Perché non mangiamo tanto i fiori

Principalmente perché ci sono parti delle piante più sostanziose, ma l’uso dei fiori commestibili è stato limitato anche da ragioni pratiche e culturali

fiore di zucca
Un fiore di zucca in un laboratorio a Doorn, nei Paesi Bassi (Pierre Crom/Getty Images)
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Nelle settimane scorse un video di una ricetta a base di glicine fritto pubblicato da una popolare foodblogger ha generato una discussione sulla tossicità di questa diffusa pianta ornamentale, e più in generale sulla stranezza che suscita in molti l’atto di mangiare dei fiori. Non è la prima volta che i petali del glicine sono trattati come qualcosa di commestibile in ricette e video condivisi online (un anno fa l’aveva fatto il cantante Jovanotti), ma esiste almeno una fonte molto autorevole che sostiene che la pianta sia tossica in tutte le sue parti, in particolare i semi e i baccelli.

Glicine a parte, ci sono alcuni fiori – i cosiddetti fiori edibili – che sono da tempo utilizzati in cucina, ma pur contenendo sostanze utili il loro utilizzo rimane comunque piuttosto limitato. Rispetto a verdure, frutta, radici, semi e erbe infatti i fiori sono generalmente una cosa abbastanza estranea alla nostra dieta. Non li mangiamo quasi mai: prima di tutto, e banalmente, perché nella larghissima maggioranza dei casi sono il risultato di selezioni e coltivazioni secolari che non hanno questo obiettivo, bensì fini ornamentali. Secondariamente perché anche nel caso delle coltivazioni a scopo alimentare il fiore, se presente e commestibile, non è comunque la parte più “utile” della pianta, perché di solito non è la più sostanziosa.

Della pianta del cece, per esempio, mangiamo i semi (i ceci) perché sono un’ottima fonte proteica: che è la ragione per cui la coltivazione di questa pianta – che produce anche piccoli fiori bianchi, rosei o rossi, solitari o in piccoli gruppi – è tra le più antiche al mondo. Della cipolla, che produce fiori viola o bianchi talvolta utilizzati come ornamento, la parte utilizzata in cucina è il bulbo, che viene raccolto prima della fioritura. Del carciofo mangiamo la base dell’infiorescenza (capolino) prima che la pianta produca i suoi tipici fiori viola. E del cappero mangiamo i boccioli prima che si sviluppino in un tipico fiore bianco con stami filamentosi (ma ne mangiamo anche il frutto, chiamato “cucuncio”, che ha un sapore simile a quello del cappero).

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Queste considerazioni di fondo non hanno impedito che anche i fiori di alcune verdure da orto – coltivate quindi per essere mangiate – diventassero parte della tradizione culinaria di molte regioni. Il più noto è il caso dei fiori della zucca e della zucchina, che sono sessuati e di cui si consiglia di raccogliere soltanto alcuni esemplari maschili e non quelli femminili, dalla cui base ha poi origine il frutto.

Ma in generale molte ricette tradizionali che prevedono l’utilizzo di fiori commestibili derivano da contesti storici, sociali e culturali in cui, più che una prelibatezza, quei fiori erano parte da non scartare degli alimenti disponibili in un determinato ambiente. Ed è un discorso che vale anche per molte piante selvatiche, come la cicoria (le cui foglie sono comunque raccolte di solito prima della fioritura, per evitare che diventino troppo amare).

In alcuni casi storici particolari anche alcuni fiori coltivati per scopo ornamentale sono diventati una risorsa da cui trarre un alimento di emergenza. Jose Miguel Soriano del Castillo e Inmaculada Zarzo Llobell, un ricercatore e una ricercatrice del dipartimento di medicina dell’Universitat de València, hanno raccontato sul sito The Conversation come i bulbi di tulipano furono utilizzati nei Paesi Bassi per la preparazione di zuppe durante la grave carestia affrontata verso la fine della Seconda guerra mondiale.

Alla fine del 1944, quando gli Alleati giunsero nei Paesi Bassi per liberarli dall’occupazione nazista, il sistema dei trasporti ferroviari e fluviali del paese subì prolungati rallentamenti, che limitarono la disponibilità di risorse alimentari soprattutto nelle aree urbane occidentali. Da maggio del 1944 a febbraio del 1945 il consumo calorico passò da 1.800 a 500 calorie al giorno a persona, e tra 20 e 25 mila persone morirono per i danni e le malattie provocate dalla malnutrizione, tra cui asma, anemia e ittero. Tra le persone che svilupparono problemi di salute, come ebbe poi modo di raccontare, ci fu anche l’attrice Audrey Hepburn, che all’epoca viveva nei Paesi Bassi, ad Arnhem, ed era una giovane ballerina di sedici anni.

In cerca di un cibo che fosse disponibile e nutriente, le autorità politiche e sanitarie del paese decisero di utilizzare un’ampia riserva di bulbi non piantati di tulipano, le cui coltivazioni erano state interrotte in quella fase della guerra. Una zuppa a base di bulbi di tulipano tagliati a metà, privati del germoglio e grattugiati, la cui ricetta fu pubblicata su diverse riviste locali, diventò parte dell’alimentazione quotidiana di moltissime persone.

Il problema dei tulipani, come hanno scritto Soriano del Castillo e Zarzo Llobell, è un allergene – la tulipalina A – presente principalmente nello strato esterno del bulbo, ma anche nello stelo, nelle foglie e nei petali. Provoca dermatiti comuni e ben note a chi si occupa di floricoltura, e in alcuni casi di studio l’ingestione di bulbi di tulipano è stata individuata come causa di avvelenamento tra i bovini. I pericoli per la salute nel mangiare bulbi di tulipano dipendono dalla varietà (solo alcune sono commestibili), dal modo in cui sono cucinati (mangiarli crudi può dare comunque diversi problemi) e dalla quantità ingerita: ragioni per cui in ambito gastronomico sono utilizzati in misura limitata e con cautela.

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Proprio perché forniscono poco in termini di sostanze nutritive, come spiegato nel 2021 dalla critica gastronomica statunitense Ligaya Mishan in un articolo sul New York Times, i fiori edibili sono generalmente utilizzati in cucina, e soprattutto nell’alta ristorazione, non come portata principale ma per i profumi che aggiungono ad altre pietanze. E sono stati utilizzati perlopiù in questo modo anche in passato, negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa.

Una particolare combinazione di erbe e fiori tra cui violette e garofani, per esempio, è da secoli alla base della ricetta della Chartreuse, un liquore francese originariamente prodotto da monaci certosini del Seicento. In quello stesso secolo Cosimo III de’ Medici, penultimo granduca di Toscana della dinastia dei Medici e gran consumatore di cioccolato, ordinò alla sua corte di ideare una ricetta segreta che assecondasse i suoi gusti. Lo studioso aretino Francesco Redi ne elaborò una a base di gelsomino, i cui fiori dovevano essere cambiati ogni giorno con fiori freschi ed essere mescolati alle fave di cacao tritate grossolanamente, alla vaniglia, alla cannella e ad altri ingredienti.

Erano tutti ingredienti comunque molto costosi: una caratteristica dell’uso gastronomico dei fiori che secondo Mishan è rimasta tendenzialmente immutata nel tempo. Una delle spezie più care al mondo, lo zafferano, è ricavata dallo stigma – la parte che riceve il polline durante l’impollinazione – del fiore della pianta nota come zafferano vero (Crocus sativus). Ci sono soltanto tre stigmi per fiore, e per produrre un chilo di zafferano, che può facilmente arrivare a costare anche 12 mila dollari, serve raccogliere e poi far seccare decine di migliaia di fiori.

L’utilizzo dei fiori in cucina è simile per molti aspetti a quello delle erbe aromatiche, disse a Mishan l’esperta di aromi Cheryl Udzielak, responsabile dei laboratori di Chicago dell’azienda svizzera Givaudan, il più grande produttore mondiale di fragranze e profumi. Ma rispetto alle erbe i fiori sono più difficili da dosare, perché «non lasciano molto spazio per gli errori» ed è molto facile che una certa quantità dia un certo aroma e una quantità minore o maggiore ne dia uno diverso.

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L’interesse per i fiori edibili, a volte accresciuto da semplice curiosità e a volte dal desiderio di trovare alternative alimentari più sostenibili, è stato in anni recenti anche oggetto di perplessità e preoccupazioni. Secondo diversi esperti questo interesse potrebbe accrescere in alcuni casi i rischi di ingerire fiori che in realtà non sono commestibili e sono potenzialmente mortali, o altri che pur essendo teoricamente commestibili non provengono da coltivazioni per uso alimentare (e quindi possono contenere pesticidi specifici e altre sostanze pericolose se ingerite).

Proprio per evitare ogni ambiguità tra fiori usati come ornamento e fiori che si possono mangiare è generalmente vietato nell’alta ristorazione presentare nel piatto cibi che non siano commestibili, fiori inclusi. Secondo lo chef inglese Stephen Harris, una delle ragioni per cui la presenza dei fiori nei piatti è generalmente aumentata in anni recenti è il semplice fatto che hanno un bell’aspetto e rendono quindi i piatti buoni per Instagram e per le copertine delle riviste. «Ma dovrebbe esserci una valida ragione per tutto ciò che finisce su un piatto», scrisse nel 2019.

Harris definì superficiale la tendenza a utilizzare i fiori come ornamento: «Mi fa temere che non ci vorrà molto prima che torniamo a intagliare i limoni per farne cigni con cui “guarnire” il piatto». Di questa tendenza e della possibile ambiguità tra cosa sia commestibile e cosa no sembra peraltro consapevole anche la clientela. Spesso infatti i fiori rimangono nel piatto a fine pasto e non vengono mangiati, scrisse, sebbene gli chef che ne fanno uso li utilizzino per gli aromi e i sapori richiesti dalle ricette, non per abbellimento.