Scrivere biografie è più complicato di una volta

La sovrabbondanza di dati digitali pone sia difficoltà tecniche sia problemi di metodo nella selezione e interpretazione delle informazioni

biografia
(Chris McGrath/Getty Images)
Caricamento player

Nel 2021 un’attesa biografia dello scrittore statunitense Philip Roth, uno dei più influenti del Novecento, morto nel 2018, alimentò un dibattito riguardo al controllo e alle limitazioni dell’accesso ai materiali d’archivio di autori e autrici da parte dei loro agenti letterari, rappresentanti ed eredi. Qualche anno prima di morire, parlando delle note e degli appunti a cui avrebbe avuto accesso il suo biografo, Blake Bailey, Roth aveva detto di aver incaricato i suoi esecutori testamentari – il suo agente letterario, Andrew Wylie, e un’amica psicanalista, Julia Golier – di distruggere quei materiali, una volta che Bailey avesse finito di consultarli. «Non voglio che i miei documenti personali siano sparsi dappertutto, nessuno deve leggerli», aveva poi aggiunto.

Al netto dell’esempio particolare di Roth, l’accresciuta disponibilità di materiali di archivio in formato digitale e l’accessibilità a questi dati sono da diversi anni argomento di varie riflessioni sull’impatto degli sviluppi tecnologici sul lavoro di chi si occupa in ambito letterario di raccolta, selezione, scrittura e pubblicazione di testi biografici. Sono riflessioni che riguardano principalmente l’editoria ma che lambiscono aspetti problematici della contemporaneità – il diritto all’oblio, per esempio – rilevanti anche in altri contesti e influenti per il lavoro di molti altri specialisti, tra cui gli storici.

Da un lato le tecnologie digitali hanno ampliato e reso disponibili modalità e opportunità di espressione e di scrittura meno mediate e più sbottonate e spontanee, particolarmente affini al genere letterario dell’autobiografia, scrisse nel 2015 sulla rivista scientifica Biography il ricercatore Paul Longley Arthur, docente di informatica umanistica e scienze sociali alla Edith Cowan University, in Australia occidentale. E hanno anche semplificato e uniformato la conservazione a tempo indeterminato di queste tracce di vite online e offline, potenzialmente utili per biografi ed editori.

Dall’altro lato la sovrabbondanza di dati digitali ha complicato il lavoro di chi si occupa di biografie e in generale di scrittura biografica, categoria che include altri sottogeneri come memorie, diari, lettere e altre forme di annotazione e registrazione di ricordi, esperienze, opinioni ed emozioni personali. Per le persone abituate da secoli a vagliare, studiare e selezionare questo tipo di documenti, gli sviluppi tecnologici e Internet hanno introdotto problemi nuovi.

– Leggi anche: Per fare la storia servono anche i filmati di famiglia

I problemi sono principalmente di due tipi. Esiste un problema pratico, relativo all’effettiva possibilità per i biografi di accedere a tutte le informazioni digitali: possibilità limitata da molteplici fattori variabili, a cominciare dalla concreta disponibilità delle tecniche e dei diritti di accesso. Ed esiste poi un problema di organizzazione, interpretazione e selezione delle informazioni pertinenti, che richiede tra le varie abilità e competenze quella di valutare il materiale relativo a un certo autore o a una certa autrice come più o meno importante non soltanto in base al contenuto in sé, ma anche in base al particolare contesto d’uso.

Per un biografo del ventunesimo secolo le tracce della vita di una persona sono innumerevoli e su una scala impossibile da gestire, ha scritto JSTOR Daily, rivista online pubblicata dalla biblioteca digitale JSTOR. Una persona che muore può lasciare sulla propria scrivania pile di lettere e fogli, probabilmente posta indesiderata. Ma lascerà anche e soprattutto informazioni digitali: account di social media, caselle di posta elettronica, messaggi, blog, calendari digitali, file archiviati in cloud o su supporti fisici, fotografie con indicazione dell’ora e del luogo dello scatto, dati biometrici, cronologia della navigazione e degli acquisti, tracce di attività sui social e dei luoghi visitati, della musica ascoltata e dei video guardati.

A un primo livello la sovrabbondanza di dati è un problema che nemmeno si pone, perché dipende da una parte dalle capacità e possibilità del biografo di accedere a quei dati, e dall’altra dalla quantità e dal tipo di difese utilizzate dagli autori e dalle autrici contro gli accessi non autorizzati. Anche nel caso in cui l’accesso sia autorizzato dalla persona o legittimato da altre circostanze dopo la sua morte, la diffusione di sistemi di autenticazione a due fattori e altri passaggi di sicurezza rende l’accesso tecnicamente impossibile in molti casi.

Negli ultimi anni i sistemi di sicurezza dei dispositivi tecnologici e i limiti nella ricerca di dati digitali all’interno di quei dispositivi sono stati peraltro oggetto di estese discussioni anche in altri ambiti, specialmente nei casi in cui a richiedere l’accesso alle informazioni biografiche erano enti di governo e istituzioni. Nel 2016 si parlò molto del tentativo dell’FBI di ottenere da Apple un metodo per aggirare i sistemi di sicurezza di un iPhone appartenuto a uno degli attentatori che il 2 dicembre 2015 avevano ucciso 16 persone in un attacco a San Bernardino, in California.

L’FBI ottenne infine i dati senza l’aiuto di Apple, che da allora ha introdotto ulteriori misure per proteggere i dati degli utenti, rendendoli in alcuni casi inaccessibili anche per la stessa Apple. E già all’epoca passarono mesi e fu necessario un investimento di circa un milione di dollari prima che l’FBI avesse accesso all’iPhone: è abbastanza difficile immaginare che un biografo autorizzato a esaminare i dispositivi della persona di cui deve scrivere possa avere a disposizione simili risorse.

– Leggi anche: Il futuro promettente dei nastri magnetici

Un altro problema per chi recupera e maneggia informazioni in formato digitale, già argomento di lunghe riflessioni sull’evoluzione delle tecnologie informatiche, riguarda la resistenza dei supporti di memoria nel tempo. Parte di queste riflessioni ha mostrato come quei supporti siano per molti aspetti meno permanenti e universali di quanto si immaginasse inizialmente, e non necessariamente più durevoli di altri supporti che non dipendono dal funzionamento di altri strumenti e infrastrutture fondamentali.

Un biografo potrebbe recuperare informazioni preziose contenute in supporti difficili da leggere perché deteriorati o obsoleti, come i floppy disk, per esempio. «Si continua ancora a pensare che il mezzo migliore per conservare le informazioni sia la carta, perché ha funzionato per 3000 anni», ha detto Craig Howes, direttore del Centro di ricerca in studi biografici alla University of Hawaii di Mānoa e condirettore della rivista Biography.

Anche ammesso che la reperibilità e leggibilità dei dati digitali non siano compromesse, il solo fatto che quei dati esistano non implica poi l’esistenza di un’autorizzazione contrattuale a utilizzarli, come mostra il caso noto di Roth, in cui le dichiarate volontà dell’autore non coincidono con gli interessi della ricerca biografica. All’epoca dell’uscita della biografia scritta da Bailey, nel 2021, la Philip Roth Society – un gruppo di studio delle opere letterarie e dell’eredità culturale di Roth, fondato nel 2002 – si oppose all’ipotesi che i documenti consultati da Bailey venissero distrutti, perché «limitare l’accesso a un biografo va contro le consuetudini della ricerca accademica».

La gestione dei diritti di accesso ai materiali d’archivio dipende da diversi fattori, variabili da caso a caso. Ma per cautela e per evitare di essere poi citati in giudizio, ha detto Howes, tendenzialmente gli editori chiedono ai biografi di avere dagli autori o dalle autrici, o dai loro eredi, autorizzazioni di livello superiore rispetto a quanto richiesto dalle leggi. «La maggior parte dei contratti stabilisce che il biografo è totalmente responsabile e che l’editore non si assume alcuna responsabilità riguardo alle autorizzazioni», ha detto Howes.

– Leggi anche: Come Bolaño divenne Bolaño

Tralasciando le questioni tecnologiche e legali, su un piano pratico e di metodo la sovrabbondanza di dati digitali pone infine i biografi di fronte alla difficoltà di cercare ed eventualmente trarre senso da una quantità eccezionalmente ampia e varia di documenti, non per forza sensati. È una difficoltà in parte simile a quella che nel saggio del 1967 Osservazioni sul piano-sequenza il regista e intellettuale italiano Pier Paolo Pasolini associava al tentativo di dare senso compiuto e unitario alle azioni di una persona, in parte indecifrabili finché la persona è in vita, e rispetto alle quali soltanto la morte può compiere una sorta di montaggio.

L’insieme eterogeneo e straripante di informazioni oggi potenzialmente disponibili per i biografi rende in un certo senso più difficile interpretare le informazioni e isolare i momenti veramente significativi nella vita delle persone. I dati digitali sono in grandissima parte tracce di un presente che non esprime compiutezza bensì, come scriveva Pasolini, «un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità». E studiare e interpretare quei dati autobiografici allo stesso modo in cui, prima di Internet, si studiavano i diari cartacei, le lettere o altri documenti su supporti fisici comporta tutta una serie di rischi di incomprensione e fraintendimenti.

Oltre ai blog e alle email, le cui funzioni sono solo in parte sovrapponibili a quelle dei diari e della corrispondenza cartacea, la tecnologia digitale ha introdotto altri tipi di documenti autobiografici volatili, modificabili e preimpostati, scrisse su Biography Madeleine Sorapure, che insegna nuovi media e storytelling digitale alla University of California, Santa Barbara. Sono frammenti di scrittura autobiografica piuttosto «instabili», secondo Sorapure, perché sono sparsi su piattaforme diverse, ciascuna delle quali riflette differenti pratiche d’uso collettive e utilizza differenti standard, interfacce e modelli di base.

La tecnologia digitale ha inoltre favorito la diffusione di prassi che hanno reso i confini tra vita pubblica e privata meno netti che in passato, uniformando consuetudini e sistemi utilizzati sia online che offline. E ha generato secondo Sorapure anche un frequente equivoco – peraltro diffuso in molti altri ambiti, inclusa l’informazione – secondo cui tutto ciò di cui esista una traccia digitale sia in una qualche misura più «oggettivo», inducendo quindi i biografi a subire la tentazione di applicare meno controlli sui dati digitali e considerarli «fatti».

Questo equivoco non tiene conto di circostanze e attitudini che potrebbero in verità condizionare pesantemente l’attendibilità dei dati autobiografici. Una foto postata su un social e con il tag di una certa città potrebbe essere stata scattata in un’altra. E la cronologia delle attività potrebbe essere influenzata da diversi fattori comuni, anche banali: una persona che secondo i dati ha ascoltato una stessa canzone a ripetizione per molte ore potrebbe semplicemente essersi allontanata dal computer o dal dispositivo e aver dimenticato di mettere in pausa l’applicazione con cui ascolta musica.

– Leggi anche: Cose dimenticate nei libri

Un fattore che rende infine i documenti digitali molto difficili da gestire e interpretare è che, come scritto da Sorapure, non si limitano a riflettere la vita di una persona ma in una certa misura la modellano. Le parti di testo precompilate (“Come ti senti oggi”) e i linguaggi (le faccine subito disponibili, per esempio) suggeriscono in parte agli utenti quali informazioni condividere e come. E gli utenti hanno poi un controllo molto limitato su cosa accade a quelle informazioni una volta condivise.

In generale molti dei documenti digitali condivisi su Internet non esprimono soltanto un dato autobiografico, ma mostrano anche tendenze e comportamenti collettivi da cui quei dati sono inevitabilmente influenzati. Il modo in cui esprimiamo noi stessi attraverso la tecnologia digitale risente prima di tutto di una familiarità acquisita con l’idea che esistano innumerevoli registrazioni di noi, sia conservate da noi stessi che conservate da altri: ciò che Arthur definisce «normalizzazione della sorveglianza».

I nostri comportamenti sono inoltre influenzati da un flusso continuo di feedback, sotto forma di “mi piace”, commenti, condivisioni, visualizzazioni e altri indici che agiscono retroattivamente sulle nostre inclinazioni e sul nostro desiderio di condividere parti di noi e delle nostre vite. E il risultato è che spesso l’informazione che è possibile ricavare da quel tipo di fonti non è parte di un’identità, secondo Arthur. È un «frammento» tra i tanti sparsi e accumulati in base a criteri che hanno a che fare con la vita di una singola persona non più di quanto riguardino il funzionamento delle piattaforme e le nuove norme culturali introdotte dai mezzi tecnologici attraverso cui rappresentiamo noi stessi.

– Leggi anche: Sui social funzioniamo come stormi