si bloccò ed esplose, a circa 25 metri dall’edificio. È stato stimato che la bomba contenuta a bordo pesasse tra i 150 e i 300 chili e provocò anche l’esplosione del deposito di munizioni della base.

Le prime immagini dell’attentato a Nassiriya trasmesse dal Tg1 il 12 novembre 2003 (ANSA/ Tg1)

Morirono in tutto 28 persone, di cui 19 italiani: 12 carabinieri di stanza nella base, 5 militari e due civili, un cooperante internazionale e un regista che si trovava a Nassiriya per girare un documentario, la cui storia venne raccontata da un italiano sopravvissuto all’attacco nel libro Venti sigarette a Nassiriya. Morirono anche 9 persone irachene, fra cui i due attentatori. Altri 20 italiani rimasero feriti, oltre ad almeno un centinaio di civili iracheni: la potenza dell’esplosione sventrò l’edificio della Camera di Commercio e raggiunse persino la base Libeccio, distante qualche centinaio di metri. I bastioni erano stati riempiti con della ghiaia, che fu scagliata in tutte le direzioni. Dai racconti dei testimoni dell’attacco si seppe che si ruppero i vetri delle finestre delle case nel raggio di diverse centinaia di metri.

Fu il più grave attacco subito dall’esercito italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale ed ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica italiana. La foto di un soldato italiano che si aggiusta l’elmetto davanti all’edificio distrutto della base Maestrale divenne lo scatto simbolo della strage. Fu scattata dalla fotoreporter Anya Niedringhaus, che vinse il premio Pulitzer nel 2005 per il suo lavoro di giornalista di guerra in Iraq e fu uccisa in Afghanistan nel 2014.

(AP Photo / Anja Niedringhaus)

Dopo l’attentato vennero aperte diverse indagini giudiziarie per accertare chi fossero i responsabili e se ci fossero state negligenze da parte dei comandi militari nel prevedere l’attentato e nel difendere adeguatamente la base Maestrale. L’inchiesta aperta dalla procura di Roma sull’origine dell’attentato indicò come responsabili più probabili i gruppi sunniti arrivati a Nassiriya poco prima dell’attacco. A confessare di aver preparato la bomba per l’attentato fu Abu Omar Al Kurdi, sospettato di essere un membro di al Qaida e vicino al leader islamista Abu Musab al-Zarqawi, uno dei fondatori di quello che sarebbe poi diventato lo Stato Islamico (ISIS). Tuttavia in Italia non si arrivò mai ad un vero processo perché, dopo averlo arrestato nel 2005, le autorità irachene sciite al governo impiccarono Al Kurdi nel 2007 con l’accusa di aver organizzato decine di attentati nel contesto della guerra in Iraq.

L’indagine sulle responsabilità dei militari italiani fu inizialmente di competenza del tribunale militare ed è stata invece più lunga e complessa. I processi giudicarono che fossero state sottovalutate le avvisaglie di un attacco imminente e che non fossero state prese le adeguate misure per contrastarlo. Ad esempio, all’ingresso della base non era stato costruito un percorso obbligatorio a zig-zag che avrebbe impedito a un mezzo che viaggiava a grande velocità di raggiungere il parcheggio della base. In più, fu giudicato che la riserva di munizioni non fosse stata adeguatamente protetta e fu giudicata errata la decisione di riempire i bastioni Hesco di ghiaia invece che di sabbia, come sarebbe stato più prudente. Infine, anche la scelta della Camera di Commercio come luogo per installare la base Maestrale risultò errata: la strada della città che portava all’edificio non poteva essere bloccata e durante le indagini si scoprì che era stata scelta come obiettivo proprio perché difenderla era quasi impossibile.

I principali imputati dei processi furono i due generali responsabili del settore, Vincenzo Lops e Bruno Stano, e il comandante della base, il colonnello Georg Di Pauli. Nel 2011, la Corte di Cassazione confermò la sentenza della corte d’appello militare che aveva assolto tutti e tre gli ufficiali da ogni responsabilità penale, ma rinviò il caso alla giustizia civile per il risarcimento dei danni ai familiari delle vittime. Nel 2019 l’ex generale Bruno Stano fu condannato dalla Corte di Cassazione a risarcire le famiglie delle persone morte nell’attentato di Nassiriya: fu ritenuto responsabile di aver «sottovalutato» le avvisaglie di un attacco «puntuale e prossimo» e di non aver preso le adeguate misure per contrastarlo. Vincenzo Lops, che aveva preceduto Stano nel comando della missione, non fu coinvolto. La Cassazione confermò l’assoluzione anche per Georg Di Pauli, nel frattempo promosso a generale.

La base Maestrale dopo l’attentato (UFFICIO STAMPA CARABINIERI / ANSA)

Nei tre anni successivi a Nassiriya le truppe italiane furono impegnate in molti altri combattimenti e coinvolte in altri attentati. Nell’aprile 2004 ci fu la cosiddetta “battaglia dei ponti”, uno scontro con i ribelli iracheni durato 18 ore intorno ai due principali ponti della città. Nell’aprile 2006 quattro militari italiani e un militare rumeno vennero uccisi da una bomba mentre si trovavano su un veicolo in pattugliamento. Nell’ultimo periodo di permanenza a Nassiriya gli attacchi divennero sempre più numerosi con lanci di missili e colpi di mortaio sparati contro la base fuori città. L’operazione Antica Babilonia terminò ufficialmente l’1 dicembre 2006, quando l’esercito americano tornò ad occupare la città di Nassiriya. In tutto, 33 italiani furono uccisi nel corso della missione.