Milano è una città pericolosa per chi va in bici?

Se ne riparla dopo alcuni incidenti mortali avvenuti in pochi mesi: di certo la sicurezza di chi va in bici o a piedi non è aumentata molto

di Luca Misculin

(ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)
(ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)
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Giovedì mattina a Milano una donna di 39 anni, Cristina Scozia, è stata uccisa mentre pedalava in bici in pieno centro. Una betoniera l’ha investita a un incrocio a poche centinaia di metri dal Duomo, in corso di Porta Vittoria. È la terza persona in pochi mesi che muore mentre circola in bici per un incidente con un mezzo pesante, e da mesi le associazioni di ciclisti abitudinari sostengono che il Comune e le altre istituzioni non stiano facendo abbastanza per prevenire ulteriori incidenti di questo genere.

«Non sono casi isolati, parliamo di una situazione effettivamente ingestibile e molto pericolosa» dice Davide Maggi, attivista per i diritti dei ciclisti e membro di Assobici, l’associazione di categoria dei negozi che vendono biciclette.

Lunedì una sessantina di piccole e medie associazioni hanno organizzato una manifestazione davanti al municipio per chiedere misure concrete per la sicurezza di chi gira in bicicletta, mentre giovedì, poche ore dopo la morte di Scozia, un piccolo corteo ha sfilato in bicicletta sotto la pioggia fino al punto dell’incidente, davanti alla Biblioteca centrale Sormani. Nel punto in cui è morta Scozia oggi qualcuno ha sistemato dei fiori.

La protesta davanti al municipio (Valentina Lovato/Il Post)

Il dibattito sulla sicurezza per chi circola in bicicletta riemerge periodicamente in città, ma negli ultimi anni si è decisamente allargato. Nei primi mesi della pandemia il Comune di Milano, governato da Beppe Sala e dal centrosinistra, aveva promosso un piano per costruire decine di nuovi tratti di piste ciclabili. I generosi bonus del governo Conte per comprare una nuova bicicletta avevano fatto il resto: fra il 2019 e il 2021 il numero di persone che gira in bicicletta in città è molto aumentato, come testimoniano diversi dati e i pareri delle associazioni di ciclisti. Di conseguenza sono aumentate anche le persone interessate alla sicurezza dei ciclisti.

Girare in bicicletta a Milano è possibile perché la città non è particolarmente grande ed è quasi tutta in piano, a differenza per esempio di Roma o Genova. Al contempo però è complicato dalla presenza di molte strade centrali piastrellate con il pavé – grossi ciottoli squadrati particolarmente insidiosi per i ciclisti – oltre a rotaie del tram e una gran quantità di automobili, fra corsie multiple e parcheggi. A Milano è immatricolata un’auto ogni due abitanti, una media in linea con le principali città italiane ma decisamente superiore alle metropoli europee a cui si ispira, per modello di sviluppo e convivenza sociale. Già nel 2012 Copenhagen, la capitale della Danimarca, ne aveva 23,7 ogni 100 abitanti.

La sensazione di molti, fra addetti ai lavori e attivisti, è che dal 2020 in poi sempre più milanesi stiano usando la bicicletta per spostarsi in città. E che la città e la sua amministrazione non siano ancora riuscite ad adeguarsi a questo cambiamento tutto sommato repentino, nonostante gli sforzi fatti finora.

Una protesta sul Ponte della Ghisolfa (Valentina Lovato/Il Post)

Per decenni Milano è stata una città pensata e sviluppata per la circolazione dell’automobile. Le amministrazioni di centrodestra, che hanno governato dal 1993 al 2011, si interessarono poco o nulla a chi circolava in bicicletta. Negli anni la posizione dei partiti di destra non è cambiata. Nella campagna elettorale per le elezioni comunali del 2022 Forza Italia appese uno striscione per difendere i diritti degli automobilisti in corso Buenos Aires, la principale via commerciale della città. Dirigenti e militanti di Fratelli d’Italia si fecero fotografare mentre facevano finta di martellare la pista ciclabile che passa accanto al marciapiede.

Negli ultimi dieci anni la situazione è migliorata grazie ad alcuni investimenti mirati delle amministrazioni di centrosinistra, prima con Giuliano Pisapia e poi con Beppe Sala. Attualmente sono disponibili poco più di 300 chilometri di tracciati ciclabili in tutta la città, il quadruplo di quelli disponibili fino a quindici anni fa. Molte delle rastrelliere pubbliche per biciclette sono state posate negli ultimi anni. Il servizio di bike sharing comunale, BikeMi, è il più grande e attrezzato in Italia.

La mappa aggiornata delle piste ciclabili a Milano, segnate in blu (Comune di Milano)

Milano resta comunque piuttosto indietro rispetto alle altre città europee su vari parametri. Su tutte i chilometri di pista ciclabile in rapporto agli abitanti: un rapporto del 2022 della campagna Clean Cities stima che a Milano ci siano 2,1 chilometri di piste ciclabili ogni 10mila abitanti, molti meno rispetto a città come Stoccolma (9,6 chilometri), Lione (5,1), Vienna (4,5) ma anche alla media dei capoluoghi italiani, che è di 2,8 chilometri.

A una fase di grande slancio, che ha raggiunto il picco fra il 2020 e il 2021, sembra sia seguita una fase più interlocutoria. «Sul fronte della mobilità ciclabile è arrivata una fase di consolidamento, se non proprio di rallentamento» ammette Marco Mazzei, consigliere comunale eletto con la lista civica di Sala e da anni punto di riferimento per la comunità dei ciclisti. «Anche io ho colto l’impressione, da parte di molti, che si sia improvvisamente fermato tutto: ma è vero fino a un certo punto».

In giro per la città si stanno costruendo vari tratti di corsie o piste ciclabili, cercando soprattutto di unire tratti costruiti in maniera autonoma l’uno dall’altro: fino a pochi anni fa era questo il principale problema delle ciclabili a Milano. Di recente il consiglio comunale ha approvato un ordine del giorno proposto proprio da Mazzei che invita Sala a istituire un limite di velocità in tutta la città a 30 chilometri orari entro il 2024, per tutelare ciclisti e pedoni. Mazzei ricorda anche che l’amministrazione si è impegnata a pedonalizzare i piazzali davanti a 90 scuole pubbliche entro la fine del suo mandato.

Anche secondo Mazzei, ovviamente, rimangono parecchi problemi. Una recente analisi del Corriere della Sera ha stimato che negli ultimi dieci anni gli incidenti stradali a Milano siano diminuiti, ma che in proporzione abbiano riguardato una quota maggiore di pedoni (l’elemento più assimilabile ai ciclisti). Fra il 2002 e il 2011 i pedoni morti per incidenti stradali a Milano erano stati 238, il 34 per cento del totale. Fra il 2012 e il 2021 sono stati 164, ma la percentuale è salita al 41 per cento.

Secondo una stima dell’Osservatorio Asaps (Associazione Sostenitori e Amici della Polizia Stradale) nei primi otto mesi del 2022 a Milano ci sono stati 1.214 incidenti stradali che hanno coinvolto biciclette, monopattini elettrici e altri veicoli. Milano è di gran lunga la prima città di questa classifica: al secondo posto c’è Roma, con meno della metà di incidenti di questo tipo, 524.

Dall’inizio del 2022 un gruppo di attivisti ha tenuto traccia di tutti gli incidenti gravi e mortali avvenuti a Milano che hanno coinvolto pedoni e ciclisti, sulla base degli articoli pubblicati dai giornali locali. Nel 2022 a Milano sono morte tre persone che stavano circolando in bicicletta: Mohanad Moubarak, Silvia Salvarani, Luca Marengoni. Nei primi quattro mesi del 2023 sono già stati due, Veronica D’Incà e Cristina Scozia, e un uomo in monopattino elettrico, Juan Carlos Quinga Guevara. Per avere un termine di paragone: a Londra nel 2021 sono morti 10 ciclisti per incidenti stradali, un numero peraltro più alto rispetto agli anni precedenti. Sono poco più del triplo dei morti di Milano, eppure Londra ha sette volte gli abitanti di Milano.

C’è chi sostiene che la ragione di questi dati abbia a che fare con una certa remora del Comune, che per evitare di prendere misure impopolari contro le persone che si spostano in auto, ossia la maggioranza, non sanziona adeguatamente comportamenti che rendono la città molto più pericolosa per chi si sposta in bicicletta: per esempio la sosta sulle corsie o le piste ciclabili.

«Se vado in auto a Lugano, in Svizzera, non mi sognerei mai di lasciare la macchina in doppia fila. Se vado in auto in via Torino, in centro a Milano, la macchina la posso lasciare eccome» sostiene Maggi. «Evidentemente è un comportamento che qui viene tollerato». È un problema che riguarda soprattutto le ciclabili delle vie più ampie della periferia. La corsia ciclabile di viale Monza, per esempio, è stata realizzata durante la pandemia in una delle vie principali che collegano Milano con alcuni dei suoi quartieri più densamente abitati, ed è diventata rapidamente una delle più utilizzate della città. Eppure di mattina e pomeriggio è sistematicamente ostacolata dalle auto private in sosta e dai furgoni delle ditte di consegna a domicilio. Aggirare auto e furgoni è complicato e molto rischioso, per un ciclista, dato che deve sconfinare nel tratto di strada più trafficato, cioè il lato destro della corsia.

«Quella che riguarda la logistica è una delle questioni più grandi e complicate» spiega Mazzei. Gli autisti dei furgoni delle consegne a domicilio lavorano spesso in condizioni estreme, con stipendi molto bassi e centinaia di consegne al giorno: per questo spesso parcheggiano frettolosamente appena trovano posto, sui marciapiedi o sulle piste ciclabili (le aree di carico e scarico sono poche, inadeguate o a volte occupate dalle macchine). Non esistono soluzioni semplici: Mazzei propone per esempio di creare specifiche aree di carico e scarico, una per quartiere, da cui poi gli autisti possano spostarsi soltanto con carrelli o piccoli mezzi elettrici, come per esempio succede già a Malaga, in Spagna. Ma una soluzione del genere prevede probabilmente lunghi e complessi negoziati con le potenti aziende della logistica, senza alcuna garanzia di trovare un compromesso.

Proprio sulla ciclabile di viale Monza a metà novembre è stata organizzata la cosiddetta “ciclabile umana”: decine di persone si sono date la mano e hanno protetto col proprio corpo la pista ciclabile dalla carreggiata dove passano le automobili. Fra le organizzazioni promotrici dell’iniziativa c’era Sai che puoi?, un’associazione nata da un paio d’anni ma già diventata piuttosto influente nella vita pubblica della città.

«Nell’ultimo anno siamo arrivati ad organizzare una quindicina di iniziative sulla mobilità sostenibile, praticamente una ogni tre settimane» spiega Tommaso Goisis, fra i promotori dell’associazione. «Cerchiamo di avere un modo molto inclusivo di manifestare, che non si fermi mai alla protesta ma includa anche una proposta. Cerchiamo sempre di partire da numeri e dati, di portare esempi di città italiane ed europee in cui quello che chiediamo è già avvenuto».

È una modalità nuova e diversa rispetto a un tipo di protesta che a Milano è sempre esistita, legata soprattutto alla sinistra extraparlamentare, e che in sostanza si oppone a qualsiasi opportunità di sviluppo urbanistico della città: no all’Expo, no alle Olimpiadi invernali, no alla trasformazione degli Scali ferroviari, no alla costruzione di vasche per arginare il fiume Seveso, e così via.

Un’altra associazione che si è spesa molto per una causa propositiva, negli ultimi mesi, è stata Non vediamo l’ora. È un gruppo di alcune decine di persone che hanno organizzato manifestazioni e campagne pubbliche affinché l’amministrazione Sala rispettasse la promessa di costruire una pista ciclabile sul cosiddetto Ponte della Ghisolfa, che unisce due popolosi quartieri a nord, il Portello e Dergano (ne abbiamo scritto più volte nella newsletter del Post su Milano, Colonne).

Una manifestazione di Non vediamo l’ora (pagina Facebook di Non vediamo l’ora)

Per le loro modalità poco belligeranti, ovviamente, le proteste di Sai che puoi? e di Non vediamo l’ora sono assai gestibili per l’amministrazione comunale, che lunedì ha incontrato una delegazione di associazioni organizzatrici della manifestazione cercando di capire quali fossero le loro richieste.

Goisis di Sai che puoi? racconta che l’incontro non è stato esattamente risolutivo: su alcuni temi le assessore Arianna Censi ed Elena Grandi, che hanno la delega rispettivamente alla Mobilità e all’Ambiente, hanno fornito alcune risposte, come per esempio sulla data in cui finiranno i lavori per la nuova pista ciclabile della Ghisolfa (il 2025) o il numero delle scuole che parteciperanno alla pedonalizzazione da qui al 2026.

Su altre questioni sono state più vaghe: per esempio su quali e quante piste ciclabili verranno realizzate da qui alla fine del mandato, o su come e quando la giunta intenda realizzare la Città 30 auspicata dal consiglio comunale. Per ricevere un segnale di disponibilità del Comune, Goisis spiega che Sai che puoi? si attende qualche passo concreto: la creazione di un sito che spieghi lo stato di avanzamento della costruzione di piste ciclabili, il dispiegamento di membri della polizia locale che sorveglino in bicicletta le piste ciclabili (proposta di cui a Milano si parla da anni, con pochi sviluppi concreti), impegni più precisi sulla Città 30.

Mazzei invece nei prossimi giorni discuterà un ordine del giorno al consiglio comunale che prevede una maggiore regolamentazione per i molti mezzi pesanti che girano per la città, per via dei moltissimi cantieri pubblici e privati che ormai caratterizzano interi quartieri. Sia Cristina Scozia sia Veronica D’Incà sono state uccise con una dinamica simile, cioè investite da mezzi pesanti i cui autisti verosimilmente non le avevano viste.

L’ordine del giorno di Mazzei propone di limitare l’accesso ad Area B, cioè la grande area che circonda il centro storico e che compone il 72 per cento di tutto il territorio comunale, ai mezzi pesanti che dispongono di sensori per accorgersi di pedoni o ciclisti nei cosiddetti angoli ciechi: quei punti che lo sguardo dell’autista non riesce a raggiungere con gli specchietti. A Londra, per esempio, ci sono regole severissime per l’ingresso di mezzi pesanti in città, proprio per proteggere pedoni e ciclisti. Già nelle prossime settimane il Comune potrebbe emanare regole simili con una delibera, e anche Sala si è detto favorevole a migliorare queste norme: bisognerà capire se prima il Comune vorrà dare tempo alle aziende in questione di adeguarsi, e se il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, sarà d’accordo.