Esiste anche il “rientro dei cervelli”

Gli incentivi fiscali introdotti nel 2019 hanno convinto ricercatori e professionisti italiani a rimpatriare, ma non sempre è facile

di Viola Stefanello

Un aereo sorvola le guglie del Duomo di Milano. (AP Photo/Luca Bruno)
Un aereo sorvola le guglie del Duomo di Milano. (AP Photo/Luca Bruno)
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Francesca Di Sante viveva e lavorava all’estero da poco più di undici anni quando ha deciso di tornare in Italia. A Boston, poi a Londra, a Nizza, era emigrata dopo aver completato il ciclo di studi in Italia «per conoscere il mondo e sé stessa», dice. Ma anche perché, per una ventiquattrenne italiana laureata a pieni voti in finanza nel 2011, il mercato del lavoro internazionale offriva molto di più.

All’inizio del 2022, assecondando una nostalgia che maturava da tempo, è prima rincasata a Teramo, sua città natale, e ha poi accettato una posizione da product manager in un’azienda tecnologica che si occupa di antifrode e riconoscimento documentale a Lucca. A rendere molto più facile la scelta è stata una misura che il governo ha introdotto proprio per convincere persone come Di Sante a tornare in Italia: il regime speciale per i lavoratori impatriati, noto anche come “legge per il rientro dei cervelli”.

Se alcune politiche di incentivi principalmente fiscali per le persone che decidevano di spostare la propria residenza fiscale in Italia esistevano anche prima del 2019, con il Decreto crescita del 2019 è diventato molto più semplice ottenere sgravi fiscali sostanziosi se si decide di tornare in Italia o, nel caso di lavoratori non italiani, di trasferirsi qui.

Nello specifico, il Decreto crescita prevede che i lavoratori che hanno vissuto almeno due anni all’estero e che si impegnano a risiedere in Italia per almeno due anni paghino le tasse (l’IRPEF) soltanto sul 30 per cento del proprio reddito, ridotto al 10 per cento per chi decide di trasferire la residenza in una regione del Sud. La nuova legge ha anche allungato il periodo in cui è possibile ottenere queste agevolazioni di altri cinque anni a chi ha almeno un figlio minorenne e a chi diventa proprietario di almeno un immobile residenziale.

«Non avrei mai pensato di poter guadagnare di più rispetto agli stipendi medi europei tornando in Italia», commenta Di Sante, che oggi gode del regime agevolato. Secondo i dati forniti dal ministero delle Finanze, nell’anno di imposta 2019 erano oltre 13.400 le persone interessate dal regime agevolato. Nell’anno di imposta 2020 – il primo a riflettere le conseguenze della pandemia – il numero era già salito a quasi 17 mila.

I dati relativi al 2021 non sono ancora disponibili, ma Michele Valentini – che dal 2015 gestisce il Gruppo Controesodo, una comunità di lavoratori rientrati in Italia che fornisce anche assistenza fiscale gratuita a chi sta considerando di tornare – dice che «su base empirica, abbiamo notato un forte incremento delle richieste, soprattutto da chi è ancora all’estero e sta decidendo se rientrare o meno. Questo ci fa pensare che i dati del 2021 vedranno una forte crescita».

L’Italia è da decenni caratterizzata da un flusso costante di persone – laureati, ricercatori, lavoratori più o meno qualificati – che espatriano per via di un mercato del lavoro stagnante. Nel novembre del 2021 uno studio del Centro Studi e Ricerche Idos basato su dati dell’Istituto nazionale di statistica e dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) ha mostrato che, negli ultimi dieci anni, sono quasi un milione gli italiani che hanno spostato la residenza all’estero: un numero che dal 2015 ha superato le 100 mila persone l’anno. Di questi, circa un terzo è laureato.

«In Italia i salari non aumentano da tantissimo tempo, quindi se io sono giovane, non ho vincoli familiari, ho studiato, ho competenze elevate che vengono richieste e retribuite di più nel mercato del lavoro all’estero, mi sposto. E ho dei costi molto bassi a spostarmi, soprattutto in Europa» spiega Anna Cecilia Rosso, ricercatrice presso il Dipartimento di Economia dell’Università dell’Insubria.

Secondo Confindustria, la cosiddetta “fuga dei cervelli” costa all’Italia circa 14 miliardi di euro ogni anno. Una situazione che si sta cercando di cambiare, con modesti risultati, anche grazie a politiche come quella degli sgravi fiscali. Docenti e ricercatori sono particolarmente agevolati, dato che secondo il Decreto crescita possono pagare l’IRPEF soltanto sul 10 per cento del reddito, a prescindere dal trasferimento o meno nelle regioni del Sud Italia.

Virginia Brancato, ricercatrice presso il Centro di genomica dell’Istituto italiano di tecnologia di Milano, era andata a lavorare all’Università di Minho, in Portogallo, dopo che non le era stato rinnovato il contratto da ricercatrice all’Università di Napoli Federico II per mancanza di fondi. «Nella carriera scientifica fare un periodo all’estero è importante, ma cercavo un modo di tornare in Italia», racconta. «Gli sgravi fiscali sono stati un forte incentivo: quando sono andata via dall’Italia, pensavo che tornare con uno stipendio più vantaggioso fosse una delle priorità. Gli stipendi di chi fa il ricercatore in Italia non sono altissimi, quindi avere la possibilità di usufruire degli sgravi è un forte incentivo, anche se non tutte le università o i centri di ricerca italiani sono aggiornati sulle modalità di fruizione degli sgravi, e mi capita spesso di aiutare colleghi rientrati a far capire cosa bisogna fare».

Giorgio Grasselli, ricercatore in neuroscienze rientrato in Italia nel 2018 dopo sette anni a Chicago, sottolinea però che la possibilità di godere di agevolazioni fiscali – e quindi di avere uno stipendio netto più alto – ha contribuito solo in parte alla decisione di rimpatriare. «Il fatto che l’opportunità fosse in Italia è stato un fattore favorevole, ma non determinante: non sarei certo tornato in Italia per un lavoro pagato sufficientemente grazie agli incentivi fiscali senza prospettive future e senza buone possibilità di aspettarmi una esperienza gratificante».

Sulla retorica del rientro dei cervelli, Grasselli ha un’opinione critica. «È un male che il bilancio netto tra chi sceglie l’Italia come destinazione e chi parte sia negativo, ma è anche miope ambire solo al rientro degli italiani. È giusto che i professionisti e gli scienziati cerchino il luogo che permette loro di mettere meglio a frutto i propri talenti e corrisponda ai propri desideri. Non ci si può aspettare che le persone rientrino spinte solo da motivazioni personali e sentimenti di nostalgia: è un atteggiamento che mi sembra irrispettoso nei confronti di queste figure professionali», dice.

Con l’emergenza sanitaria del coronavirus, che ha portato molte aziende a dare la possibilità ai propri dipendenti di lavorare completamente (o quasi) da remoto, conciliare la voglia di tornare a casa e quella di mantenere un lavoro gratificante è però diventato possibile per molte più persone. Secondo il Rapporto statistico sulle migrazioni del 2021, nel 2020 si è registrato un calo dell’8% di iscrizioni all’AIRE: il risultato va spiegato sicuramente con le difficoltà nel muoversi tra Paesi durante i vari lockdown, ma in parte anche con la possibilità di lavorare da remoto per aziende straniere, pur restando in Italia.

Una delle persone che hanno beneficiato di queste condizioni è Manuel Gallio, ingegnere che nel 2021 è tornato a vivere nelle colline della provincia di Vicenza dopo dodici anni passati tra Germania, Brunei e Regno Unito. «Ero già rientrato per circa un anno, nel 2015, per lavorare per un’azienda locale, ma ho resistito solo undici mesi», racconta. «Volevo restare vicino alle mie terre, ma è stato difficile rientrare in Italia dopo anni all’estero, specialmente dovendomi confrontare con realtà locali – vorrei dire padronali – e adattarmi a logiche aziendali e professionali poco aperte e molto lente a cambiare. Quindi dopo meno di un anno sono tornato nel Regno Unito, restituendo tutti gli sgravi fiscali di cui avevo usufruito».

Per Manuel, la svolta è arrivata con lo smart working, che gli permette di continuare a lavorare per un fondo d’investimento di Londra da remoto. «Essere riuscito a tornare in Italia mantenendo questo lavoro ha fatto la differenza», dice. «Mi ero spostato all’estero per le migliori opportunità di lavoro, includendo anche migliori “condizioni” di lavoro, in termini di flessibilità, apertura mentale, responsabilità, e non solo stipendio. Inoltre il ruolo che ho non si trova molto in Italia. Tuttavia sono molto felice di essere rientrato in Italia, perché nonostante tutto credo che la qualità della vita qui sia migliore che altrove».

È di un’idea simile Filippo Valsorda, ingegnere crittografico rimpatriato dopo sette anni passati tra Londra e New York, che continua a lavorare da remoto per clienti stranieri. Da quando ha spostato la residenza a Roma, beneficiando così delle imposte agevolate, Valsorda trova assurdo che non ci siano più persone – a partire dagli “high net worth individuals”, persone straniere con un alto reddito a cui è esplicitamente rivolto il regime agevolato – che vogliano trarre vantaggio da questa politica.

«La cosa interessante che ho notato negli ambienti professionali degli Stati Uniti è che l’interesse verso una vita in Europa e in particolare in Italia c’è ed è fortissimo. Hanno questa immagine del nostro paese come di un posto dove si vive bene, e non si sbagliano», dice. «Però, nessuno sembra considerarla un’opzione a propria disposizione, nonostante i programmi di incentivo fiscale: quello che manca è la pubblicità e l’informazione chiara su chi può accedere al processo e come funziona, che in particolare per persone che non sono a proprio agio con la nostra burocrazia oscura è importantissima. Invece, la maggior parte di queste persone sceglie di spostarsi —portando il proprio lavoro da remoto ben pagato e le proprie tasse — in altri Paesi come il Portogallo, che hanno programmi simili ma meglio pubblicizzati».

Per chi viene assunto come dipendente da un’azienda italiana dopo anni di esperienza in contesti lavorativi stranieri, però, la situazione è spesso meno rosea. Sofia Caccin, spinta per nostalgia a tornare nella provincia veneta, dopo dieci anni tra Australia e Regno Unito, racconta che dopo aver trovato un lavoro di responsabilità in un’azienda di import-export, ha deciso di tornare a vivere in Inghilterra. Il motivo, spiega, sono stati mesi di promesse non mantenute, nepotismo, e tolleranza diffusa verso episodi di razzismo che si verificavano in azienda. «Io con l’Italia ho chiuso» dice oggi. «Persino la questione dello sgravio fiscale mi si è ritorta contro: quando sono andata a chiedere un aumento, mi hanno detto che con gli incentivi fiscali prendevo già un buono stipendio, e che quindi non avevo davvero bisogno di più soldi».

È una storia che Michele Valentini, il fondatore di Controesodo, ha sentito spesso. «Si tratta di un aspetto controverso della legislazione: molto spesso, i nostri associati raccontano situazioni in cui i datori di lavoro li pagano di meno in virtù di questa agevolazione. Eppure, questa è un’agevolazione per le persone che vogliono tornare in Italia, non per i datori di lavoro che vogliono comprare a sconto i talenti», dice.

A questa lamentela se ne affiancano frequentemente altre: «il mercato del lavoro all’estero è molto diverso. Quello italiano è più stagnante, le persone fanno carriera in tempi lunghissimi rispetto ad altri Paesi, e quindi chi torna si lamenta della mancanza di un percorso chiaro e certo per quanto riguarda la propria carriera», continua Valentini. «Al Nord, chi rientra tendenzialmente va a lavorare per grandi aziende multinazionali, società di consulenza o banche, e in quell’ambito la distanza dalle logiche del resto d’Europa si fa sentire leggermente di meno. Al Sud, invece, notiamo che a tornare sono principalmente persone che si aprono una partita IVA o un proprio business, staccandosi da logiche aziendali locali».

Elisabetta Faggiana e Savio Losito, ad esempio, si sono trasferiti a Bari dopo cinque anni a Londra per aprire Unexpected Italy, una startup di turismo responsabile che ha recentemente vinto il bando Resto al Sud, programma di finanziamento introdotto dal ministero per il Sud per promuovere nuove imprese fondate da persone sotto i 56 anni.

«Una delle difficoltà da evidenziare, a mio avviso, è il fatto che gli incentivi fiscali escludono gli imprenditori che vogliono avviare una propria startup», si lamenta Faggiana, che ha aperto una partita IVA separata per poter beneficiare degli sgravi. «Se qualsiasi imprenditore che torna per goderne deve aprire anche la partita IVA, fa il doppio dello sforzo. Di imprenditori italiani validi all’estero che vorrebbero tornare ce ne sono tanti, ma sono impauriti dalla mancanza di incentivi e di condizioni normativo-burocratiche che permettano di creare una società in modo agile e flessibile. Noi non ci siamo pentiti della decisione, perché abbiamo scelto un lavoro che è una continua scoperta e ci crediamo molto, ma sembra che provino a demotivarti in tutti i modi».

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