Milano ha un’occasione storica

La città sta negoziando un accordo per riqualificare una zona enorme ai confini del centro: quella attualmente occupata dagli antichi scali ferroviari

di Luca Misculin – @lmisculin

Parte dello scalo ferroviario di Lambrate, Milano, 4 marzo 2017 (LaPresse - Stefano Porta)
Parte dello scalo ferroviario di Lambrate, Milano, 4 marzo 2017 (LaPresse - Stefano Porta)

Quella del 2015 per Milano fu un’estate particolare: il centro della città era più pieno del solito per via dei turisti arrivati per EXPO, e da poche settimane aveva riaperto al pubblico la Darsena, uno dei più antichi porti della città, trasformato in una lunga passerella pedonale. Poco lontano dalla Darsena, in quei mesi, fu attivo uno dei posti che i milanesi ricordano con più piacere di quell’estate un po’ strana: il Mercato Metropolitano, una via di mezzo fra una fiera culinaria e un grosso locale all’aperto dove per mesi si alternarono decine di piccoli stand che vendevano piatti di pasta, gelati, pizze, panini, cibi etnici, birre artigianali, e migliaia di clienti. Il Mercato chiuse quell’autunno, e non ha più riaperto per una brutta storia di debiti mai saldati. Lo spazio di circa 15mila metri quadrati dove era stato costruito non è più stato utilizzato, anche se da fuori si vedono ancora i tendoni bianchi degli stand all’aperto, malinconicamente sporchi di polvere e pioggia.

Lo spazio che ha ospitato il Mercato Metropolitano non è un luogo qualunque, e c’è una ragione precisa per cui non è più stato utilizzato. Non è di proprietà del comune ma di Ferrovie dello Stato, cosa che rende difficile occuparlo con qualcosa di stabile: fa parte infatti di una rete di scali ferroviari – cioè posti che un tempo venivano usati per caricare e scaricare i treni merci – che da anni sono al centro di negoziati e progetti per la loro futura riqualificazione. Il Mercato Metropolitano sorgeva su una parte dell’ex scalo ferroviario di Porta Genova, che a sua volta occupa solo una piccola parte delle aree dismesse in tutta Milano: per questo, quando si parla della loro riqualificazione, qualcuno ha paragonato la portata di questi progetti agli sforzi di ricostruzione del Secondo dopoguerra. Se avverrà, quando avverrà, la riqualificazione degli scali ferroviari sarà la più grande operazione di cambiamento della città da moltissimi anni a questa parte.

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Grazie alla sua posizione e alla sua rilevanza commerciale, Milano è sempre stata un importantissimo crocevia ferroviario. Già alla fine dell’Ottocento si poteva prendere un treno a Torino e scendere a Venezia grazie alle linee costruite per collegare le città del nord Italia. Tutte le linee più importanti che trasportavano merci e passeggeri passavano inevitabilmente per Milano, che disponeva di diversi scali da cui scaricare e caricare i treni.

La ferrovia aveva un ruolo così importante nella vita della città che nel 1912 il comune avviò uno dei progetti urbanistici più ambiziosi dell’epoca: spostò la maggior parte del tracciato ferroviario verso l’esterno per far sì che la ferrovia raggiungesse i nuovi quartieri residenziali e industriali della periferia, smantellando la Stazione Centrale esistente. Nel corso degli anni Trenta la rete divenne più o meno quella di oggi: furono realizzate la nuova Stazione Centrale e gli scali per le merci di Lambrate, Farini, Greco e Rogoredo. Milano era diventata la capitale ferroviaria del Nord Italia.

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A sinistra, la rete di Milano fra 1860 e i primi del Novecento: a destra, la rete nel 1970. La macchia bianca rettangolare è il Parco Sempione, in grigio scuro ci sono le principali stazioni e gli scali

Dopo molti anni di relativo funzionamento, a un certo punto sono successe due cose: la prima è che dagli anni Settanta in poi Milano ha progressivamente perso la sua vocazione industriale  – che richiedeva un flusso continuo, in entrata e in uscita, di materie prime e prodotti finiti – a favore dello sviluppo del settore terziario. Decine di aziende, come la Ansaldo, hanno dovuto chiudere le loro fabbriche milanesi, o trasferirsi altrove. La seconda è che l’Italia, nonostante una sviluppatissima rete ferroviaria, ha scelto di privilegiare il trasporto merci su gomma piuttosto che su rotaia: secondo una recente stima di Eurostat, dal 2000 a oggi la quota di merci trasportate su ferro nel mercato interno è stata stabile intorno al 10 per cento, con un lievissimo aumento negli ultimi anni (la media europea è del 17,8 per cento). La quota complessiva, su cui non esistono calcoli precisi, è stimata intorno al 6 per cento. La combinazione di questi due fattori ha reso evidente che la decina di scali merci presenti in città era ormai diventata obsoleta: Milano se la cava con un unico scalo attivo, situato nei pressi dell’aeroporto di Linate. Tutti gli altri scali sono aree chiuse, inutilizzabili e spesso degradate che qualcuno ha definito una “ferita” nella città.

Milano non è l’unica città ad aver subìto un cambiamento del genere: simili processi di riqualificazione sono già avvenuti a Monaco di Baviera e Lione, per restare in Europa. Anche Ferrovie dello Stato, l’azienda a partecipazione statale che gestisce il traffico ferroviario italiano, controlla da molti anni un’azienda che si chiama FS Sistemi Urbani e si occupa del patrimonio immobiliare “non funzionale all’esercizio ferroviario”, quindi da dismettere. Il suo amministratore delegato Carlo De Vito, parlando del caso di Milano con il Post, non ne fa un dramma: «La città si muove, la ferrovia segue le indicazioni». Eppure il caso di Milano è unico in Italia, per posizione e superficie delle aree dismesse: sono stati individuati sette scali ormai abbandonati, quasi tutti a ridosso del centro, che il comune vorrebbe ottenere da Ferrovie dello Stato e successivamente riqualificare.

Il più grande è quello di Farini, a nordovest della città, nei dintorni del quartiere di Isola, uno dei più popolari degli ultimi anni; quelli di Porta Genova, Porta Romana e San Cristoforo appartengono a zone residenziali appena fuori dal centro; gli scali di Lambrate e Rogoredo sono situati in zone un po’ problematiche, e in cerca di riqualificazione. Lo scalo di Greco è attaccato al quartiere più attivo nel nord della città, Bicocca. Insieme, coprono una superficie di un milione e 250mila metri quadrati, cioè quanto 170 campi da calcio. Buona parte delle persone che abitano nella fascia compresa fra il centro e l’estrema periferia – più di un milione – saranno interessate dalla riqualificazione di uno di questi scali, che avverrà di fatto dietro casa loro. Pierfrancesco Maran, assessore all’Urbanistica di Milano, ha definito più volte la riqualificazione degli scali ferroviari «un’occasione straordinaria» per lo sviluppo della città a lungo termine. Il paragone con la ricostruzione avvenuta nel Dopoguerra è invece di Carlo Monguzzi, storico leader ambientalista di Milano e oggi presidente della commissione Ambiente e Trasporti del Comune.

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Questa storia, nonostante le premesse, è comunque intricata: da una parte c’è il comune, interessato a riqualificare un’area enorme a ridosso del centro della città, che però non gli appartiene; dall’altra c’è una società per azioni – Ferrovie dello Stato – interessata a un accordo ma anche a guadagnare qualcosa (“legittimamente”, precisano dal comune). In mezzo ci sono i milioni di persone che abitano o frequentano Milano, con le loro aspettative e proposte, non sempre conciliabili e con i piani di Ferrovie e comune. Per queste ragioni, persino il primo passo per avviare il progetto – l’accordo fra comune e Ferrovie su dove e quanto costruire – è iniziato quindici anni fa, e non si è ancora concluso.

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Tutti gli scali sono di proprietà di Ferrovie dello Stato, che al momento non può farci molto: tenerli attivi non avrebbe senso dal punto di vista commerciale, mentre ricavarne dei palazzi o altre strutture è impossibile, visto che secondo i piani urbanistici della città sono aree destinate ad uso ferroviario. Comune e Ferrovie quindi hanno deciso di venirsi incontro: il comune si impegna a cambiare la destinazione d’uso delle aree per consentire a Ferrovie di venderle o di costruirci sopra, e in cambio Ferrovie cede una quota di queste aree al pubblico, si impegna a investire per potenziare i trasporti locali e ovviamente a rispettare i paletti imposti dal Comune sulle nuove costruzioni.

Formalmente le trattative sono iniziate nei primi anni Duemila, sotto le giunte di centrodestra di Gabriele Albertini e poi di Letizia Moratti. Nel 2005 ci fu un primo accordo di massima per valorizzare le aree dismesse, aggiornato nel 2007. Già ai tempi era chiaro che la portata degli interventi era un’«occasione storica» per la città, come si legge in un documento preliminare di quegli anni. L’anno successivo si arrivò al primo Accordo di programma condiviso fra comune, regione e Ferrovie dello Stato. Nel 2010 i contenuti dell’accordo vennero inseriti nella proposta di Piano di Governo del Territorio (PGT) avanzata dal centrodestra: la giunta Moratti però non fece in tempo ad approvarlo, e nel 2011 fu sostituita da quella di centrosinistra guidata da Giuliano Pisapia. A quel punto l’accordo con Ferrovie “decadde”, come spiega oggi De Vito, e furono necessarie nuove trattative, che formalmente non sono ancora finite.

L’accordo raggiunto da Moratti e dal suo assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli prevedeva che la superficie totale da edificare (la cosiddetta SLP, superficie lorda di pavimento) fosse di circa un milione di metri quadri. La SLP non tiene conto solamente della superficie occupata sul terreno da un certo edificio, ma anche del suo sviluppo in altezza: un palazzo di tre piani avrà grossomodo una SLP tre volte superiore a un edificio che ha le stesse dimensioni ma un piano solo, e così via. Un milione di metri quadri di SLP rispetto a 1 milione e 250mila metri quadrati della complessiva superficie dei sette scali, di cui fra l’altro 200mila sono e saranno occupati da binari, sono comunque parecchi: Masseroli promise che la giunta avrebbe fatto costruire «diecimila nuovi alloggi di cui 3.600 in housing sociale, ovvero da vendere a duemila euro al metro quadro o da affittare a 500 euro al mese», le opposizioni criticarono la “cementificazione” di Milano. Insieme all’accordo, la giunta Moratti pattuì con Ferrovie un ulteriore investimento da 130 milioni di euro per potenziare il trasporto pubblico urbano, e realizzare la cosiddetta circle line (una linea ferroviaria che colleghi tutte le metro della città, prolungando l’attuale linea suburbana S9).

Al ballottaggio delle elezioni comunali del 2011, Giuliano Pisapia superò Letizia Moratti di circa dieci punti. Pisapia vinse per moltissime ragioni, fra cui la promessa di bloccare la “cementificazione” a cui il centrosinistra si era opposto per anni. In una delle sue prime importanti decisioni da sindaco, Pisapia decise di modificare il PGT presentato da Moratti e di ridiscutere l’accordo con Ferrovie e regione.

Comune e Ferrovie ci misero altri due anni a trovare un nuovo accordo: la giunta Pisapia si era infatti posta l’obiettivo di ridurre sensibilmente la SLP, e dedicare più aree possibili al verde pubblico. La quota totale venne abbassata di circa un terzo, tagliando spazio edificabile un po’ in tutti gli scali, e arrivò a 674mila metri quadri. La circle line venne mantenuta, ma per offrire a Ferrovie qualcosa in cambio per la diminuzione della superficie edificabile, venne diminuita la quota riservata allo housing sociale, cioè all’edilizia popolare. Il nuovo accordo di programma fu firmato nel luglio 2015. Qualche giorno dopo, però, successe un imprevisto: l’assessore all’Urbanistica e vicesindaco Ada Lucia De Cesaris si dimise citando «grande difficoltà nel condividere gli obiettivi» con la maggioranza di governo.

Cinque mesi dopo, nel dicembre 2015, l’accordo venne comunque sottoposto al parere del Consiglio comunale, che è vincolante per la sua ratifica. Fu uno dei momenti più complicati per l’allora giunta Pisapia: alcuni componenti dell’ala sinistra della maggioranza ritenevano che il nuovo accordo garantisse un numero insufficiente di spazi edificabili per lo housing sociale, e votarono contro. Lo stesso fece anche il centrodestra, che fino a quel momento aveva invece dimostrato grande disponibilità (in fondo il progetto era stato avviato dalla giunta Moratti). I voti favorevoli furono 21, quelli contrari 23: l’accordo fu bocciato. Per evitare complicate trattative interne alla maggioranza ed eventualmente nuovi negoziati con le Ferrovie, la giunta Pisapia decise di accantonare la questione scali.

Qualche mese più tardi Alessandro Balducci, prorettore del Politecnico nominato per sostituire De Cesaris all’Urbanistica, aveva spiegato a un convegno che le ragioni del fallimento erano state soprattutto politiche: l’ala sinistra della maggioranza voleva soprattutto portare avanti una battaglia visibile in vista delle imminenti elezioni comunali, mentre «alla minoranza di centrodestra interessava soprattutto dimostrare che “la maggioranza non esisteva più”, che non era in grado di portare all’approvazione forse la decisione più importante in campo urbanistico».

Insieme alla questione del bando comunale sulla costruzione delle moschee, la vicenda degli scali ferroviari è stata la più ingombrante lasciata aperta dalla giunta Pisapia: di conseguenza, è stata una delle prime con cui ha dovuto fare i conti la nuova giunta di centrosinistra di Giuseppe Sala. La questione è tornata a essere discussa in Consiglio, e a novembre 2016 è stata approvata a larga maggioranza una delibera che riprende in gran parte i contenuti dell’accordo del 2015. Fra qualche settimana il nuovo assessore all’Urbanistica, Pierfrancesco Maran, inizierà a trattare un nuovo accordo di programma con le Ferrovie. Parallelamente a questa trattativa sull’uso e la proprietà degli spazi, però, va avanti da anni una serie di iniziative “esplorative” riprese anche dall’amministrazione Sala per provare a rispondere a una domanda molto concreta: cosa verrà costruito nelle aree degli scali ferroviari?

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Una risposta precisa non può ancora esistere, dato che formalmente le aree sono ancora di proprietà di Ferrovie e serviranno molti anni prima che il comune istituisca un bando o esamini progetti concreti. Da qualche tempo però, sia per capire le aspettative dei cittadini sia per discutere di cose più concrete di accordi di programma e superfici edificabili, il comune ha avviato quelli che chiama “percorsi di ascolto”, cioè incontri pubblici rivolti soprattutto alle associazioni locali in cui si ascoltano e propongono idee su cosa fare in ciascuno scalo. Il primo ciclo è iniziato più di dieci anni fa, quello nuovo è appena ripartito: in queste settimane ciascun municipio terrà incontri pubblici per spiegare i prossimi passaggi e accogliere aspettative e proposte, e poi pubblicherà dei documenti finali di sintesi. In questi casi non si riparte mai da zero: in questi dieci anni il dibattito fra urbanisti, associazioni e tecnici dell’amministrazione è arrivato a qualche punto fermo, anche se raro. Eppure, non tutti sembrano avere chiaro cosa aspettarsi.

Uno di questi incontri è avvenuto in una serata di marzo allo Spazio Base, un locale ricavato dagli spazi lasciati liberi dalle fabbriche di Ansaldo. Il tema della serata, organizzata dal Municipio locale, era il futuro delle aree di Porta Genova e San Cristoforo: chiunque poteva prendere la parola e dire la sua. Un agguerrito 60enne che si è definito semplicemente “un residente” ha suggerito di pensare soprattutto a creare posti di lavoro, e quindi di concedere gli spazi alle aziende. Un’anziana e distinta residente ha spiegato di essere contenta per le “quarantamila iniziative” che il comune organizza nella zona di via Tortona, dove sono concentrate diverse piccole aziende di moda e design, ma che vorrebbe più attenzione per i residenti (tradotto: più parcheggi e strade tenute meglio). Un uomo alto e calvo a un certo punto si è alzato in piedi anticipando “un intervento di risveglio” e accusando il comune di essere in malafede e le Ferrovie di voler lucrare sull’accordo: alla fine del suo discorso, scritto in precedenza e letto dallo schermo di uno smartphone, ha proposto che le aree riprendano la loro funzione di scali merci per scoraggiare il traffico su gomma.

Nonostante i toni civili e il volenteroso tentativo di moderazione del presidente del Consiglio comunale, la serata ha finito per ospitare una serie di interventi piuttosto confusi, pronunciati in buona fede ma fuori tema o basati su pochi fatti. In realtà il comune dispone già di uno studio molto approfondito sulle aspettative dei residente dei quartieri degli scali, che era allegato all’accordo bocciato nel 2015 ma che probabilmente rimarrà centrale anche nei prossimi anni. Lo studio si intitola Trasformazione degli scali ferroviari milanesi (PDF), ed è stato realizzato dal Politecnico su incarico del comune.

Laura Pogliani, che insegna Progettazione urbanistica al Politecnico ed è stata fra i responsabili della ricerca, ha spiegato al Post che fra il 2013 e il 2014 alcuni docenti del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico hanno moderato decine di incontri con le associazioni e i residenti dei quartieri interessati dagli scali. Il loro compito era fornire dati e strumenti di discussione per agevolare la stesura di una “mappa” delle aspettative di ciascun quartiere sul proprio scalo ferroviario. «C’erano anche idee diverse», ha raccontato Pogliani: «Alcuni dicevano “vogliamo più verde” o “vogliamo solo verde”. Altri dicevano di no, perché fare solo verde, in quelle situazioni, non garantisce neppure il presidio necessario. A Lambrate c’è il muro della ferrovia, se io costruisco solo del verde alla fine quello diventa uno spazio un po’ abbandonato».

Pogliani spiega che al di là del contenuto delle singole proposte, lo studio le è sembrato utile e interessante per un’altra ragione: ha messo in contatto fra di loro «persone molto esperte, magari di cose particolari» di un certo quartiere, e ha permesso che «fra di loro si conoscessero, si parlassero; magari si conoscevano già, però il fatto di avere un momento in cui ci fosse un incontro comune gestito da un soggetto terzo, come il Dipartimento, la possibilità di condividere una serie di conoscenze, esigenze, aspettative, ha creato un clima molto interessante». Agli incontri era presente anche un facilitatore e materiali come mappe mute, post-it e pennarelli: alla fine di ogni ciclo di incontri, il Politecnico ha prodotto una cartina che per ciascuna area raccoglie i suggerimenti e le esigenze più frequenti. I consiglieri e gli abitanti del Municipio 2, interessati dallo scalo di Greco-Breda, hanno proposto per esempio uno spazio di verde “aperto” con orti urbani o percorsi attrezzati per lo sport, una nuova stazione per il bike sharing, la costruzione di un nuovo passaggio ciclopedonale che unisca i quartieri di Bicocca e Precotto, e così via.

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La connessione fra quartieri diversi, racconta Pogliani, è un’esigenza raccolta durante tutti i cicli degli incontri: «la presenza di questa cintura ferroviaria ha sempre segnato in molti punti una sorta di dentro e fuori, nel senso che ha sempre segnato un po’ la barriera: i quartieri hanno sempre sofferto questa separazione. Il recupero degli scali rappresenta un’occasione di ricucitura urbana».

Una delle richieste ricevute più spesso dagli esperti del Politecnico era pensare a soluzioni per quello che Pogliani chiama “lo scavalco”: sottopassaggi, piste ciclopedonali o parchi preclusi alle auto. Gli scali ferroviari infatti sono dei giganteschi ostacoli piazzati in mezzo a quartieri che invece sono situati a poche centinaia di metri di distanza: sembra naturale che una delle prime esigenze dei residenti sia rimuovere queste barriere, sia per spostarsi con più facilità sia per avere più posti dove andare a fare la spesa, portare a spasso il cane o far riparare il computer.

Lo studio del Politecnico è stato allegato all’accordo del 2015, e da allora l’istituto ha continuato a collaborare col Comune: cosa che fa pensare che i risultati dello studio o di nuove rilevazioni avranno il loro peso quando sarà il momento di pensare concretamente a cosa fare delle aree pubbliche negli spazi degli scali.

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Al momento, per andare da via Aosta a sentire un concerto all’Alcatraz ci si mette mezz’oretta coi mezzi pubblici o un quarto d’ora di macchina, dato che bisogna aggirare lo scalo Farini. Se questo spazio fosse percorribile ci si metterebbe un quarto d’ora a piedi

La funzione di connessione fra quartieri diversi è considerata fondamentale dagli urbanisti che si sono occupati della riqualificazione degli scali, ma non è l’unica: ogni area avrà delle “funzioni” specifiche, che in parte verranno individuate in queste settimane e in parte sono il risultato della stratificazione degli studi e dei “percorsi di ascolto” di questi anni.

Nello scalo di Farini, il più grande dei sette, l’idea è realizzare un grande parco pubblico dalle dimensioni simili a Parco Sempione: la quota di edificabilità dello scalo lo permette, e Sala si è già detto d’accordo; a Lambrate, situato nelle vicinanze di Città Studi e del Politecnico, l’idea è concentrare gran parte delle quote dedicate all’housing sociale, destinate a studenti e famiglie a basso reddito. Nello scalo di San Cristoforo circola da anni l’idea di aprire un’area naturalistica protetta, tanto che nell’accordo di programma del 2015 è stato stabilito che la superficie edificabile sarà pari a zero (e sembra che anche l’attuale amministrazione voglia conservare questa quota). Porta Genova, Porta Romana, Greco-Breda e il piccolo scalo di Rogoredo avranno probabilmente uno sviluppo misto, ancora tutto da definire.

cristoforo Un rendering di Rotaie verdi sul possibile sviluppo dello scalo di San Cristoforo

Esiste poi una questione sui cosiddetti “usi temporanei”: visto che ci vorranno 15 o 20 anni prima che tutti gli scali siano definitivamente riqualificati, nel migliore dei casi, il comune intende occupare le aree in questione con varie attività prima dell’inizio dei cantieri, che probabilmente non saranno aperti per i prossimi cinque anni. Carlo De Vito, amministratore delegato di Sistemi Urbani, ha spiegato che Ferrovie e Comune stanno concordando una convenzione che permetta al comune di gestire gli spazi una volta ratificato l’accordo di programma. Pierfrancesco Maran, parlando col Post, ha fatto notare che gli scali in condizioni migliori vengono già utilizzati per alcuni eventi – nell’estate 2016 lo scalo di Porta Romana ha ospitato la Festa dell’Unità – e che il comune pensa di costruirci «strutture che consentano di avere attività fisse», anche se per forza di cose non se ne sa molto di più.

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Come succede spesso quando si gestiscono progetti urbanistici di queste dimensioni, non tutti sono soddisfatti di come sta lavorando l’amministrazione comunale. In questi mesi, l’opposizione più agguerrita è stata portata avanti dal Movimento 5 Stelle, l’unico partito che non ha votato la delibera di indirizzo proposta dall’amministrazione Sala e approvata a novembre, che di fatto ha riavviato l’intero dibattito. La critica principale del M5S è che Ferrovie aveva ottenuto gratuitamente le aree quando ancora era una ente pubblico, e quindi non sarebbe giusto che ora possa lucrarci. Un altro punto critico, secondo il Movimento 5 Stelle, è che il comune intende consentire a Ferrovie di stendere “una colata di cemento” sulle aree, destinando troppo poco spazio al verde pubblico. Giuseppe Boatti, un architetto che ha partecipato a un recente convegno sugli scali ferroviari organizzato dal M5S, si è chiesto per esempio se sia necessario costruire così tanti nuovi edifici in una città già molto inquinata e “piena” come Milano. Durante la campagna elettorale, il candidato sindaco Gianluca Corrado aveva promesso che una volta eletto se Ferrovie avesse rifiutato un nuovo accordo con una quota limitata di aree edificabili, avrebbe espropriato gli scali.

La situazione sulla quantità limitata di aree edificabili da assegnare a Ferrovie non è così netta: il comune non può costruire su una proprietà privata, e ha comunque avviato i negoziati da un’ottima posizione, dato che per poter costruire in queste aree è necessario modificare la loro edificabilità (che per ora è pari a 0). Senza l’assenso del comune, in pratica, Ferrovie non potrebbe costruire nemmeno un metro quadro di aiuola; e viceversa, senza la disponibilità di Ferrovie, il comune non potrebbe fare nulla su quei terreni. Già durante le precedenti amministrazioni di Moratti e Pisapia il comune ha approfittato della sua posizione per chiedere diverse cose in cambio a Ferrovie. Gli oneri di urbanizzazione, cioè ai soldi che ogni costruttore dà al comune per entrare nella sua rete di servizi, ammontano a circa 130 milioni. Ferrovie darà inoltre 97 milioni al Comune per il progetto della circle line e altri 81 milioni per migliorare la connessione di alcune stazioni. Ferrovie, inoltre, ha acconsentito a mettere a disposizione del comune il 50 per cento delle plusvalenze ottenute oltre una certa soglia, da reinvestire nel trasporto pubblico. Insomma, il comune dovrà spendere soldi “solamente” per attrezzare le aree pubbliche che verranno liberate dopo la firma dell’accordo, mentre al contempo riceverà da Ferrovie centinaia di milioni di euro (il cui guadagno dipenderà dall’uso che vorrà fare delle aree che diventeranno edificabili).

Per quanto riguarda la proprietà delle aree, Boatti precisa: «Queste aree furono date dallo Stato a Ferrovie perché facesse esercizio ferroviario. Non se l’è comprate: lo Stato gliele ha regalate. Siccome avevano una destinazione di servizio, che una legge abbia privatizzato Ferrovie dello Stato non sposta l’origine della questione» (la privatizzazione di Ferrovie è in discussione da anni, ma al momento non si è ancora verificata). Secondo Alessandro Balducci, la tesi del Movimento 5 Stelle sulla proprietà di Ferrovie «ha un suo fondamento dal punto di vista ideologico» perché in origine le aree degli scali erano pubbliche. Balducci però aggiunge che «è più di un decennio che c’è un riconoscimento» da parte del comune che queste aree appartengono alla società per azioni Ferrovie dello Stato, con tanto di accordi di programma già firmati e progetti inseriti nel PGT: ritirare questo riconoscimento consentirebbe a Ferrovie di chiedere un risarcimento milionario al comune di Milano, con buone possibilità di ottenerlo (Boatti ribatte che la causa milionaria è «un fantasma» perché il comune sta solo esercitando «un diritto alla pianificazione urbanistica»).

Altri hanno criticato il comune per aver concesso troppo a Ferrovie durante la trattativa, oppure per non avere una visione sufficientemente ambiziosa. L’ala sinistra della maggioranza che sosteneva Pisapia, per esempio, contestava il fatto che per convincere Ferrovie ad accettare la riduzione di un terzo della superficie edificabile, nell’accordo del 2015 la quota riservata all’housing sociale fosse stata praticamente dimezzata e confinata negli scali periferici (questo perché Ferrovie aveva già un accordo ufficioso a riguardo con Cassa Depositi e Prestiti). Altri ancora fanno notare che il comune dovrebbe istituire una specie di controllo sul futuro delle aree che Ferrovie svilupperà privatamente, per evitare che siano incoerenti dal punto di vista urbanistico e dello sviluppo della città.

La critica più costruttiva e forse suggestiva di tutte invece l’ha avanzata Stefano Boeri, noto architetto e urbanista milanese ed ex assessore alla Cultura della giunta di Pisapia (da cui è stato “licenziato” nel marzo 2013). Il suo studio di architetti promuove da mesi il progetto del “fiume verde”: un piano per aumentare la quantità di verde prevista nell’accordo fino all’80 o 90 per cento, senza però modificare la superficie edificabile. Il risultato sarebbe una rete di parchi con alcuni grattacieli ai bordi di ciascuno, che permettano di soddisfare le richieste di Ferrovie. La proposta di Boeri è giudicata da molti un po’ “estrema” e incompatibile col panorama urbanistico dei vari quartieri degli scali: Maran ha spiegato che «vedremo come integrare quella visione» nel sistema complessivo di riqualificazione. Altri cinque progetti preliminari elaborati da altrettanti importanti studi di architetti per una conferenza tenuta a gennaio da Ferrovie e comune al momento sono esposti pubblicamente nei pressi della stazione di Porta Genova.

fiume verde Un rendering dello studio Boeri: un po’ ambiguo, perché la rete di binari rimarrebbe attiva, e non percorribile a piedi

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«È un momento storico», spiega Carlo De Vito di Sistemi Urbani: la riqualificazione dei sette scali «porterebbe Milano verso una dimensione diversa». Il comune conta di negoziare il nuovo accordo con le Ferrovie questa primavera, e di ratificarlo in estate in Consiglio comunale. Maran ha detto che durante i negoziati il comune cercherà di ottenere una percentuale più alta di verde e di housing sociale, e maggiori garanzie sulla ferrovia circle line: ma il clima fra comune e Ferrovie sembra di grande collaborazione – a gennaio hanno organizzato insieme un convegno sul futuro degli scali – e sembra che raggiungere un nuovo accordo non sarà così difficile.

Maran ha spiegato al Post che secondo lui quella di questi mesi sarà la volta buona per completare l’accordo di programma: sia perché la questione degli scali è stata discussa a lungo in Consiglio comunale, e condivisa col centrodestra (che probabilmente non vuole passare per la forza politica contraria a un progetto di questa portata), sia perché anche con gli oppositori più duri come il Movimento 5 Stelle «le distanze non sono moltissime, quando si entra nel merito della discussione».