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  • Mercoledì 18 ottobre 2023

Cosa è legale e cosa no nella guerra tra Israele e Hamas

L'«assedio totale» si può fare? Cos'è la punizione collettiva? Hamas può considerare i civili israeliani come obiettivi militari?

(AP Photo/Fatima Shbair)
(AP Photo/Fatima Shbair)

Una delle dichiarazioni più frequenti fatte dai leader internazionali in questi giorni è che Israele, nella sua risposta al massacro compiuto da Hamas contro i civili il 7 ottobre, deve rispettare «le leggi della guerra». Lo ha detto più volte il presidente statunitense Joe Biden e lo stesso hanno fatto numerosi leader e funzionari internazionali.

Rispettare le leggi della guerra significa, in una sintesi molto estrema, rispettare quell’enorme complesso di trattati internazionali e regole sviluppate soprattutto nell’ultimo secolo per regolamentare l’utilizzo della violenza tra stati, garantire per quanto possibile la sopravvivenza dei civili ed evitare che le guerre si trasformino in massacri indiscriminati. L’applicazione di queste norme – oggi collettivamente note come “diritto internazionale dei conflitti armati” o “diritto internazionale umanitario” – è già di per sé estremamente complicata, ma forse lo è ancora di più nel conflitto israelo-palestinese, dove lo status di molti dei partecipanti è incerto, a partire da Hamas, e dove le condizioni dei combattimenti sono tra le più confuse e difficili da interpretare, anche per gli esperti.

Il diritto internazionale umanitario è normato da una serie di trattati internazionali conclusi soprattutto nell’ultimo secolo, tra cui spiccano le Convenzioni dell’Aia, stipulate a inizio Novecento, e le Convenzioni di Ginevra, che risalgono al secondo dopoguerra e sono state integrate da due Protocolli nel 1977. A queste si aggiunge tutta una serie di documenti minori che normano alcuni elementi specifici, come il divieto dell’uso di certe armi. Lo scopo del diritto bellico non è quindi vietare la guerra in assoluto: è quello di regolare alcuni aspetti fondamentali della guerra, come la dichiarazione di guerra, la resa dei nemici, il trattamento dei prigionieri. Tutto questo ha poi l’intento finale di moderare i metodi della guerra e di proteggere i civili e le persone non combattenti.

Il diritto internazionale umanitario, noto anche come “jus in bello”, non è da confondere con lo “jus ad bellum”, che regola le ragioni legittime di uno stato nell’intraprendere una guerra. Questa distinzione è molto importante, ed è stata pensata per separare le ragioni delle parti in combattimento dal loro comportamento sul campo. Uno stato che ha intrapreso una guerra legittima (che secondo il diritto odierno è tale quasi esclusivamente quando è una guerra di autodifesa), e che quindi ha rispettato lo “jus ad bellum”, potrebbe comunque violare lo “jus in bello”.

Soldati israeliani al confine con Gaza (AP Photo/Ariel Schalit)

Hamas
È indubbio che Hamas, nel suo attacco contro i civili israeliani di sabato 7 ottobre, abbia commesso numerose violazioni di diritto internazionale umanitario e che i suoi membri si siano resi colpevoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questo vale anzitutto per l’uccisione indiscriminata di civili nelle cittadine e nei kibbutz al confine con la Striscia di Gaza, dove i miliziani di Hamas hanno massacrato donne, uomini, bambini e anziani.

Ma vale anche per la decisione di Hamas di prendere ostaggi e portarli nella Striscia di Gaza: il diritto internazionale vieta in ogni occasione la cattura di ostaggi tra i civili. I miliziani di Hamas, usando una logica falsata, hanno sostenuto che gli ostaggi sarebbero prigionieri di guerra, perché agli occhi di Hamas tutti gli israeliani sono parte attiva nel conflitto. È una logica ovviamente errata.

Nonostante questi elementi molto chiari, gli esperti di diritto internazionale hanno molti dubbi su come considerare Hamas, soprattutto nell’ambito del conflitto più ampio che il gruppo radicale intraprende da decenni con lo stato di Israele, e nell’ambito della guerra cominciata sabato scorso, che potrebbe arrivare a un’invasione di terra della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano.

Per capire in che modo il diritto bellico si può applicare ad Hamas bisognerebbe anzitutto capire cos’è Hamas e qual è il suo rapporto con Israele nell’ambito del conflitto. Una parte degli esperti considera quello tra Israele e Hamas un “conflitto armato non internazionale”, cioè un conflitto che, al contrario di un “conflitto internazionale” tra due stati, avviene tra uno stato e gruppi non statali, oppure tra vari gruppi all’interno dello stesso stato. Per esempio sono conflitti armati non internazionali le guerre civili. In questo caso, ad Hamas non si applicherebbero tutte le regole del diritto bellico nella loro interezza: nei conflitti armati non internazionali per esempio non si applicano le norme sui prigionieri di guerra, e questo significa che i combattenti di Hamas catturati da Israele non godrebbero dello status di prigionieri di guerra, che fornisce specifiche garanzie.

Ci sono però altre teorie secondo cui Israele, prima ancora dell’inizio della guerra, avrebbe dovuto essere considerato nei confronti della Striscia di Gaza come una “potenza occupante”, cioè come uno stato che occupa un territorio non suo. Israele occupa alcuni territori palestinesi in violazione di varie risoluzioni dell’ONU, ma nel caso della Striscia di Gaza la situazione è complessa: nel 2005 l’esercito israeliano si ritirò unilateralmente dalla Striscia, il cui governo è oggi autonomo e dominato da Hamas. Ma Israele (con la complicità dell’Egitto) controlla ancora i confini, lo spazio aereo e gran parte delle forniture che arrivano nella Striscia. Questo fa sì, secondo numerose interpretazioni, sostenute anche dall’ONU, che Israele sia ancora la “potenza occupante” della Striscia di Gaza.

Ma anche se Israele fosse la “potenza occupante”, questo non significherebbe che Hamas sia la controparte legittima che rappresenta il popolo palestinese, e che quindi avrebbe diritto alla totalità delle garanzie del diritto bellico: agli occhi della comunità internazionale quella controparte è l’Autorità nazionale palestinese, che governa la Cisgiordania e che però è sempre più isolata e marginale. Peraltro, mentre sia Israele sia l’Autorità palestinese hanno ratificato le Convenzioni di Ginevra, che è il più importante documento del diritto internazionale umanitario, Hamas non l’ha fatto (né avrebbe potuto, non essendo uno stato riconosciuto).

La risposta israeliana
In termini generali lo “jus ad bellum” stabilisce quando uno stato ha il diritto di difendersi se attaccato. Le regole sono indicate nella carta delle Nazioni Unite del 1945, che però si riferiva solo al caso in cui ad attaccare fosse uno stato. Nei decenni successivi, e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001 compiuti da al Qaida negli Stati Uniti, le norme internazionali e la loro interpretazione hanno iniziato a occuparsi anche dei casi in cui l’aggressore sia un attore non statale (come al Qaida, o come Hamas) e oggi viene accettato da buona parte della comunità internazionale che un paese abbia il diritto di difendersi anche in questi casi (con dei limiti, ma ci arriviamo). Seguendo questa interpretazione, Israele ha ritenuto che l’attacco di Hamas del 7 ottobre giustificasse una risposta militare.

Il punto fondamentale però è che questa risposta deve rispettare due criteri importanti. Il primo è quello della “distinzione”: bisogna distinguere tra militari e civili, ed evitare di coinvolgere i civili nei combattimenti. Il secondo criterio è quello della “proporzionalità”: la risposta a un’aggressione, anche se rivolta a un obiettivo militare, non può danneggiare i civili in maniera eccessiva o in maniera sproporzionata rispetto all’obiettivo militare che ci si pone di perseguire.

Se questi criteri non sono rispettati, molto spesso si parla di “punizione collettiva”, che avviene quando anziché perseguire il responsabile di un crimine si persegue un gruppo più ampio. La punizione collettiva è un crimine di guerra.

Il grosso della discussione attorno alla legalità della risposta di Israele ruota attorno a questi due criteri.

Un palestinese che vive in Libano con una fascia che inneggia alle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas (AP Photo/Hassan Ammar)

“L’assedio totale”
Nei primi giorni dopo l’attacco di Hamas, Israele ha messo in atto nella Striscia di Gaza quello che l’esercito ha definito un «assedio totale». Israele ha interrotto le forniture d’acqua e di elettricità verso la Striscia e impedito il rifornimento di viveri, medicinali e altri generi di prima necessità. Di per sé, sia gli assedi sia gli embarghi non sono illegali, ma solo fintanto che la parte che assedia consente le misure necessarie per evitare sofferenze ai civili.

Gli assedi totali, quelli in cui la popolazione civile assediata rischia la fame e la sete, sono invece illegali per il diritto internazionale. Secondo il primo protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977 «è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione».

Israele sostiene che l’assedio totale sia necessario perché altrimenti le risorse destinate alla popolazione civile finirebbero nelle mani di Hamas, ed effettivamente sempre il protocollo del 1977 dice che le risorse di sussistenza possono essere distrutte o asportate se servono «come appoggio diretto ad una azione militare», cioè se la parte combattente le utilizza per i propri scopi. Anche in questo caso, tuttavia, rimane predominante la necessità di non affamare la popolazione. Attualmente, secondo tutti i resoconti a disposizione, la popolazione civile di Gaza rischia di soffrire la fame e le forniture di acqua sono a tal punto scarse che le persone rischiano gravi problemi per la propria salute.

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L’evacuazione
Un altro punto molto discusso riguarda la richiesta di evacuazione fatta dall’esercito israeliano, che ha ordinato ai palestinesi che vivono nella parte nord della Striscia di Gaza di spostarsi a sud: le persone coinvolte sono più di un milione. Ci sono varie ragioni pratiche per cui l’evacuazione di così tante persone in un territorio piccolo e densamente abitato come la Striscia di Gaza è complicatissima e sta già creando un’enorme crisi umanitaria.

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Dal punto di vista del diritto internazionale, l’evacuazione temporanea della popolazione civile dalle zone di guerra è tendenzialmente legale. Non è legale, invece, cacciare una popolazione dal territorio in cui abita e non consentirle più di tornare. Questo è esattamente ciò che i palestinesi temono potrebbe succedere nella Striscia di Gaza attraverso una nuova “Nakba”, parola che significa “catastrofe” e che indica il trasferimento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi fuori dalle loro terre durante e dopo la guerra tra Israele e i paesi arabi nel 1948–1949.

Da allora i palestinesi costretti ad andarsene vivono in campi profughi in Giordania, Libano e altri paesi e le loro terre non sono più state restituite. L’esercito israeliano sostiene esplicitamente che l’ordine di evacuazione di questi giorni è temporaneo, dunque legale. Molte organizzazioni internazionali ritengono tuttavia che, date le condizioni di assedio, l’ordine di evacuazione di Israele possa comunque costituire una violazione del diritto internazionale.

Razzi partono dalla Striscia di Gaza verso Israele (AP Photo/Hatem Moussa)

L’invasione di terra
Se, come rimane ancora estremamente probabile, Israele dovesse invadere via terra la Striscia di Gaza, i rischi di commettere crimini di guerra e violazioni del diritto bellico si moltiplicherebbero.

In una situazione complicata come è quella della Striscia di Gaza, che è densamente abitata e urbanizzata, rispettare il criterio della distinzione è quasi impossibile. Questo anche perché Hamas combatte volutamente nelle zone più densamente abitate e nelle aree urbane più fitte, che sono quelle più facilmente difendibili nel contesto di una guerriglia urbana ma che sono anche quelle dove la popolazione civile è più esposta.

Molto spesso i miliziani di Hamas usano i quartieri residenziali della Striscia di Gaza per lanciare missili contro Israele e combattono in abiti civili, confondendosi tra la popolazione (anche perché Hamas non è un esercito regolare e non possiede divise formali).

Per questo Israele accusa da tempo Hamas di usare i civili come “scudi umani”. Significa, secondo Israele, che Hamas posiziona la propria artiglieria e i propri depositi di armamenti in edifici abitati da civili o comunque in luoghi in cui i civili sono particolarmente esposti, con l’obiettivo di renderli più difficili da colpire e bombardare. Hamas ha sempre negato queste pratiche, ma nei conflitti degli scorsi decenni sono state verificate in più di un’occasione: non è comunque chiaro quanto siano diffuse.

La questione degli “scudi umani” è estremamente complicata e dibattuta: ci sono ampie prove che negli scorsi conflitti Hamas abbia combattuto sfruttando le aree residenziali abitate da civili e che abbia usato come basi infrastrutture civili. Anche nella guerra di questi giorni alcune foto fatte a distanza mostrano come Hamas lanci almeno parte dei suoi razzi contro Israele da zone densamente popolate da civili. Ci sono meno conferme sull’accusa di Israele che Hamas costringerebbe i civili a rimanere nelle zone di guerra contro la loro volontà, tema su cui si è discusso molto negli ultimi giorni. In ogni caso molte organizzazioni internazionali hanno condannato Hamas per queste pratiche, che costituiscono un crimine di guerra.