Il controverso fascino del “turismo della tragedia”

L’interesse per i luoghi associati alla morte suscita da tempo polemiche sull’appropriatezza e il valore storico delle mete di viaggio

titan oceangate
Il sommergibile Titan (OceanGate)
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La morte di cinque persone nell’implosione del sommergibile Titan, avvenuta il 18 giugno durante un viaggio organizzato al largo delle coste canadesi per visitare il relitto del Titanic, ha generato un dibattito esteso ed eterogeneo. Tra le molte discussioni non incentrate sull’eccezionalità del fatto ne è emersa una laterale e più ampia, con poche risposte e molte sfumature e domande: quella sul confine tra l’interesse turistico comprensibile e giustificato e quello morboso e in alcuni casi pericoloso per i luoghi in cui siano avvenuti gravi eventi tragici collettivi, disastri naturali o fatti luttuosi più o meno presenti nell’immaginario collettivo.

L’espressione dark tourism – traducibile come turismo del dolore, o della tragedia, e noto anche come tanatoturismo (dal greco Thanatos, “morte”) – è genericamente utilizzata per definire il turismo verso luoghi associati alla morte. È un argomento spesso dibattuto, rispetto al quale esistono sensibilità differenti: un luogo macabro e sconveniente per alcune persone può suscitare notevole interesse in altre. E non esiste una soglia di accettabilità e un senso del cattivo gusto universalmente condivisi in merito alle molte possibili mete di viaggio associate a questa forma di turismo.

Tra le più comuni e citate destinazioni del turismo del dolore ci sono luoghi di atrocità umane, omicidi e genocidi: il campo di concentramento nazista di Auschwitz in Polonia e il Memoriale dei morti nel massacro di Nanchino in Cina, per esempio, ma anche il Memoriale della strage della scuola Columbine, in Colorado. A distanza di oltre vent’anni dalla strage anche l’edificio scolastico continua a esercitare un certo fascino sulle persone, tanto che nel 2019 si considerò di demolirlo e ricostruirlo, come fatto per la scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, luogo di un’altra strage in cui morirono 27 persone nel 2012.

Columbine scuola Colorado

Una coppia lascia dei fiori nel Memoriale della strage della scuola Columbine, vicino all’edificio scolastico, in Colorado, il 20 aprile 2021 (Michael Ciaglo/Getty Images)

Il fascino esercitato sulle persone dai luoghi associati alla morte è noto da moltissimo tempo, ed esiste un’ampia letteratura scientifica riguardo al turismo verso campi di battaglia e siti di guerra storici. Nei primi anni Novanta l’interesse di alcuni studiosi si concentrò però sulla popolarità di luoghi di morte e sofferenza sostanzialmente privi di un valore storico e culturale largamente condiviso. Il sociologo inglese Chris Rojek definì black spot – traducibile come “luoghi oscuri” – i luoghi associati alla morte di celebrità interessati da un crescente volume di visite turistiche, come per esempio l’incrocio in cui morì in un incidente automobilistico l’attore statunitense James Dean a Cholame, in California, il 30 settembre 1955.

Rojek interpretò questa tendenza come l’effetto di più ampi processi di spettacolarizzazione della morte e di progressivo indebolimento della distinzione tra reale e immaginario. E attribuì la popolarità di quei luoghi al loro essere «straordinari», perlopiù luoghi di morte violenta, che fungono da spazi sociali utili a riaffermare le identità individuali e collettive di fronte a eventi che sconvolgono le routine quotidiane.

I primi a scrivere esplicitamente di dark tourism furono nel 1996 Malcolm Foley e J. John Lennon, due docenti di politiche sociali e gestione delle attività ricreative e dei servizi culturali della Glasgow Caledonian University, in Scozia. Lo definirono come «la presentazione e il consumo (da parte dei visitatori) di luoghi di morte e disastri reali e mercificati». E riprendendo in parte un argomento di Rojek sostennero che il turismo della tragedia fosse un fenomeno «postmoderno», per l’enfasi sulla spettacolarizzazione e la riproduzione della morte (ogni anno, sfilando con auto d’epoca degli anni Cinquanta, diversi visitatori si riuniscono nel giorno e nel punto in cui James Dean morì).

A.V. Seaton, un ricercatore della University of Strathclyde a Glasgow, utilizzò invece un’altra parola, tanatoturismo, in un senso più ampio: per descrivere il fenomeno dei viaggi motivati in qualche misura «dal desiderio di incontri reali o simbolici con la morte», non soltanto quella violenta. Pose l’attenzione sul fatto che la morte fosse l’unico fattore comune di visite verso luoghi che per altri versi sono diversissimi tra loro. E interpretò il tanatoturismo come un fattore di intensità variabile a seconda che la morte sia l’unica motivazione del turista o una tra tante.

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A un’estremità della scala, secondo Seaton, si trova l’interesse per la morte in sé, a prescindere da chi sia la persona o le persone associate alla morte: un esempio estremo è un ipotetico turista che intraprenda un viaggio solo per assistere alla morte pubblica di un condannato. All’estremità opposta si trovano invece le varie forme di turismo in cui la morte, come nel caso delle rievocazioni storiche sui campi di battaglia, è un motivo di interesse più indiretto, e comunque non l’unico.

In seguito quelle di turismo della tragedia e tanatoturismo sono state spesso utilizzate come definizioni sovrapponibili, sebbene la prima ponesse l’attenzione sulle questioni etiche, di mercificazione e appropriatezza di questa forma di turismo da parte di chi lo offre, e l’altra si concentrasse di più sulle motivazioni dei turisti a visitare i luoghi associati alla morte. L’approccio di Seaton permette peraltro di comprendere le profonde differenze che esistono tra luoghi spesso descritti come tipiche mete del turismo della tragedia ma che, a ben vedere, non sembrano avere poi molto in comune, tanto sono diverse le motivazioni di chi le visita.

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Un messaggio rivolto ai media e ai turisti su un muro in via Kennedy, nella periferia di Avetrana, il 23 ottobre 2010 (ANSA)

Come affermato nel 2006 dallo studioso inglese Philip Stone, direttore dell’Institute for Dark Tourism Research, un centro di ricerca dell’University of Central Lancashire, uno dei principali fattori che condizionano la percezione dei luoghi di morte è la distanza nel tempo dall’evento luttuoso. I luoghi di eventi relativamente recenti tendono a generare maggiore empatia e a essere considerati più macabri rispetto a quelli in cui gli eventi sono molto remoti: il Colosseo, Auschwitz e Ground Zero, per esempio, sono luoghi di morte non soltanto in un senso diverso ma anche riferiti a tempi diversi.

La percezione è poi inevitabilmente condizionata dal significato storico, culturale e umano attribuito dalla collettività a determinati luoghi associati alla morte, come Hiroshima, Auschwitz e Ground Zero: luoghi di morte molto diversi da un luogo in cui sia morta una persona famosa, per esempio, o ne siano morte molte a causa di un disastro naturale o un incidente (il naufragio del Titanic, per esempio). E anche la distanza nello spazio, secondo Stone, è un fattore influente: pur se riferiti a uno stesso evento, il Memoriale dell’Olocausto nel quartiere Mitte a Berlino è un luogo associato alla morte, mentre il campo di concentramento di Auschwitz è un luogo di morte e sofferenza.

Il turismo della tragedia, ha scritto Donna Poade, docente di scienze del turismo alla Falmouth University, può riguardare esperienze molto differenti ma in un certo senso è sempre esistito: dai giochi dei gladiatori alle visite guidate negli obitori dell’Ottocento fino allo spettacolo delle esecuzioni pubbliche. E la ragione del fascino è che «dove c’è vita c’è morte», nel senso che la morte è da sempre oggetto di attenzioni sociali, manifestazioni rituali e rappresentazioni culturali.

Sebbene l’idea che luoghi di atrocità umane possano essere commercializzati provochi in molte persone un senso di disagio o di indignazione, il turismo della tragedia può avere aspetti positivi. Ricerche recenti citate da Poade suggeriscono che oggi più che in passato molti turisti siano motivati da un desiderio e un interesse per il patrimonio culturale dei luoghi che visitano.

Secondo il ricercatore giapponese dell’Università di Kanazawa Akira Ide il turismo della tragedia può aiutare la popolazione a mantenere vivo il ricordo di quelle tragedie, apprendere dagli errori del passato e cercare di non ripeterli. Fornisce inoltre un prezioso sostegno economico per diverse regioni: in Giappone si trovano 25 siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, tra cui il Memoriale della pace di Hiroshima, una delle più famose destinazioni del turismo della tragedia, visitato nel 2019 da 1,76 milioni di turisti.

Il turismo della tragedia sta recentemente crescendo anche nella regione giapponese settentrionale del Tōhoku, luogo dello tsunami che nel marzo 2011 provocò la morte di circa 16 mila persone. Nel 2022 1,15 milioni di turisti hanno visitato i musei commemorativi del terremoto e dello tsunami, e altre strutture e musei nelle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima, tutte interessate dal disastro nella centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Proprio per i benefici economici e le iniziative e attività di prevenzione che sta favorendo, il turismo della tragedia nella prefettura di Fukushima è definito più spesso “turismo della speranza”.

Una delle principali difficoltà per questo settore del turismo, secondo Poade, riguarda le questioni etiche: come bilanciare i benefici economici e sociali da una parte e il rischio di sfruttamento e voyeurismo dall’altro. Ed esistono infine questioni relative anche alla sicurezza del turismo di questo tipo, come dimostra anche il caso del sommergibile Titan.

Recentemente un’agenzia di viaggi tedesca nota per i suoi tour di avventure estreme è stata molto criticata per aver proposto come meta di viaggio la giungla del Darién, che separa la Colombia da Panama ed è una delle più pericolose rotte di migranti al mondo. L’agenzia promuove il viaggio nel Darién come un’opportunità per vedere bellezze naturali uniche in una delle foreste tropicali più incontaminate del mondo, oltre che come un test di sopravvivenza per turisti temerari.

Si calcola che 250 mila persone – perlopiù latinoamericane, ma anche un numero crescente provenienti da Afghanistan e Cina, tutte scarsamente attrezzate e deboli – abbiano rischiato la vita nel 2022 per cercare di attraversare la giungla del Darién e raggiungere gli Stati Uniti. L’inaccessibilità e la mancanza di sviluppo di tutta l’area l’hanno peraltro resa un rifugio per gruppi armati e milizie del narcotraffico. E diversi esperti hanno espresso preoccupazione per il fatto che le attività turistiche possano finire per finanziare direttamente o indirettamente quei gruppi per l’accesso ai loro percorsi turistici.

giungla Darién

Una famiglia di migranti haitiana attraversa un fiume nel Darién, tra la Colombia e Panama, il 15 ottobre 2022 (AP Photo/Fernando Vergara, File)