L’ultimo Giro d’Italia vinto da Fausto Coppi
Finì a Milano il 2 giugno del 1953, dopo il primo passaggio sullo Stelvio e una rimonta ritenuta improbabile
Il Giro d’Italia del 1953 partì il 12 maggio da Milano con due grandi favoriti per la vittoria: Fausto Coppi e lo svizzero Hugo Koblet, di sei anni più giovane. Coppi aveva già fatto e vinto molto di ciò che lo rendeva un ciclista unico e un personaggio senza paragoni per l’Italia di quegli anni, tanto da essere soprannominato “il campionissimo”. Nel 1952 aveva vinto per la seconda volta sia il Giro che il Tour de France, ma aveva anche trentatré anni e un fisico che ormai sembrava poter essere tanto eccezionale quanto fragile.
Koblet invece era presentato come uno che «sa di essere bello»: in Italia era soprannominato il “falco biondo” mentre per i francofoni era il “pédaleur de charme“. Ma non era solo biondo e affascinante in bicicletta, andava anche molto forte. Nel 1950 aveva vinto il Giro d’Italia e nel 1951 il Tour de France. Per questo ci si aspettava che fosse lui, più del quasi quarantenne Gino Bartali o del cosiddetto “terzo uomo” Fiorenzo Magni, a poter stare ruota a ruota con Coppi.
Nei primi giorni del Giro del 1953 i giornali italiani erano presi soprattutto dal caso Montesi e dalla campagna elettorale in vista delle vicine elezioni, quelle della cosiddetta “legge truffa”. Come già era successo e come di nuovo sarebbe successo in seguito, le pagine sportive dedicate al Giro passarono invece diversi giorni a lamentarsi di una corsa troppo attendista e noiosa, non più avvincente come un tempo.
C’era chi dava la colpa al maltempo, chi a un percorso mal disegnato e chi a questioni più tattiche, dovute anzitutto all’età di Coppi. Si parlò di un Giro spento «all’insegna del “cercasi scandalo anche usato”» e La Stampa si lamentò di «tappe monotone e prive di combattività, col gruppone eternamente a spasso», chiedendo come rimedio «un percorso meno massacrante», con «tappe più brevi» e con «le estreme difficoltà non raggruppate nei due giorni precedenti l’ultima tappa».
Il Giro del 1953 prevedeva ventuno tappe (due delle quali nello stesso giorno) per un totale di più di quattromila chilometri. Da Milano si scendeva verso l’Adriatico, dopodiché a Napoli e da lì a Roma, in una tappa con arrivo allo Stadio Olimpico nel giorno della sua inaugurazione, poco prima che la Nazionale di calcio ci giocasse la partita che poi perse 3-0 contro l’Ungheria di Ferenc Puskás.
Coppi vinse la quarta tappa con arrivo a Roccaraso, in Abruzzo, ma non riuscì a prendere la maglia rosa e nemmeno a guadagnare secondi su Koblet, che in quella tappa aveva investito accidentalmente una bambina. Nessuno dei due si fece troppo male, ma l’incidente aveva portato Koblet a staccarsi dal gruppo dei suoi principali avversari, i quali, in un gesto parecchio inconsueto per quel ciclismo, si accordarono per rallentare fino ad aspettarne il rientro in gruppo.
La classifica generale fu mossa soprattutto dalla tappa a cronometro con arrivo a Follonica, in Toscana, in cui Koblet staccò Coppi di oltre un minuto e guadagnò un vantaggio ancora maggiore sugli altri pretendenti alla maglia rosa: Bartali, Magni e il francese Louison Bobet. Coppi però era Coppi: Jean, il fratello e compagno di squadra di Bobet che se lo vide sfrecciare accanto durante quella cronometro, disse che «pedalava sull’aria» e fu come «vedere il sole pedalare seduto su una bicicletta».
Senza grandi sconvolgimenti il Giro proseguì fino ad Auronzo di Cadore, in Veneto, dove il 31 maggio partì la diciannovesima tappa. Koblet era sempre in maglia rosa e Coppi secondo con due minuti di ritardo. Tra commentatori e appassionati le posizioni prevalenti erano due: la prima, semplice, era che Koblet fosse più forte; la seconda, più teorica, era che Coppi avesse solo aspettato quel giorno per fare un unico e decisivo attacco. Forse per alimentare ulteriormente il suo mito, ma più probabilmente perché, vista la sua età, preferiva concentrare lo sforzo maggiore in un’unica giornata.
La diciannovesima tappa era corta per gli standard di allora – solo 164 chilometri – ma prima dell’arrivo a Bolzano prevedeva il passaggio accanto al lago di Misurina e poi sui passi dolomitici di Falzarego, Pordoi e Sella. Sarebbe una tappa tra le più difficili anche oggi, e che ancora di più lo era con le strade, i rapporti e le biciclette di settant’anni fa.
Fu una vivacissima tappa di attacchi, difese e contrattacchi tra Coppi e Koblet, con il primo che si avvantaggiava in salita e il secondo che recuperava in discesa. Dopo giorni di attesa, tatticismi e «reciproca guardia» fu infine sfida diretta tra i due più forti. Il Corriere d’Informazione scrisse che fu «una delle più appassionanti battaglie che la storia della bicicletta ricordi», una «titanica lotta» in un giorno in cui «il glorioso libro del ciclismo ha aperto la sua pagina epica». Ma finì in parità, quindi a favore di Koblet.
Dopo essersi staccati, ripresi e ristaccati l’un l’altro, Coppi e Koblet arrivarono infatti insieme a Bolzano, con Coppi che vinse la tappa senza però guadagnare secondi sulla maglia rosa. Si parlò anche della possibilità, come già era consuetudine nel ciclismo, che i due si fossero messi più o meno esplicitamente d’accordo perché Koblet tenesse la maglia e Coppi si accontentasse invece della vittoria di quella prestigiosa tappa.
Prima dell’ultima tappa da Bormio a Milano, senza salite e difficilmente decisiva, ne restava però un’altra: la penultima, da Bolzano a Bormio, con in mezzo i 2.758 metri d’altezza del Passo dello Stelvio, su cui il Giro d’Italia sarebbe passato per la prima volta.
Ma era difficile pensare che Coppi potesse ribaltare il Giro su e giù dallo Stelvio. Perché aveva appena tentato e fallito il suo grande attacco, perché la diciannovesima tappa aveva mostrato che Koblet poteva recuperare in discesa il tempo perso in salita e perché fin lì si era semplicemente mostrato migliore di Coppi, già descritto come un «vecchio campione che ha di fronte un asso, un uomo in smaglianti condizioni di forma con l’incalcolabile vantaggio della giovinezza».
Più di ogni altra cosa, però, Coppi dava l’impressione di essere rassegnato. Per come e quanto si era complimentato con Koblet dopo Bolzano, ma anche perché c’era chi riteneva che l’ipotetico accordo tappa-per-maglia di Bolzano si potesse estendere anche a una sorta di generale accordo di non aggressione nella tappa dello Stelvio.
È impossibile ricostruire con certezza quel che successe a Bolzano tra l’arrivo di una tappa e la partenza di un’altra, ma esistono diverse versioni, alimentati negli anni da giornalisti e compagni di squadra; e quasi mai, invece, da Coppi o Koblet. Una versione è che Coppi ci rimase male per certe baldanzose dichiarazioni di un compagno svizzero di Koblet (allora si correva divisi per Nazionali). Una sostiene che Koblet festeggiò troppo dopo l’arrivo di Bolzano; un’altra dice che invece aveva esagerato con alimenti o sostanze stimolanti; un’altra ancora sosteneva che Koblet passò semplicemente una nottataccia (forse preoccupato dall’altitudine dello Stelvio, visto che in passato aveva sofferto simili altitudini) e che di quella nottataccia si accorse la mattina successiva un compagno di squadra di Coppi, dopo aver visto Koblet togliersi gli occhiali per una fotografia, e svelare così le occhiaie.
Non si sa insomma se Coppi avesse sempre voluto provarci sullo Stelvio, se si convinse nella notte per qualche motivo, se fu convinto da qualcuno o se – altra teoria – aveva effettivamente fatto un patto ma trovò un modo di aggirarlo, chiedendo cioè a un altro corridore che gli doveva una sorta di favore, Nino Defilippis, di attaccare lui sullo Stelvio, nella speranza che Koblet lo seguisse, e che Coppi potesse quindi attaccare a sua volta, dato che in quel caso si sarebbe potuto considerare sciolto ogni precedente patto.
Ma si sa solo cosa accadde: Defilippis attaccò, Koblet lo seguì, Coppi lì seguì e riuscì a staccarli entrambi arrivando in cima allo Stelvio con quasi cinque minuti su Koblet. Pur avendo diversi problemi, alcuni dei quali forse legati a una delle teorie sul perché Coppi lo attaccò, in discesa Koblet recuperò qualcosa, ma non abbastanza. Coppi arrivò a Bormio tre minuti e mezzo prima di lui, prendendosi così la maglia rosa.
Il 2 giugno, con una volata vinta da Magni al velodromo Vigorelli di Milano, finì quel Giro d’Italia, il quinto e ultimo vinto da Coppi, a tredici anni dal primo, vinto a ventun’anni appena prima che per l’Italia iniziasse la Seconda guerra mondiale. Solo un giorno prima, la mattina del primo giugno, per lui si era parlato di passaggio di testimone, di resa, del suo «8 settembre».
Non è chiaro se, come e quanto, nelle ore e nei giorni dopo la corsa, Koblet se la prese con Coppi: i giornali di allora parlarono di polemiche, fastidi e incomprensioni, ma in seguito i due non alimentarono né mai tornarono nel dettaglio sulla fine di quel Giro. Koblet era «gran campione e caro amico», disse Coppi, che ringraziò molto i compagni: «sono riusciti a infondermi quel po’ di fiducia che mi mancava per il colpo finale».
Ad agosto Coppi vinse anche il Mondiale su strada, l’unica grande corsa che gli mancava e che lo mette in un esclusivo pantheon di vincitori di tutte le più importanti gare ciclistiche. Disse di non voler più fare grandi corse a tappe ma solo corse di un giorno – «i Giri li farò in automobile» – ma tornò a farne: nel 1955 arrivò secondo al Giro a tredici secondi da Magni; nel 1958 corse il suo ultimo Giro e nel 1960 morì di malaria.
Koblet finì un altro Giro al secondo posto nel 1954, anno della prima “fuga bidone” del ciclismo. Si ritirò trentaquattrenne nel 1959 e morì in un incidente stradale nel 1964.
Lo Stelvio, che prima di quel Giro era stato presentato come la “montagna di troppo”, come una sfida troppo estrema per il ciclismo, è tornato nel Giro altre dodici volte. E dal 1965 la montagna più alta toccata ogni anno dal Giro d’Italia è nota come Cima Coppi, e da allora lo Stelvio è sempre stata la Cima Coppi di tutti i Giri che ci sono passati.
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