Storie di invenzioni contese

Più persone lavorarono nello stesso momento e indipendentemente a nuove tecnologie epocali, generando dispute e ambiguità durature sul merito

Henry Ford, Thomas Edison
Henry Ford e Thomas Edison, nell’ottobre 1929 (AP Photo)

Nella sua versione più epigrafica e conosciuta la storia delle invenzioni è fatta di semplificazioni e nomi famosissimi, ciascuno legato a una determinata invenzione in un rapporto uno a uno: Thomas Edison alla lampadina, Alexander Graham Bell al telefono e Samuel Morse al telegrafo, per esempio. Da tempo la ricerca storica ed epistemologica mostra tuttavia come quelle semplificazioni siano causa di numerosi equivoci e convinzioni errate, e descrive in generale le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche come processi più collettivi, cumulativi e contesi di quanto comunemente si tenda a credere.

Come scrisse il sociologo statunitense Robert K. Merton descrivendo l’ipotesi delle «scoperte multiple indipendenti», le pagine della storia della scienza del XIX e del XX secolo contengono centinaia di esempi di scoperte simili fatte da scienziati che lavorarono indipendentemente l’uno dall’altro. In alcuni casi giunsero alla stessa scoperta nello stesso momento, e in altri casi uno tra loro scoprì qualcosa senza sapere che qualcun altro era arrivato alle stesse conclusioni qualche anno prima.

Nei processi della scienza questa dinamica degli eventi, secondo molti studiosi, rappresenta la norma e non l’eccezione. È ipotizzabile che «le scoperte diventino praticamente inevitabili quando tipi di conoscenze e strumenti indispensabili si accumulano nel bagaglio culturale delle persone», scrive Merton, e «l’attenzione di un numero considerevole di ricercatori si concentra su un problema», a fronte di determinati bisogni sociali emergenti o particolari sviluppi della scienza. L’idea dell’inventore geniale solitario, per quanto suggestiva e popolare, è considerata perlopiù fuorviante: scoperte e invenzioni sono raramente il prodotto di una sola persona.

Il fatto che la storia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche sia fatta più di pluralità che di singolarità, per dirla nei termini di Merton, è dimostrato anche dalla notevole frequenza di casi di invenzioni contese, più numerose rispetto a quelle il cui merito sia oggi attribuito in modo indiscusso a un’unica persona. Come sintetizzò nel 2019 sul New Yorker la giornalista statunitense Casey Cep, in un articolo su Edison: «I problemi dell’epoca attraggono i risolutori di problemi dell’epoca, i quali lavorano più o meno all’interno degli stessi vincoli e si avvalgono delle stesse teorie e tecnologie esistenti».

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La lampadina
Nessuna invenzione ha mai generato un’immagine più metaforica e potente della lampada a incandescenza, diventata un simbolo stesso dell’invenzione e dell’idea. A renderla così popolare fu soprattutto Edison, che non ne fu l’inventore: fu il principale responsabile della riduzione dei costi di produzione e dell’aumento della durata dei materiali, che permisero di fare della lampadina un formidabile prodotto industriale e commerciale dal 1879 in poi.

thomas edison

Thomas Edison nel 1918-19 (U.S. Information Agency/Wikimedia)

Edison, all’epoca già noto per centinaia di invenzioni da lui brevettate, fu fotografato così spesso vicino a una lampadina che le persone finirono per associare la lampadina all’idea stessa di invenzione, come per una specie di proprietà transitiva del genio. Ma diversi inventori prima di lui avevano studiato, sviluppato e perfezionato la lampadina, a cominciare dal chimico inglese Humphry Davy. Nel 1802, utilizzando una batteria di pile composta da 2000 elementi e ospitata in un sotterraneo della Royal Institution a Londra, Davy creò una luce a incandescenza facendo passare la corrente elettrica attraverso una sottile striscia di platino, un metallo con un punto di fusione molto alto.

La luce ottenuta da Davy non era sufficientemente intensa né abbastanza duratura per essere di utilità pratica, ma dimostrava un principio che fu poi utilizzato anche da altri inventori, tra cui Alessandro Cruto, un ricercatore piemontese che realizzò una lampada a filamento più efficiente. Cruto non riuscì a brevettare l’invenzione su scala mondiale per mancanza di finanziamenti, cosa che invece fecero nel 1879, dopo aver lavorato indipendentemente l’uno dall’altro, sia il chimico inglese Joseph Wilson Swan nel Regno Unito che Edison negli Stati Uniti.

Come racconta nell’articolo Il mito dell’inventore solitario lo statunitense Mark Lemley, docente della scuola di legge della Stanford University e direttore del programma Law, Science & Technology, Swan citò in giudizio Edison nel Regno Unito per aver violato il suo brevetto della lampadina a incandescenza, di poco precedente. E i due la risolsero fondando una società, la Ediswan, per produrre e commercializzare insieme la lampadina nel Regno Unito. Ma anche negli Stati Uniti Edison dovette difendersi da un’accusa di violazione di brevetto, a lui rivolta dai due inventori statunitensi William Sawyer e Albon Man, fondatori di una società in seguito acquisita dal grande imprenditore statunitense George Westinghouse, rivale di Edison.

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Inizialmente, nel 1883, l’Ufficio brevetti degli Stati Uniti stabilì che il brevetto di Edison era effettivamente basato sul lavoro di Sawyer e Man, e lo giudicò pertanto non valido. Dopo circa sei anni di contenzioso e un lungo lavoro di perfezionamento dell’invenzione portato avanti da Edison, Swan e Lewis Latimer, un inventore afroamericano collaboratore di Edison, un giudice stabilì nel 1889 che il più efficiente «filamento di carbonio ad alta resistenza» presente nella lampadina di Edison – realizzato utilizzando una particolare specie di bambù – rendeva l’invenzione sufficientemente diversa da altre simili, e considerò quindi valido il brevetto.

Effettivamente, come aveva già affermato la corte durante la precedente causa tra Edison e Swan, «un gran numero di persone, in vari paesi» stava lavorando all’illuminazione a incandescenza negli anni Settanta dell’Ottocento. Edison non inventò la lampadina ma fu il più bravo a produrle e renderle un successo commerciale, aggiungendo a sua volta valore a uno sviluppo che fu incrementale, in una lunga catena di miglioramenti.

Il telegrafo
L’invenzione del telegrafo è spesso attribuita all’inventore statunitense Samuel Morse, che nel 1837 ottenne un brevetto per un telegrafo elettromagnetico da lui sviluppato utilizzando un filo e un codice: il codice Morse, un insieme di segnali elettrici lunghi e brevi che codifica le lettere dell’alfabeto in sequenze di impulsi di due diverse durate (punti e linee). Non fu però il primo a sviluppare un telegrafo funzionante, su cui in Europa esisteva un notevole interesse indipendente dagli esperimenti di Morse.

Più o meno nello stesso periodo gli inventori inglesi William Fothergill Cooke e Charles Wheatstone ottennero un brevetto per un sistema telegrafico che utilizzava sei fili e azionava cinque puntatori ad ago. E altri modelli furono sviluppati anche dallo scienziato inglese Edward Davy e dal tedesco Carl August von Steinheil. In un’influente sentenza del 1853, per una disputa tra Morse e l’imprenditore Henry O’Reilly, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che le invenzioni del telegrafo «furono talmente simultanee o quasi che nessuno degli inventori poteva essere giustamente accusato di aver tratto alcun aiuto dalle scoperte di un altro».

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Benché il suo codice fosse effettivamente più efficiente di altri, l’idea utilizzata da Morse per sviluppare tecnicamente il telegrafo era già ampiamente condivisa in altre parti del mondo. La difficoltà principale stava nel farlo funzionare su grandi distanze: Morse riuscì a superarla utilizzando efficienti elettromagneti in grado di amplificare i segnali elettrici che correvano sul filo. E fu il fisico statunitense Joseph Henry, presentato a Morse da un amico comune (il chimico Leonard Gale), a sviluppare quegli elettromagneti, dopo aver scoperto che era possibile migliorare quelli esistenti isolando il filo elettrico e avvolgendolo strettamente attorno a un nucleo di ferro.

La radio
L’inventore e fisico italiano Guglielmo Marconi, che nel 1909 ricevette il Nobel per il suo contributo allo sviluppo della telegrafia senza fili, è comunemente accreditato come l’inventore della radio all’inizio del Novecento. Ma furono in molti a contribuire allo sviluppo della comunicazione basata sulla trasmissione di onde elettromagnetiche, la cui propagazione nello spazio era stata studiata nel 1873 dal fisico scozzese James Clerk Maxwell, riprendendo ricerche del fisico e chimico inglese Michael Faraday, e dimostrata sperimentalmente dal fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz.

Esiste una lunga e mai del tutto risolta disputa tra Marconi e lo statunitense Nikola Tesla riguardo all’attribuzione dell’invenzione della radio. Nei primi anni Novanta dell’Ottocento Tesla fu tra i primi a condurre importanti esperimenti per la produzione di correnti ad elevata frequenza e alta tensione, che mostrarono tra le altre cose come l’energia potesse essere trasmessa senza fili. Marconi era interessato piuttosto a migliorare di fatto una tecnologia già esistente, il telegrafo, rendendo possibile la trasmissione e ricezione di segnali del codice Morse anche tra punti non collegati da un filo.

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Sia Marconi che altri fisici, tra cui l’inglese Oliver Lodge e il russo Alexander Popov, si impegnarono per sviluppare quel tipo di sistema di ricetrasmissione: un telegrafo senza fili che coprisse grandi distanze. Almeno inizialmente, scrive Lemley, non videro quell’invenzione come un mezzo di comunicazione uno-a-molti, cioè l’utilizzo principale che fu poi fatto di quella tecnologia nel secolo successivo.

Nel 1894 Lodge costruì un primo strumento in grado di intercettare onde elettromagnetiche emesse fino a circa 150 metri di distanza, e anche Popov costruì autonomamente un’antenna per la ricezione di segnali elettrici. Marconi stabilì nel 1895 un collegamento coprendo una distanza maggiore di quella coperta da Lodge, di circa 2 chilometri, e chiese un brevetto per la radiotelegrafia. Nel 1901 riuscì infine a realizzare il primo collegamento transatlantico trasmettendo a 4 mila chilometri di distanza i tre punti della lettera S in alfabeto Morse.

Lo strumento a cui pensiamo quando pensiamo alla radio è ovviamente molto più che un telegrafo senza fili. Per arrivarci, nei primi anni del Novecento, fu necessario molto altro lavoro oltre a quello solitamente attribuito a Lodge, Marconi o Popov. I loro sistemi permettevano infatti di inviare semplici messaggi in codice Morse perché i segnali erano troppo deboli per trasmettere voce umana e altri suoni udibili.

Un’invenzione fondamentale per aggirare quel limite fu il triodo, un dispositivo che permette di amplificare il segnale ricevuto, sviluppato nel 1907 dall’inventore statunitense Lee De Forest. La potenza dei segnali radio poté in questo modo essere aumentata fino a muovere le membrane di altoparlanti e riprodurre dei suoni. E aumentò anche la distanza che quei segnali potevano coprire, dato che potevano essere amplificati al momento della ricezione.

Come vale per altre grandi invenzioni, sintetizza Lemley, la radio si sviluppò attraverso un lungo processo fatto sia di progressi indipendenti compiuti da diversi inventori, sia di miglioramenti incrementali da parte di «persone interconnesse che a volte collaborarono, altre volte gareggiarono e altre volte ancora si fecero causa a vicenda».

Il telefono
Alexander Graham Bell fu insieme a Edison uno degli inventori statunitensi più famosi di sempre, nonché uno dei fondatori della National Geographic Society. La sua fama è principalmente dovuta al fatto che fu il primo a brevettare il telefono, nel 1876, sviluppando una tecnologia a cui anche altri stavano lavorando nello stesso periodo e, in alcuni casi, già da tempo.

Il problema risolto da Bell era stato introdotto sostanzialmente dal successo della telegrafia: convertire in suoni i segnali elettrici trasmessi lungo i fili. Ed era un problema ovviamente noto anche ad altri scienziati, tra cui il tedesco Philipp Reis, che nei primi anni Sessanta dell’Ottocento aveva proposto una soluzione valida sviluppando in autonomia un telefono i cui principi furono in seguito applicati da Bell.

Nel 1871 l’inventore italiano Antonio Meucci depositò a New York un brevetto provvisorio per il telegrafo parlante (o telettrofono), un apparecchio il cui ricevitore era tecnicamente migliore di quello del telefono di Reis. Meucci non poté però rinnovare il brevetto oltre il 1874, per mancanza di fondi, e nel 1876 Bell depositò il brevetto per il suo telefono, tecnicamente simile a quello di Meucci e di Reis.

Bell presentò peraltro il suo brevetto poche ore prima che lo facesse nello stesso ufficio a Chicago un altro inventore, lo statunitense Elisha Gray, che in seguito fece causa a Bell e la perse, nonostante il suo modello fosse diverso e per certi aspetti migliore di quello di Bell, e nonostante il fatto che Bell fosse riuscito a far funzionare la sua invenzione solo diverse settimane dopo la data in cui aveva depositato il brevetto. La fama e il successo di Bell, come scrive Lemley, furono merito «tanto del banco del laboratorio quanto delle vittorie in tribunale e sul mercato».

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Il proiettore cinematografico
Anche la storia dell’invenzione dello strumento che rese possibile il cinema, il proiettore cinematografico, fu una storia di primi tentativi indipendenti e autonomi, da parte di diversi inventori nel mondo, e successivi miglioramenti incrementali. Com’è noto, ad avviare e rendere straordinariamente famosa l’industria furono nel 1895 i due inventori francesi Louis e Auguste Lumière, attraverso la prima proiezione di fronte a un pubblico pagante, in una sala di un caffè a Parigi.

L’invenzione brevettata dai Lumière, il cinematografo, era successiva ma simile per certi aspetti a un’altra di Edison, il kinetoscopio, prodotto nel 1889 per permettere la visione di una pellicola di celluloide da 35 millimetri alla velocità di 48 immagini al secondo, attraverso una fessura protetta da una lente. Sia il cinematografo che il kinetoscopio furono il punto di arrivo di diverse ricerche tecniche condotte nel corso del XIX secolo, cui contribuirono tra gli altri l’inventore francese Étienne-Jules Marey e il fotografo inglese Eadweard Muybridge (Edison conobbe entrambi personalmente).

Edison sviluppò peraltro il kinetoscopio insieme a un suo dipendente, l’inventore e regista inglese William Kennedy Laurie Dickson, che condusse la maggior parte degli esperimenti. Nello stesso periodo altri due inventori statunitensi, Charles Francis Jenkins e Thomas Armat, stavano lavorando all’idea di proiettare immagini in rapida successione su uno schermo in modo da renderle visibili a più spettatori nello stesso momento. Svilupparono un proiettore in grado di mostrare 24 immagini al secondo, uno standard che permetteva di interpretare come movimento lo scorrere di immagini statiche, più facilmente e chiaramente di quanto avvenisse con il kinetoscopio.

Armat vendette in seguito il prototipo a una piccola società di intrattenimento, la Raff & Gammon, che lo mostrò a Edison per sondare un suo eventuale interesse a fabbricare quel proiettore e produrre pellicole adatte. Ed Edison accettò a condizione che il proiettore fosse pubblicizzato come una sua nuova invenzione chiamata Vitascope. In seguito, quando il Vitascope diventò un’attrazione popolare in molte città degli Stati Uniti, la società di Edison sviluppò nuovi e più evoluti sistemi cinematografici commercializzati con il nome Projecting Kinetoscope.

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Un altro inventore ancora, il francese Louis Le Prince, è peraltro citato spesso come l’inventore della cinepresa perché considerato la prima persona a riprendere una sequenza di immagini in movimento. Nel 1888 a Leeds, in Inghilterra, utilizzò una particolare macchina fotografica a obiettivo singolo da lui inventata e una striscia di pellicola per scattare 12 fotogrammi al secondo.

Il lavoro di Le Prince non influenzò tuttavia lo sviluppo commerciale del cinema, principalmente a causa della sua irrisolta scomparsa nel 1890, quando prese un treno per Parigi da Digione e nessuno ebbe mai più sue notizie.

L’automobile
L’automobile è per molti aspetti uno dei più chiari esempi di «innovazione incrementale», scrive Lemley. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento alcune delle aziende oggi note come le più famose aziende automobilistiche al mondo, tra cui Dodge e Mercedes, si specializzarono inizialmente nella costruzione artigianale di biciclette, tricicli e quadricicli. L’ascesa dell’industria automobilistica subì in parte il condizionamento di quella delle biciclette: le prime auto furono sostanzialmente tricicli con un motore a scoppio.

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L’ingegnere e inventore tedesco Karl Benz a bordo di una Benz Patent Motorwagen, la prima automobile con un motore a scoppio, a Lipsia, nel 1925 (Zeno.org/Wikimedia)

Furono i due ingegneri tedeschi Gottlieb Daimler e Wilhelm Maybach a progettare nel 1886 la prima automobile a quattro ruote con un motore a combustione interna a quattro tempi, realizzato dieci anni prima dall’ingegnere tedesco Nikolaus August Otto. Otto fece causa a Daimler per aver utilizzato i suoi motori coperti da brevetto, ma perse perché all’invenzione del motore a combustione interna erano arrivati altri scienziati prima di Otto, tra cui l’ingegnere francese Alphonse Beau de Rochas, l’inventore tedesco Christian Reithmann e i due ingegneri italiani Felice Matteucci ed Eugenio Barsanti.

Non fu quindi l’imprenditore statunitense Henry Ford a inventare l’automobile, e nemmeno la catena di montaggio, che esisteva già da tempo in varie forme. Ford fu però l’imprenditore che più degli altri ridusse i tempi di lavorazione e ottimizzò la produzione, mettendo in pratica molte idee dei suoi tecnici e dei suoi dipendenti.