Forse il governo modificherà la norma sul “rientro dei cervelli”

La riduzione degli sgravi fiscali per chi torna in Italia ha generato incertezze, ma qualcosa potrebbe cambiare: facciamo ordine

(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)
(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)

La decisione del governo di ridurre le agevolazioni fiscali sul cosiddetto “rientro dei cervelli” ha attirato un certo interesse sui giornali e in parlamento, ma soprattutto tra chi è interessato dalla misura. Le testimonianze di persone italiane residenti all’estero intervistate dai quotidiani e le dichiarazioni di esponenti dell’opposizione hanno contestato in particolare il fatto che la modifica si applichi anche a molte persone che stavano già pianificando il ritorno in Italia o che erano appena tornate. Il Consiglio dei ministri del 16 ottobre scorso ha infatti approvato, insieme al disegno di legge di bilancio, una bozza di decreto legislativo che renderebbe meno vantaggioso il rientro in Italia per gli italiani che attualmente risiedono e lavorano all’estero, mentre le agevolazioni previste per ricercatori e docenti universitari resterebbero in ogni caso immutate.

Fonti del ministero dell’Economia che seguono la questione confermano al Post che c’è l’intenzione di introdurre un periodo transitorio in base al quale gli sgravi finora in vigore, più generosi, verrebbero riconosciuti a chi decide di riportare la propria residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre del 2023, così da evitare un effetto retroattivo della norma (ci torniamo). Ci sarebbe anche una proposta, al momento però ancora più vaga, di estendere questo periodo transitorio fino al 30 giugno 2024. In ogni caso le stesse fonti del ministero dicono che la modifica al momento è un’ipotesi che potrebbe anche non realizzarsi.

Il decreto legislativo di cui stiamo parlando è stato approvato dal Consiglio dei ministri solo in esame preliminare: dovrà essere analizzato dalle commissioni competenti del parlamento, che esprimeranno un parere, e poi tornare in Consiglio dei ministri per una approvazione definitiva.

Le leggi sul cosiddetto “rientro dei cervelli”, pensate cioè per favorire il ritorno in Italia dei lavoratori espatriati, hanno una lunga storia. Il loro obiettivo è affrontare un problema strutturale del nostro paese, che ha un numero di espatri di giovani laureati e ricercatori universitari tra i più alti dell’Unione Europea. Secondo un recente rapporto della fondazione Migrantes, che cita dati dell’AIRE (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), sono 5,8 milioni le persone italiane residenti all’estero.

Gli studi più aggiornati al riguardo pubblicati dall’ISTAT nel febbraio scorso dicono che nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021 gli italiani espatriati sono stati più di un milione. Per l’esattezza 1.024.203. In media più di 100mila persone all’anno, grosso modo l’equivalente dell’intera popolazione residente nel comune di Bolzano, o di Piacenza. Solo negli ultimi due anni l’intensità del fenomeno si è ridotta: nel 2021 a espatriare sono stati il 22 per cento di italiani in meno rispetto ai circa 121mila del 2020. Ma parliamo comunque di 94.219 persone che hanno abbandonato l’Italia in un solo anno.

La composizione di queste migrazioni dimostra che la quota di giovani molto formati è significativa. Il rapporto dell’ISTAT dice che «ha un’età compresa tra 25 e 34 anni un emigrato italiano su tre: in totale 31mila di cui oltre 14mila hanno una laurea o un titolo superiore alla laurea». Anche per questo, le misure adottate nel tempo da vari governi italiani erano pensate proprio per queste categorie di persone.

I primi sgravi fiscali per favorire il rimpatrio di italiani dall’estero furono introdotti nel 2004 (secondo governo Berlusconi), ed erano indirizzati solo a ricercatori o docenti universitari che avessero trascorso almeno due anni all’estero: prevedevano un’esenzione IRPEF, cioè uno sconto sulle imposte da pagare, del 90 per cento per quattro anni. Nel 2010 venne poi approvata dal quarto governo Berlusconi la cosiddetta “legge Controesodo”, che introduceva criteri più selettivi: riconosceva un’esenzione IRPEF dell’80 per cento per le lavoratrici e del 70 per cento per i lavoratori nati dal 1969 in poi, che avessero una laurea e che avessero trascorso almeno due anni all’estero (dopo essere stati residenti in Italia per i due anni precedenti). Lo sgravio aveva una durata variabile tra i 3 e i 7 anni.

Nel 2015 il governo di Matteo Renzi approvò un decreto legislativo che riguardava anche gli “impatriati”, entrato in vigore a partire dal 2016: l’esenzione diventava più contenuta, del 50 per cento per un periodo di cinque anni (ma estendibile per altri cinque anni per alcune categorie, come ad esempio per chi avesse figli a carico), e veniva riconosciuta a persone laureate che avessero avuto la residenza per almeno due anni all’estero o lavoratori altamente specializzati che avessero trascorso almeno cinque anni come residenti all’estero.

Poi nell’aprile del 2019 il secondo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, ha introdotto agevolazioni più estese e rilevanti con il decreto “Crescita”. L’esenzione dell’IRPEF viene riconosciuta a tutti i lavoratori che hanno trascorso almeno due anni all’estero e decidano di trasferire la propria residenza in Italia per almeno due anni. L’esenzione è del 70 per cento per tutti i lavoratori, e sale al 90 per cento per chi decide di rientrare in Italia e trasferirsi al Sud (dall’Abruzzo in giù). È del 90 per cento anche per professori e ricercatori universitari. Vuol dire che queste persone rimpatriate pagano imposte calcolate solo sul 30 per cento o sul 10 per cento del reddito imponibile. Questo fino ad oggi.

Con la nuova norma approvata preliminarmente dal governo Meloni la scorsa settimana, le agevolazioni fiscali diventerebbero più contenute e i requisiti più esigenti, tranne che per i ricercatori e i docenti universitari, per cui l’esenzione resta al 90 per cento per cinque anni. Secondo quanto previsto dal nuovo decreto legislativo, l’esenzione dell’IRPEF verrebbe riconosciuta solo a chi ha trascorso almeno tre anni da residente all’estero e si impegna a restare in Italia per almeno i cinque anni successivi; l’esenzione, inoltre, si riduce dal 70 al 50 per cento per i lavoratori, senza nessuna ulteriore agevolazione per chi si trasferisce al Sud. Insomma si pagherebbero le imposte sulla metà del proprio imponibile e non più sul 30 o sul 10 per cento. Ma non vale per tutti: solo chi ha un reddito annuo inferiore a 600mila euro verrebbe ammesso al beneficio fiscale.

In teoria queste limitazioni delle esenzioni riguardano quegli espatriati che non hanno ancora trasferito la residenza in Italia nel 2023, il che potrebbe avere come conseguenza che tanti italiani residenti all’estero si affrettino a tornare in Italia, così da beneficiare dei precedenti sgravi, più vantaggiosi. Ma nella norma approvata dal governo c’è un aspetto che limita questo effetto. Per far sì che il trasferimento sia valido, infatti, la nuova residenza in Italia deve essere attiva da almeno 183 giorni (secondo quanto previsto dal TUIR, il testo di riferimento per le norme sul calcolo delle imposte sui redditi). Perciò chi è tornato in Italia dopo il 3 luglio si vedrà comunque applicati i nuovi regimi fiscali, meno generosi.

Questo aspetto del decreto legislativo ha un duplice effetto. Da un lato costringe migliaia di lavoratori o famiglie a rivedere i propri piani: persone che stavano valutando di tornare in Italia in virtù di una certa esenzione sono costrette a rifarsi i conti, a riconsiderare cioè l’eventuale convenienza di questo trasferimento. Ma soprattutto la norma avrebbe di fatto un’applicazione retroattiva: interesserebbe, cioè, anche chi si è già trasferito in Italia negli ultimi mesi sulla base di una legge esistente, all’oscuro dell’imminente modifica normativa che ridefinisce il regime fiscale di queste persone.

Ora il governo vorrebbe correggere proprio questi aspetti con il periodo transitorio a cui abbiamo accennato, che durerebbe almeno fino a fine 2023 ed eviterebbe l’effetto retroattivo del provvedimento.

Ovviamente queste modifiche sono possibili a livello normativo ma avrebbero un impatto sui conti pubblici, i cui saldi sono già stati definiti nella Nota di aggiornamento al DEF (NADEF), il documento in cui il governo fissa ogni autunno i parametri fondamentali del bilancio dello Stato. Rispetto al cosiddetto “rientro dei cervelli”, peraltro, resta difficile valutare l’effetto che questo tipo di agevolazioni producono sul gettito, cioè sull’ammontare delle tasse che lo Stato riscuote ogni anno.

Nel giugno del 2023 sulla rivista economica Lavoce.info è stato pubblicato uno studio dell’economista Giuseppe Ippedico. In estrema sintesi, il report spiega come il rientro di accademici e lavoratori incentivato dalle agevolazioni fiscali compensi sostanzialmente le minori entrate derivate dalle esenzioni. I rimpatriati pagano meno tasse, ma il fatto stesso che tornino in Italia e le paghino in Italia garantisce un certo contributo al gettito. Il punto è capire in che misura queste persone tornano in Italia in virtù di questi sgravi fiscali e in che misura tornerebbero ugualmente: nel primo caso, l’esenzione è positiva, nel secondo caso lo è assai meno. Inoltre secondo lo studio il beneficio di misure di questo tipo sul gettito è maggiore se queste agevolazioni sono contenute nel tempo, e se le persone che tornano in Italia per beneficiarne non emigrino di nuovo subito dopo la scadenza.

È anche vero che la cosiddetta “fuga dei cervelli”, e il fatto che soprattutto molti giovani laureati italiani trovino più conveniente trasferirsi all’estero, è solo in parte legato a ragioni fiscali. Questo articolo dell’Osservatorio per i conti pubblici italiani dice che se l’Italia è il paese che tra il 2002 e il 2016 ha avuto il più significativo fenomeno di emigrazione dei ricercatori universitari lo si deve principalmente all’«instabilità dei posti di lavoro rispetto all’estero, con minori possibilità di contratti indeterminati nelle varie posizioni di carriera» e al fatto che il «sistema universitario nazionale è considerato come poco trasparente e non basato sul merito».

Non ci sono evidenze scientifiche certe neppure sull’effetto che le agevolazioni fiscali entrate in vigore negli ultimi anni hanno avuto nell’incentivare davvero il “rientro dei cervelli”.

In questo senso, l’ISTAT fornisce alcuni dati che suggeriscono un certo effetto positivo sul saldo migratorio dei laureati (cioè la differenza tra espatriati e rimpatriati) solo in tempi molto recenti. Nel corso del decennio 2012-2021, infatti, sono stati 120mila gli italiani con una laurea andati all’estero, mentre i laureati tornati in Italia sono stati poco più di 41mila: «La differenza tra i rimpatri e gli espatri dei giovani laureati è costantemente negativa e restituisce una perdita complessiva per l’intero periodo di oltre 79mila giovani laureati». Tuttavia nell’ultimo anno qualcosa è cambiato. Sono stati 7mila, infatti, i laureati rientrati in Italia nel 2021: quasi un terzo in più di quelli tornati nel 2020. Il tutto in concomitanza con una riduzione degli espatri, che rende il saldo tra laureati espatriati e laureati il meno negativo degli ultimi 6 anni.