10 storie di inventori uccisi dalle proprie invenzioni

Imprese sfortunate compiute in nome della scienza: dall'inventore del deltaplano all'uomo che si lanciò dalla Tour Eiffel per provare il suo paracadute

La storia della scienza e della tecnica moderne è fatta di grandi idee e di grandi personalità che le hanno inseguite spesso con grande coraggio. L’aviazione è probabilmente il settore che ha consegnato le storie più emozionanti di brillanti persone che hanno rischiato la vita per spostare più avanti il limite delle cose che l’uomo era in grado di fare. Qualcuno di loro, però, è morto provandoci. È il caso di Otto Lillienthal, l’inventore del deltaplano, che si schiantò in volo poco fuori Berlino, o di Franz Reichelt, un sarto che voleva inventare un paracadute in grado di aprirsi in pochi metri, o di Jean-François Pilâtre de Rozier, che fu la prima persona a volare su una mongolfiera e anche il primo morto in un incidente aereo nella storia dell’uomo. Ma le storie di inventori morti sperimentando le proprie invenzioni non si limitano a cose successe a decine di metri di altezza: il soldato confederato Horace Hurley morì annegato nel sottomarino che aveva inventato, uno dei primi di sempre, mentre il teorico del bolscevismo Alexander Bogdanov morì mentre cercava di raggiungere l’immortalità con le trasfusioni di sangue. Abbiamo raccolto dieci storie di inventori uccisi dalle proprie invenzioni, dal Settecento agli anni Settanta: si va da chi è morto a letto a chi guidava una Ford Pinto volante. E se qualcuno se lo stesse chiedendo, quello del segway (cioè quei marchingegni con le ruote su cui si sta in piedi) non c’è: James Hedelsen, morto nel 2010 a bordo di uno dei suddetti marchingegni, non l’aveva inventato, ma era il proprietario della società che li produceva.

Otto Lilienthal 

I deltaplani sono quei grossi aggeggi per volare, fatti di una struttura rigida “ad ali”, a cui si sta aggrappati con delle sbarre. Sono usati per sport e non come veri mezzi di trasporto, e il primo a progettarne e costruirne uno funzionante fu Otto Lillienthal, un ingegnere tedesco che visse nella seconda metà dell’Ottocento. Lillienthal fin da piccolo si appassionò al volo degli uccelli, e ne studiò le applicazioni nell’aviazione, negli anni in cui gestiva una propria compagnia di motori a vapore in Germania. A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, Lillienthal sviluppò i primi deltaplani, progettando un sistema per controllarli che è alla base di quello utilizzato ancora oggi. I suoi esemplari erano manovrati spostando il peso del corpo, ma il pilota era appeso per le spalle, e non si trovava interamente sotto le ali del deltaplano, come succede in quelli moderni. Fece centinaia di voli sperimentali, buttandosi giù da colline o da un’altura artificiale che aveva costruito vicino a Berlino. Nel 1893 stabilì il suo record, percorrendo 250 metri su un suo deltaplano.

I voli di Lillienthal cominciarono ad attirare attenzioni in tutta la Germania e all’estero, anche grazie alla diffusione di alcune sue fotografie alla guida del deltaplano. Il 9 agosto 1896 Lillienthal andò sulle colline vicino a Rhinow, a ovest di Berlino. Era una bella giornata ma c’era probabilmente troppo vento per volare: i primi lanci ebbero comunque successo, ma al quarto le cose andarono storte. Una corrente d’aria spostò il deltaplano, portandolo in posizione da picchiata. Raddrizzarlo, con il sistema di controllo ancora rudimentale progettato da Lillienthal, era molto complicato. Non ci riuscì, e si schiantò a terra, procurandosi un trauma cranico e una vertebra rotta. Lui da subito si rialzò e provò a fare finta di niente, ma fu convinto a vedere un dottore. Morì il giorno seguente, in ospedale. Alcune ricostruzioni sostengono che le sue ultime parole, dette al fratello e compagno di invenzioni Gustav, furono: «I sacrifici vanno fatti». Furono anche scolpite sulla sua lapide.

Otto Lilienthal

(dpa/picture-alliance/dpa/AP Images)

Franz Reichelt

Quella di Franz Reichelt è una delle più famose e romantiche tra le storie di inventori uccisi dalle proprie invenzioni, principalmente perché fu ripresa dal vivo da una cinepresa. Lui era un sarto nato nell’attuale Repubblica Ceca, che si era trasferito a Parigi e aveva avviato un’impresa di successo che vendeva abiti soprattutto agli austriaci in visita nella capitale francese. A partire dal 1910, Reichelt cominciò a progettare una tuta-paracadute, che potesse essere indossata dagli aviatori e impiegata per atterrare a terra in sicurezza in caso di incidente. Reichelt voleva sviluppare soprattutto un paracadute che potesse essere usato per lanciarsi da altezze relativamente basse, senza bisogno di molto spazio per aprirsi. Mise a punto dei manichini con delle ampie ali pieghevoli, e provò con successo a lasciarli cadere da palazzi di pochi piani. I manichini effettivamente toccavano terra dolcemente: provò a convertirli in delle tute indossabili, ma era una cosa più complicata e ne uscì una versione pesante e poco efficace. Presentò l’invenzione alla principale associazione di aeronautica parigina, che però la bocciò perché troppo fragile, e lo sconsigliò di perseverare.

Lui invece perseverò. Anche per via di un premio di diecimila franchi offerto da un colonnello di Parigi a chi avesse sviluppato un nuovo tipo di paracadute che pesasse meno di 25 chili, Reichelt si mise a lavorare, ridusse il peso e aumentò la superficie della sua tuta, ma i test con i manichini continuavano a fallire. Ci sono testimonianze anche di un suo lancio personale, da un’altezza di una decina di metri, che risultò in una caduta a terra attutita da un mucchio di paglia. Dopo mesi di fallimenti, finalmente ottenne il permesso di condurre un test dal primo piano della Tour Eiffel. Il 4 febbraio, un giorno freddo e con un po’ di vento, Reichelt raggiunse la torre in auto con degli amici, indossando la sua tuta: annunciò infatti alle persone che si erano radunate per assistere che intendeva lanciarsi di persona dalla torre, senza usare dei manichini, come aveva invece garantito alla prefettura di Parigi che gli aveva accordato il permesso per il test.

I giornali scrissero che la superficie totale della tuta poteva espandersi fino a 30 metri quadrati, per un peso totale di nove chili. Gli amici raccontarono che Reichelt aveva deciso all’ultimo momento di fare di persona il lancio: provarono a convincerlo a rinunciare o almeno a rimandare, ma senza riuscirci. Reichelt era convinto che la tuta avrebbe funzionato, e si rifiutò anche solo di usare delle precauzioni, come una corda legata in vita. Le Figaro scrisse che ai suoi amici disse: «Vedrete come i miei 72 chili e il mio paracadute confuteranno i vostri argomenti nella maniera più assoluta». Cominciò a salire ma fu fermato da una guardia che non aveva saputo del permesso. Dopo aver risolto la questione riprese a salire, fermandosi per salutare la folla sotto la Tour Eiffel con un “arrivederci”. Raggiunse il primo piano della Torre, a quasi 60 metri di altezza, insieme a un operatore con una cinepresa e due amici che avevano continuato a provare a dissuaderlo dal lanciarsi. Salì su una sedia posizionata sopra un tavolo, controllò il vento con un pezzo di carta, mise un piede sulla ringhiera, esitò per qualche decina di secondi e poi si buttò. La tuta non si aprì del tutto, e Reichelt quasi non rallentò durante la caduta di pochi secondi. Si schiantò al suolo, morendo sul colpo.

Thomas Midgley Jr.

Di Thomas Midgley Jr. si è detto che è stato l’uomo che ha avuto «il maggiore impatto sull’atmosfera di qualunque altro singolo organismo nella storia della Terra». Nel 1921, quando lavorava ormai da cinque anni per la General Motors, scoprì insieme a Charles Kettering che aggiungendo piombo tetraetile (TEL) alla benzina se ne aumentava la resa: fino a quel momento, a causa del basso numero di ottani dei carburanti, questi bruciavano molto velocemente nei motori a combustione interna, producendo un rumore riconoscibile e definito “knocking”. GM brevettò la scoperta di Midgley, e investì molto nella produzione di benzina con aggiunta di TEL: si sapeva che il piombo era tossico, ma la si pubblicizzò con il nome di “etile”. Midgley vinse importanti riconoscimenti, ma dopo un paio d’anni dovette prendersi un periodo di riposo per l’eccessiva esposizione al piombo. Nel 1923 GM fondò una divisione dedicata alle produzioni chimiche, e fece Kettering presidente e Midgley vice presidente: intantò però si erano verificati e continuavano a verificarsi numerosi casi di avvelenamento e intossicazione da piombo (conosciuta come saturnismo) tra chi lavorava alla produzione della nuova benzina, ed entro il 1925 dieci dipendenti di GM sarebbero morti nella sola fabbrica Deepwater DuPont. La combustione di piombo tetraetile provocò anche vasti danni ambientali.

Nel 1924, anche per provare a limitare le morti tra i propri dipendenti, GM aprì una nuova fabbrica per produrre la benzina con un nuovo sistema ritenuto più sicuro: ci furono comunque nuove intossicazioni e cinque morti. Nell’ottobre dello stesso anno Midgley partecipò a una conferenza stampa in cui si versò benzina con TEL sulle mani e la annusò da un flacone, per dimostrarne la sicurezza. Pochi giorni dopo lo stato del New Jersey fece comunque chiudere la fabbrica, e Midgley rimase intossicato. Anni dopo, quando Midgley era stato sospeso dall’incarico di vicepresidente della divisione chimica di GM, fu scelto da Kettering per una squadra che avrebbe dovuto cercare di sviluppare una sostanza refrigerante non tossica e non infiammabile, in alternativa ai prodotti diffusi in quel periodo. Se ne uscirono con il diclorodifluorometano, il primo clorofluorocarburo (CFC), che iniziò a essere usato – con il nome di freon – nei frigoriferi, nei condizionatori, negli aerosol e in vari tipi di solventi. Dopo decenni di utilizzo su vasta scala in tutto il mondo, nel 1985 gli scienziati scoprirono che i clorofluorocarburi erano tra i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico e del buco nell’ozono. Nello stesso periodo si cominciò ad abbandonare il TEL come additivo per la benzina, per le gravi conseguenze ambientali e dannose per la salute provocate dalla sua combustione.

Ma nonostante le due principali scoperte di Midgley furono dirette responsabili della morte di diverse persone, e contribuirono come poche altre all’inquinamento atmosferico, la sua morte dipese da un incidente piuttosto assurdo. Nel 1940 si ammalò di poliomielite, a 51 anni: le conseguenze furono molto gravi, e rimase parzialmente invalido. Per questo inventò un complicato sistema di lacci, corde e carrucole che gli permetteva di alzarsi da solo dal letto. Il 2 novembre 1944 fece qualche guaio mentre lo azionava e rimase impigliato, morendo strangolato.

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Jean-François Pilâtre de Rozier

«In Francia, un chimico di nome Pilatre de Rozier testò l’infiammabilità dell’idrogeno ispirandone una boccata e soffiandolo attraverso una fiamma viva, dimostrando all’istante che l’idrogeno è in effetti un combustibile esplosivo, e che le sopracciglia non sono necessariamente una caratteristica eterna sulla faccia di una persona». Questa è la descrizione che diede Bill Bryson nel suo libro Breve storia di (quasi) tutto del chimico e fisico francese Pilatre de Rozier, che tuttavia passò alla storia, nella seconda metà del Settecento, per un’altra invenzione: la mongolfiera di Rozier. Rozier era uno studioso alla corte del conte di Provenza, fratello del re Luigi XVI, e a partire dall’estate del 1783 cominciò a seguire gli esperimenti dei fratelli Montgolfier, inventori dei primi palloni aerostatici per come li conosciamo oggi. Quando venne il momento di provare a trasportare delle persone a bordo di una mongolfiera, il re voleva che ci salissero sopra due condannati: se fossero caduti, sarebbe stata una specie di esecuzione. Rozier però lo convinse che volare sulla prima mongolfiera era un onore, che riuscì a farsi concedere insieme al marchese d’Arlandes. Volarono il 21 novembre 1783, partendo da Bois de Boulogne e percorrendo quasi 10 chilometri, raggiungendo un’altezza di mille metri. Tutto andò liscio.

Nel gennaio del 1784 partecipò al secondo volo, su una mongolfiera dieci volte più grande e partita da Lione, che ebbe difficoltà per il brutto tempo ma riuscì comunque a completare il volo, tra le celebrazioni dei molti spettatori. Volò una terza volta e poi sviluppò un suo personale modello di pallone aerostatico, che combinava il pallone a idrogeno, gas più leggero dell’aria e che per questo tende a salire verso l’alto, con una camera che poteva essere riempita di aria calda, le cui molecole sono più rarefatte e che quindi, a sua volta, è più leggera dell’aria fredda. Rozier voleva sorvolare la Manica, ma il francese Jean-Pierre Blanchard e l’americano John Jeffries lo precedettero, completando la traversata – nel senso opposto – nel gennaio del 1785. Alla fine Rozier riuscì a organizzare la spedizione, insieme al socio Pierre Romain: partirono il 15 giugno 1785, ma poco dopo il decollo una corrente spinse fuori rotta il pallone, riportandoli più o meno sul luogo di partenza. La mongolfiera prese fuoco, cominciò a sgonfiarsi e a precipitare da un’altezza di 450 metri, schiantandosi al suolo: sia Rozier sia Romain morirono sul colpo, diventando le prime persone nella storia a morire in un incidente aereo. Il re gli diede una medaglia postuma e offrì una pensione alla famiglia, e oggi sul luogo dell’incidente c’è un obelisco in loro memoria. I Rozier, le mongolfiere ibride ad aria calda e a idrogeno, sono utilizzati ancora oggi e portano ancora il suo nome.

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William Bullock

William Bullock nacque nello stato di New York nel 1813, lesse molti libri di meccanica e aprì presto un suo negozio di accrocchi strani, inventando anche una macchina per tagliare le tegole. Cambiò poi diversi mestieri e si trasferì più volte, continuando a inventare vari tipi di macchinari, per esempio per piantare semi o per tagliare cose. Finì a fare il redattore per un giornale di Philadelphia, entrando in contatto con il mondo dell’editoria, e qualche anno dopo cominciò a occuparsi dei torchi per stampare. Si stabilì a Pittsburg e ne progettò un modello innovativo ed efficiente, una rotativa che migliorava l’invenzione originale di Richard March Hoe introducendo l’alimentazione a bobina, invece che a singoli fogli. Con l’invenzione di Bullock non c’era più bisogno di inserire a mano le pagine, che venivano piegate e tagliate in continuazione dalla bobina: la macchina ne stampava 12mila all’ora, e arrivò dopo alcuni miglioramenti a stamparne fino a 30mila.

Il 3 aprile 1867, Bullock stava facendo delle modifiche a una nuova rotativa installata per il Philadelphia Public Ledger. Mentre stava sistemando una cinghia, finì incastrato con la gamba nella rotativa. Si ferì e sviluppò una cancrena. Morì nove giorni dopo, durante un’operazione per amputargli la gamba ferita.

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Alexander Bogdanov

Tra gli sfortunati inventori in questa lista ce n’è solo uno che può anche vantarsi di essere stato un avversario della più importante figura politica del secolo scorso: è Alexander Bogdanov, che fu tra i fondatori del bolscevismo e agguerrito rivale di Vladimir Lenin, fino alla sua espulsione dal partito socialdemocratico russo, nel 1909. Bogdanov fu tra le personalità più importanti per la nascita del comunismo in Russia, e contribuì tra le altre cose all’organizzazione della famosa rapina di Tibilisi, con la quale nel 1907 i primi bolscevichi rubarono allo zar l’equivalente di circa tre milioni di euro di oggi, mentre venivano trasportati da un ufficio postale a una filiale locale della banca di stato, usando bombe e pistole e uccidendo 40 persone, il tutto per finanziare le attività della rivoluzione socialista.

A partire dal 1908, Bogdanov cominciò a scontrarsi con Lenin, e raccolse intorno a sé una corrente interna ai bolscevichi che chiedeva di combattere la rivoluzione contro il potere zarista in maniera clandestina, fuori dalle istituzioni. All’inizio sembrò che la mozione di Bogdanov fosse quella più attraente per i leader bolscevichi, e che avrebbe potuto prevalere: Lenin però si adoperò per screditarlo filosoficamente, pubblicando libretti contro le sue posizioni e riuscendo nel suo intento. Bogdanov fu espulso dal partito. Si trasferì prima a Capri, poi a Bologna, poi tornò in Russia approfittando di un’amnistia concessa dallo zar. Fece il medico durante la Prima guerra mondiale, e fin da subito, dopo la Rivoluzione d’ottobre, fu un critico del bolscevismo di Lenin e della sua leadership, finendo anche con l’essere arrestato perché sospettato di complottare contro il governo.

Oltre all’attività politica, Bogdanov era stato anche uno scrittore di fantascienza tra i più popolari nella Russia zarista, e il suo romanzo La stella rossa, su una comunità socialista su Marte, fu un grande successo. Nel suo saggio Tectologia: Scienza generale dell’organizzazione o scienza delle strutture, Bogdanov provò a sviluppare una teoria che unificasse tutte le scienze, considerandole come un insieme di relazioni che andavano capite per comprendere i principi fondativi di ogni sistema o struttura. La tectologia è considerata una teoria che ha anticipato la cibernetica. Negli ultimi anni di vita, Bogdanov sviluppò una teoria medica singolare, secondo la quale era possibile ringiovanire con delle trasfusioni di sangue. Bogdanov voleva raggiungere l’immortalità, e provò la tecnica su se stesso con diverse trasfusioni, sostenendo di riscontrare miglioramenti nella vista e nella riduzione della calvizie. Il governo sovietico sponsorizzò le sue ricerche, e Bogdanov fondò un istituto che prese poi il suo nome. In una delle trasfusioni che sperimentò, nel marzo del 1928, ricevette però il sangue di un giovane malato di malaria e tubercolosi. Morì dopo una lunga agonia, che documentò giorno per giorno con grande rigore scientifico.

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Alexandr Bogdanov, a sinistra, gioca a scacchi con Vladimir Lenin, durante una visita allo scrittore russo Maksim Gor’kij a Capri nel 1908

Horace Lawson Hunley

Horace Hunley era un avvocato di New Orleans che diventò ingegnere marino durante la Guerra di Secessione americana (le specializzazioni erano piuttosto fluide, in quegli anni). Insieme a James R. McClintock e Baxter Watson si mise a sviluppare un prototipo di sottomarino per i Confederati, cioè la fazione degli stati americani del Sud. Dopo diversi tentativi falliti, misero a punto lo H. L. Hunleyun sottomarino funzionante che poteva viaggiare fino a 4 nodi di velocità, era lungo 12 metri e poteva ospitare fino a 8 membri dell’equipaggio. Nell’agosto del 1863, durante un test, l’ufficiale che guidava la spedizione calpestò per sbaglio il comando che azionava l’immersione del sottomarino, mentre le botole erano ancora aperte. L’ufficiale e altri due membri dell’equipaggio riuscirono a salvarsi, ma altri cinque morirono nell’incidente.

Nell’ottobre dello stesso anno, Hunley decise di unirsi a un test del suo sottomarino: qualcosa andò storto anche in quell’occasione, e lo H.L. Hunley affondò: tutte le persone a bordo morirono, compreso il suo inventore. Il sottomarino fu recuperato anche questa volta, e l’anno successivo fu utilizzato con successo nella distruzione di una nave dell’Unione, la USS Housatonic, il primo affondamento di una nave da parte di un sottomarino. Lo H. L. Hunley e il suo equipaggio, tuttavia, non fecero ritorno alla base. Il relitto fu ritrovato solo nel 1995.

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Sylvester H. Roper

Sylvester Roper era un bambino prodigio: nacque in Vermont nel 1823, e a 12 anni aveva già costruito un piccolo motore a vapore industriale, senza averne mai visto uno dal vivo. Due anni più tardi costruì il motore di una locomotiva, anche in questo caso senza che mai avesse visto una ferrovia. Si stabilì a Boston, dove inventò una macchina da cucire, un motore ad aria calda, alcuni tipi di pistola e di proiettili e soprattutto diversi tipi di veicoli a vapore. Una sua carrozza a vapore fu tra i primi modelli di automobile, mentre il suo velocipede a vapore Roper è considerato la prima motocicletta.

Il primo giugno 1896 Roper aveva già più di 70 anni, ma continuava a perfezionare i suoi velocipedi e a testarli di persona. Quel giorno era alla pista Charles River di Boston, costruita da poco, e stava sfrecciando a oltre sessanta chilometri orari superando i ciclisti professionisti che si stavano allenando sulla pista. A un certo punto, il velocipede cominciò a vacillare e Roper cadde a terra, morto. L’autopsia rivelò che era morto per un arresto cardiaco: non si sa se il malore lo abbia fatto cadere, o se sia stato colpito da un infarto per lo spavento dell’incidente.

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Henry Smolinski

La maggior parte degli inventori morti provando le proprie invenzioni vivevano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e hanno contribuito, chi più chi meno, al progredire della tecnica. Ci sono anche, però, inventori le cui morti hanno reso servizi più marginali alla scienza, e Henry Smolinski fu uno di questi. Nacque nel 1933, studiò ingegneria aeronautica e lavorò in diverse aziende allo sviluppo di aerei e razzi. Negli anni Settanta, però, si fissò sull’idea di costruire la prima automobile volante. Esattamente per questo scopo fondò insieme al suo socio Hal Blake la Advanced Vehicle Engineers. Costruire macchine volanti può sembrare un’idea ambiziosa e concreta, ma l’interpretazione che ne diedero Smolinski e Blake non fu esattamente delle più emozionanti: il loro primo prototipo, l’AVE Mizar, consisteva sostanzialmente in un’auto a cui erano state attaccate due grosse ali, e che quindi poteva decollare e atterrare solo negli aeroporti. Un piccola aeroplano, insomma, solo molto meno sicuro. L’auto scelta come base, poi, era una Ford Pinto, che negli Stati Uniti era conosciuta come “auto assassina”, per l’alta probabilità che aveva di prendere fuoco se tamponata. Una particolare e poco funzionale struttura del telaio, poi, faceva sì che fosse molto facile che in caso di incidente le portiere della Ford Pinto si bloccassero, intrappolando al suo interno i passeggeri. Qualche anno più tardi, la Ford avrebbe richiamato 1,5 milioni di Ford Pinto e Mercury Bobcat difettose, nella più vasta operazione di questo tipo nella storia.

Il prototipo di Smolinski sfruttava sia il motore della Ford Pinto sia quello delle eliche per decollare, accorciando la superficie necessaria per prendere il volo. Una volta in aria, il motore dell’auto veniva spento, e la macchina volava solo con le eliche, guidata con il volante. Smolinski e Blake modificarono il cruscotto della Pinto aggiungendo un altimetro e un indicatore della velocità in nodi. Una volta atterrata, le ali potevano essere smontate, e l’auto guidata normalmente per le strade. I due inventori stavano ottenendo le certificazioni e progettando la vendita dell’auto volante, a una cifra tra i ventimila e i trentamila dollari, ma nell’agosto del 1973 ebbe un problema in volo che costrinse il pilota Charles Janisse a un atterraggio d’emergenza. L’auto non si ruppe e Janisse non si fece male, ma le cose non andarono altrettanto bene pochi giorni più tardi, durante un altro volo di prova. Janisse non poté partecipare e perciò si mise alla guida lo stesso Smolinski, accompagnato da Blake. Poco dopo il decollo, il supporto che teneva orizzontale l’ala destra si ruppe, facendola ripiegare. La Pinto precipitò e si schiantò a terra, uccidendo sia Smolinski sia Blake.

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Aurel Vlaicu

Il secondo aeroporto più importante della Romania porta il nome di Aurel Vlaicu, un ingegnere nato in un piccolo paese della Transilvania che nel 1927 fu rinominato in suo onore. Vlaicu nacque nel 1882 e studiò a Budapest e a Monaco di Baviera, prima di servire nella marina austro-ungarica. Dopo aver lavorato per la Opel e aver costruito il suo primo aliante con il fratello Ion, ottenne un finanziamento dal Ministero della Guerra del regno di Romania per costruire aeroplani. Nel settembre del 1910 Vlaicu pilotò un suo prototipo dalla città di Slatina a quella di Piatra Olt per portare un messaggio, in una delle prime attestazioni di impiego militare di un aereo.

Nel 1912 Vlaicu partecipò a una competizione per aviatori a Vienna (gareggiando peraltro con Roland Garros), vinse diversi premi e continuò le dimostrazioni in Transilvania. Perfezionò due modelli e mezzo di aeroplani, tutti con il suo nome: l’ultimo, il A. Vlaicu Nr. III, non fece in tempo a finirlo, e fu completato dai suoi amici dopo la sua morte, che avvenne il 13 settembre 1913. Vlaicu salì a bordo del suo A. Vlaicu Nr. II, per tentare la prima traversata aerea dei Monti Carpazi. Si schiantò nei pressi della città di Câmpina, non si sa bene perché: forse ebbe un malore, o forse ebbe dei problemi durante l’atterraggio, che a quei tempi si faceva a motore spento.

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