Il Terzo Polo è già finito

Otto mesi dopo quell'improvvisa alleanza nata in piena campagna elettorale, Azione e Italia Viva hanno rinunciato a formare un unico partito: e intanto si danno le colpe a vicenda

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
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A otto mesi dalla sua nascita l’alleanza tra i partiti di centro Azione e Italia Viva, che si faceva chiamare “Terzo Polo” ed era stata presentata non come un cartello elettorale ma come l’inizio di un percorso verso la fondazione di un unico partito, sembra essere finita. Il leader di Azione, Carlo Calenda, ha annunciato giovedì in un video di quasi 4 minuti che i due partiti non sono riusciti a trovare un accordo per fondersi. La rinuncia è arrivata dopo giorni di accuse e duri attacchi reciproci tra i membri dei due partiti e in particolare tra i loro leader, Calenda e Matteo Renzi.

I recenti scontri hanno mostrato tutti i problemi di un’alleanza nata più per necessità che per convinzione, e che fin da subito era sembrata fondarsi su una serie di contraddizioni. Pur essendo quasi completamente sovrapponibili sul piano ideologico, Azione e Italia Viva si erano alleate soprattutto per ragioni legate al funzionamento della legge elettorale, dopo che a lungo avevano escluso la possibilità di farlo. Un altro elemento delicato era rappresentato dalla struttura dei due partiti, entrambi incentrati sul carisma e il consenso personale dei due fondatori, Calenda e Renzi, che per formare un partito unico avrebbero dovuto necessariamente rinunciare a parte delle proprie leadership.

L’ultimo tentativo di lavorare a un accordo sul partito unico, poi fallito, è stato un’assemblea dei principali dirigenti di Azione e Italia Viva che si è tenuta mercoledì sera. Era stata chiamata “comitato politico del Terzo Polo” e aveva l’obiettivo di stabilire i tempi e i modi della fusione, ma di fatto non si sono nemmeno poste le basi per una discussione. A presiedere la riunione c’era Calenda, mentre Renzi non faceva parte del gruppo di lavoro.

L’incontro è avvenuto al culmine di una settimana di rapporti molto tesi fra i due partiti, che per giorni si erano scambiati sui giornali accuse di non voler concretizzare il progetto del partito unico. Le polemiche erano iniziate dopo che lunedì sera Azione aveva pubblicato la sua proposta, dicendo di averla inviata a Renzi e che quest’ultimo l’aveva respinta. Da quel momento è cominciata una serie di attacchi incrociati anche piuttosto duri, nella maggior parte dei casi diffusi attraverso i “retroscena” usciti sui giornali: cioè articoli che ricostruiscono un po’ liberamente umori, intenzioni e dichiarazioni dei politici che non sono state rese pubbliche e che il giornalista avrebbe scoperto tramite voci più o meno verificate, o in via confidenziale.

Spesso non è possibile verificare l’affidabilità delle informazioni contenute nei retroscena, ma talvolta sono gli stessi politici a servirsene per far emergere notizie e prese di posizione che hanno interesse a rendere pubbliche e di cui non vogliono prendersi la responsabilità diretta. L’esposizione pubblica e mediatica dei disaccordi e delle accuse suggeriva già da qualche giorno che la trattativa stesse andando male e che entrambe le parti stessero già lavorando per dare all’altra la responsabilità del fallimento.

La proposta per il partito unico avanzata da Azione era la stessa che è stata poi discussa nel “comitato politico” di mercoledì: prevedeva lo scioglimento di Azione e Italia Viva entro la fine del 2024 e l’inizio quasi immediato di una fase «costituente» di alcuni mesi, che avrebbe dovuto portare entro la fine di ottobre all’elezione del segretario del nuovo partito e dei suoi organi nazionali.

I punti su cui i partiti non sono riusciti a mettersi d’accordo sono diversi, ma due in particolare sembrano più importanti di altri. Il primo: Italia Viva si era rifiutata di sciogliersi prima che fosse stato eletto il segretario del nuovo partito. Secondo le ricostruzioni dei giornali, Italia Viva avrebbe voluto sfruttare il suo maggior radicamento sul territorio e la sua capacità di attrarre iscritti al nuovo partito per avere un peso maggiore nell’elezione del nuovo segretario, che sarebbe stato votato proprio dagli iscritti; e solo a quel punto si sarebbe sciolta. A questo si sarebbe legato anche il fatto che Azione aveva chiesto a Italia Viva di rinunciare all’organizzazione dell’evento politico chiamato “Leopolda”, che Renzi organizza da anni a Firenze per rinsaldare il rapporto con i suoi sostenitori: un incontro pubblico che avrebbe messo al centro solo Italia Viva, e che per questo era fortemente contestato da Azione.

Il secondo punto riguardava i fondi del nuovo partito: Azione proponeva che entrambi i partiti contribuissero alle sue casse con il 70 per cento dei soldi che avrebbero ricevuto in autunno dal “2 per mille”, il contributo che i cittadini possono versare volontariamente ai partiti attraverso le dichiarazioni dei redditi. Italia Viva temeva che in questo modo avrebbe avuto un esborso economico maggiore rispetto ad Azione, e aveva chiesto che tutte le spese da sostenere fossero divise a metà, come avvenuto finora.

Tra i due, insomma, Italia Viva sembrava voler mantenere una maggiore autonomia anche una volta formato il nuovo partito, mentre Azione avrebbe voluto una fusione più netta e al termine della quale scomparissero divisioni e differenze tra le due organizzazioni di partenza. Che questa fosse un’aspirazione troppo ambiziosa, però, si poteva probabilmente intuire da come era andata l’alleanza in questi otto mesi.

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Il progetto del Terzo Polo era cominciato nell’estate del 2022, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche che si sarebbero tenute a settembre. Il nome era stato ripreso da quello di un’alleanza politica fallita nei primi anni Dieci tra Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, che aspirava a proporsi come alternativa al “bipolarismo” tra centrodestra e centrosinistra che aveva caratterizzato quegli anni di forte polarizzazione pro o contro Silvio Berlusconi. Il Terzo Polo di Renzi e Calenda era nato però in un modo frettoloso e in gran parte legato a ragioni di opportunismo politico, dovute alle scadenze elettorali di quel momento.

Per un grosso pezzo di quella campagna elettorale, infatti, Azione e Calenda erano sembrati destinati a presentarsi alle elezioni in un’alleanza di centrosinistra con il Partito Democratico: a inizio agosto era stato anche raggiunto e annunciato pubblicamente un accordo, da cui però pochi giorni dopo Calenda aveva deciso di ritirarsi. Nonostante Calenda stesso avesse escluso categoricamente la possibilità di allearsi con Matteo Renzi, a quel punto in breve tempo erano iniziate delle trattative tra Azione e Italia Viva per un’alleanza di centro che avrebbe potuto salvare le ambizioni di entrambi i partiti: Italia Viva da sola probabilmente non sarebbe riuscita a entrare in parlamento, per la soglia di sbarramento al 3 per cento, mentre ad Azione mancavano alcuni requisiti burocratici per candidarsi perché non aveva raccolto le firme necessarie a presentare una propria lista alle elezioni (obbligo da cui Italia Viva era esonerata perché presente in parlamento nella scorsa legislatura).

Oltre a queste necessità molto concrete, Azione e Italia Viva avevano evidenti punti in comune a livello politico. Si definivano di centro e riformisti, avevano espresso opinioni simili su diversi temi emersi in campagna elettorale ed entrambi ambivano a raccogliere consensi sia tra un elettorato deluso dal PD e dal centrosinistra, sia tra quello di un centrodestra moderato, vista la radicalità della coalizione formata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. I due partiti erano nati anche in modo simile, entrambi da una scissione del PD e intorno a una leadership molto forte, da una parte quella di Calenda e dall’altra quella di Renzi.

Quest’ultimo tratto era però anche alla base delle perplessità di molti sulla possibilità che l’alleanza tenesse e che poi si tramutasse realmente in un partito unitario: un partito unico avrebbe avuto bisogno di un solo leader, e non era chiaro se Calenda e Renzi sarebbero mai riusciti a mettersi d’accordo su chi dovesse diventare il riferimento principale. Alle elezioni politiche era stato Calenda, soprattutto per via di una sua maggiore popolarità rispetto a Renzi, ma i successivi risultati elettorali deludenti del Terzo Polo hanno complicato le cose e messo in discussione questa scelta.

Alle elezioni politiche, infatti, la coalizione del Terzo Polo era stata la quarta per preferenze, con circa l’8 per cento dei voti, e non la “terza”: un risultato a cui almeno pubblicamente ambiva, visto come aveva impostato la propria campagna comunicativa. Erano stati però soprattutto i successivi appuntamenti elettorali a mostrare l’assenza di un’organizzazione consolidata: alle regionali in Lombardia e Lazio, a febbraio, Azione e Italia Viva erano andate piuttosto male, al di sotto di tutte le aspettative, e a inizio aprile in Friuli Venezia Giulia non erano nemmeno riusciti a entrare in consiglio regionale.

Il volto pubblico di quelle sconfitte era stato soprattutto Calenda, mentre Renzi aveva tenuto per mesi un profilo piuttosto basso, commentando pochissimo le vicende politiche dei due partiti: un atteggiamento grazie al quale gli erano state addossate poche colpe per quei risultati, attribuite invece perlopiù alla strategia impostata da Calenda, che era stato molto presente in eventi pubblici, televisivi e nelle interviste sui giornali.

Gli stessi motivi di opportunismo politico per cui era iniziata l’alleanza rendono poco chiaro cosa succederà ora: a maggio ci saranno le elezioni amministrative per rinnovare i sindaci in 13 capoluoghi di provincia e non si sa se i due partiti continueranno a sostenere gli stessi candidati. A Siena e a Massa avevano già deciso di correre separatamente, a dimostrazione del difficile coordinamento fra le due organizzazioni.

I problemi più grossi però riguarderanno il parlamento: nessuno dei due partiti da solo ha abbastanza deputati e senatori per formare gruppi parlamentari indipendenti alla Camera e al Senato. Se dovessero dividersi anche in parlamento, allo stato attuale i membri di Azione e Italia Viva confluirebbero nel Gruppo Misto, perdendo gran parte dei loro fondi e della loro rilevanza (già piuttosto contenuta, trattandosi del terzo gruppo di opposizione per numero di parlamentari).