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  • Venerdì 20 gennaio 2023

Perché i mafiosi latitanti restano sempre vicino a casa

È una questione di prestigio e di potere, ma nel proprio territorio sono anche più protetti ed è più difficile trovarli

La polizia presidia una delle tre case di Messina Denaro a Campobello di Mazara
(ANSA/Max Firreri)
La polizia presidia una delle tre case di Messina Denaro a Campobello di Mazara (ANSA/Max Firreri)
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Ogni anno di latitanza, per un capo mafioso, significa maggiore prestigio e rispetto  tra i membri della propria organizzazione, ma anche tra i semplici simpatizzanti o fiancheggiatori. Ma per essere un capo vero, il latitante deve restare nel proprio territorio, possibilmente molto vicino al suo luogo d’origine. Tutti sanno che è lì, da qualche parte, ma chi lo cerca per arrestarlo non lo trova. È la storia di Matteo Messina Denaro ma anche di tanti altri capi di organizzazioni criminali prima di lui.

Da latitante, il capo criminale invece che perdere potere lo consolida: è presente ma è invisibile per chi lo cerca, in quella che è stata definita una “visibilissima invisibilità”. A Campobello di Mazara, che è a soli otto chilometri da Castelvetrano, paese d’origine di Messina Denaro, sono state trovate per ora tre case, chiamate dai giornali “covi”, dove il boss ha abitato. Nelle intercettazioni dei suoi familiari o dei mafiosi del trapanese, Messina Denaro era diventato “iddu” (“quello”, in siciliano) o addirittura “quello che non c’è”.

È molto improbabile, sostengono gli investigatori, che in un paese di 11 mila abitanti almeno un certo numero di persone non sapesse chi era davvero l’abitante di quelle tre case. Enzo Ciconte, esperto di storia delle organizzazioni criminali, spiega: «Luciano Leggio, capo dei corleonesi prima di Riina, si trasferì a Milano illudendosi di poter esercitare il suo comando anche da lì, cercando allo stesso tempo di rifarsi una vita con una nuova famiglia. Lo presero nella sua casa di via Ripamonti dopo dieci anni. Bernardo Provenzano, altro capo corleonese che non ha mai abbandonato la sua terra, fu arrestato dopo 38 anni. Da quando Leggio si trasferì a Milano, a poco a poco Riina, che invece era rimasto a controllare il territorio, lo sostituì ai vertici dei corleonesi».

I latitanti mafiosi si nascondono quindi senza allontanarsi dal proprio territorio: mantengono il potere restando a controllare la propria zona d’influenza. Allo stesso tempo consolidano il loro prestigio e anzi lo aumentano lanciando ai membri della propria organizzazione un segnale di vicinanza e di sacrificio, dimostrando di essere disposti a rischiare la libertà pur di rimanere lì.

Campobello di Mazara e le tre abitazioni di Matteo Messina Denaro (Ansa)

In realtà c’è soprattutto un motivo per cui i mafiosi restano nella zona dove hanno sempre vissuto: si nascondono meglio. Solo nel proprio territorio riescono a godere di una rete di protezione che altrove non avrebbero: è quella che viene definita protezione di prossimità. Dice ancora Ciconte: «Se Matteo Messina Denaro fosse stato altrove, lontano dalla Sicilia, qualcuno lo avrebbe notato e segnalato. Ogni inserimento in una comunità diversa dalla propria comporta anomalie che attirano curiosità. A dieci chilometri dal suo paese, qualcuno certo lo avrà notato ma ha fatto finta di niente». 

Contrariamente a quanto è stato sostenuto in questi giorni da molti, il fatto di essere nascosto vicino a casa non rende necessariamente più facile l’individuazione e l’arresto. Il latitante che rimane nel proprio territorio si deve spostare pochissimo, comunica con l’organizzazione attraverso una rete fidatissima e circoscritta, si sposta solo in auto e per brevi tragitti. Di fatto, resta immobile e protetto, scegliendo quasi sempre case non grandi, confuse tra decine di altre. Non è lui a muoversi, ma i suoi complici. Quando il latitante non rispetta queste semplici regole diventa più vulnerabile: come è accaduto a Messina Denaro, che ha dovuto violarle per potersi curare. È anche plausibile che il fatto di essere colpito da una malattia estremamente grave gli abbia imposto priorità diverse rispetto all’abituale prudenza.

Il boss camorrista Raffaele Imperiale, tra i più importanti narcotrafficanti del mondo, aveva fatto una scelta diversa. Viveva a Dubai in una villa molto grande, con piscina interna ed esterna, ascensore, un quadro raffigurante Pablo Escobar. In garage c’erano Porsche e Ferrari. Secondo i rendiconti sequestrati a chi teneva per lui i conti, le spese di Imperiale a Dubai erano di un milione di euro al mese per la normale gestione quotidiana. Il camorrista non si nascondeva, semplicemente sperava di non correre rischi visto che tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti non esiste trattato di estradizione. Arrestato nel 2021, è stato invece estradato in Italia un anno più tardi. Si è pentito e ora sta collaborando con la giustizia.

Ma il suo è un caso anomalo, simile a quello del boss della ’ndrangheta Rocco Morabito, arrestato in Brasile nel 2021 ma che non aveva più nessun ruolo di comando all’interno della sua ’ndrina.

Totò Riina fu arrestato il 15 gennaio 1993 a Palermo, a poco più di 50 chilometri dal suo paese, Corleone, dopo 23 anni di latitanza. Bernardo Provenzano rimase latitante per 38 anni. Lo arrestarono l’11 aprile 2006 in una masseria semidiroccata nella campagna di Corleone, paese che non aveva mai lasciato. Nemmeno Giovanni Brusca, dopo il 1993 tra i mafiosi più ricercati perché indicato come l’uomo che materialmente eseguì l’attentato di Capaci che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, non lasciò mai la Sicilia. Fu arrestato il 20 maggio 1996. In seguito a rivelazioni di pentiti, si scoprì che era nascosto in contrada Cannatello, una frazione di Agrigento. Gli investigatori sapevano che era in una delle villette vicine al mare, perché il suo telefono cellulare era intercettato. Per individuare quale fosse esattamente la casa in cui Brusca si nascondeva, un agente con una moto senza marmitta venne mandato a sgasare fuori dalle case mentre Brusca stava facendo una telefonata.

Il casolare dove si nascondeva Bernardo Provenzano (STRINGER / ANSA / PAL)

Nascondersi nel proprio territorio non è una prerogativa solo dei capi di Cosa Nostra. Raffaele Cutolo, boss camorrista, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, fu arrestato il 15 maggio 1979 in un casolare di Albanella, in provincia di Salerno, a 40 chilometri circa dal suo paese, Ottaviano, in provincia di Napoli. Un altro celebre camorrista, Lorenzo Nuvoletta, unico campano ad aver fatto parte della commissione che comandava Cosa Nostra, fu preso quando lasciò il cascinale dove viveva poco lontano dalla sua masseria, a Marano di Napoli. Si era dato appuntamento con la moglie e i figli. Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo o’ milionario, fu arrestato in un appartamento di Secondigliano, zona napoletana controllata dal suo clan. Anche il figlio, Marco Di Lauro, latitante dal 2004, è stato arrestato a Napoli il 2 marzo 2019 nel quartiere Marianella.

Alcuni capi latitanti della camorra sono rimasti nel proprio territorio ma facendosi costruire nascondigli segreti, in genere molto ben attrezzati. Sono i rifugi che sulla stampa vengono spesso chiamati bunker.

Michele Zagaria, capo del clan dei Casalesi, venne arrestato a Casapesenna il 7 dicembre 2011, a tre chilometri da Casal di Principe. Sotto una villetta, intestata a un prestanome, aveva fatto costruire una struttura di 65 metri quadrati. C’erano un televisore da 60 pollici, una seconda tv nel bagno, stereo e decoder satellitare. Ai locali si accedeva attraverso una porta telecomandata nella cabina doccia. Un sistema di telecamere controllava l’esterno.

L’accesso al rifugio di Francesco Pesce, a Rosarno (Reggio Calabria) (ANSA/FRANCO CUFARI)

Un altro boss dei Casalesi, Francesco Schiavone detto Sandokan, il primo tra i capi di vertice dei Casalesi ad essere arrestato, l’11 luglio 1998, aveva un appartamento segreto di tre stanze sotto la sua villa. Per accedere ai locali le porte si aprivano facendo scorrere pareti di cemento su due binari. In caso di arrivo delle forze dell’ordine, dal rifugio segreto Schiavone entrava attraverso una botola nascosta in un cunicolo che conduceva all’ultimo rifugio, in cui erano montate tende militari. Nel rifugio sotterraneo di Schiavone vennero trovati molti dipinti fatti da lui stesso, oltre a una corposa biblioteca su Regno delle due Sicilie, Napoleone e Mussolini. 

Massimo Di Caterino, altro capo dei Casalesi, aveva una stanza segreta sotto il bagno a cui si accedeva attraverso una botola sotto la doccia. Il rifugio di Antonio Cangiano era un locale nascosto sotto la cucina. Raffaele Diana entrava nel suo rifugio da un buco a scomparsa dietro a un mobile. Al nascondiglio di un altro camorrista, Antonio Cardillo, latitante del clan Lo Russo di Miano, a Napoli, si arrivava con un telecomando che apriva uno specchio collocato in camera da letto. 

Tempo fa uno dei costruttori di questi rifugi venne intervistato dal Corriere della Sera. Disse: «Io sono uno di quelli che costruiscono i nascondigli che vengono trovati in certe case. Quando mi chiamano so che non posso rifiutarmi. Alcune volte mi vengono a prendere a casa, altre volte mi sposto da solo. Faccio il lavoro, mi pagano e vado via. Unica condizione è il silenzio: niente domande. Io non chiedo nulla, se mi ordinano di fare una doppia parete dietro a una libreria spostando un muro di un metro e mezzo, lo faccio e basta. Una cosa pulita, ridipingo la stanza, saluto e ringrazio. Mi pagano e tanto basta». 

Anche gli ’ndranghetisti ricercati si allontanano difficilmente dalle proprie zone di influenza. Franco Aloi e Nicola Tedesco furono trovati nel 2015 sotto una botola nella cella frigorifera del ristorante Molo 13 di Guardavalle, in provincia di Catanzaro. Francesco Pesce venne arrestato nel 2011 a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, in un rifugio ricavato sotto l’azienda di un altro ’ndranghetista.

Nel 2018 i carabinieri dello Squadrone Eliportato Cacciatori Calabria trovarono in una zona impervia dell’Aspromonte il rifugio di un latitante, Girolamo Facchineri: aveva installato un sistema d’allarme rudimentale con fili elettrici collegati a un clacson. Alimentava il suo rifugio con pannelli solari. I Cacciatori furono creati nel 1991 per cercare le vittime dei sequestri delle bande di rapinatori calabresi. Ora sono specializzati nella ricerca di latitanti. Spiegava uno dei Cacciatori a Le Monde in un articolo uscito nel febbraio del 2022: «Questi uomini in fuga sono lontani dall’essere fuori dal quadro di comando dell’associazione. Al contrario: anche se devono accontentarsi di uno spazio di cinque metri quadrati, continuano a tirare i fili dell’organizzazione».

L’ingresso del rifugio di Antonio Cangiano, a Casal di Principe (Caserta) (ANSA / PRIMA PAGINA)

Cosimo Gallace, capo ’ndranghetista, fu arrestato il 7 ottobre 2021 a Isca sullo Ionio, in provincia di Catanzaro, in casa sua. Quando i carabinieri entrarono per una perquisizione sembrava che in casa ci fossero solo la moglie e le figlie: Gallace era in un minuscolo rifugio dietro al letto che si apriva girando un pomello dell’appendiabiti. Ernesto Fazzalari, latitante dal 1994, sfuggì all’arresto nel 2004 strisciando in un cunicolo che da sotto casa sbucava una cinquantina di metri più lontano.

Ha spiegato un altro carabiniere dei Cacciatori a Le Monde: «Di solito, quando i latitanti vengono catturati, lo accettano. Abbiamo quindi una sorta di rituale: possiamo farli vestire, a volte radersi o fumare una sigaretta, ma facciamo sempre una foto della nostra cattura come trofeo».

L’accesso a un rifugio di un membro del clan dei Casalesi (Ansa)

Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro sono rimasti quattro i nomi dell’elenco dei latitanti considerati di massima pericolosità. Il primo è Attilio Cubeddu, 75 anni, di Arzana, in provincia di Nuoro, ricercato dal 1997. Ha fatto parte dell’Anonima Sequestri sarda. Gli investigatori sono convinti che si nasconda nel suo territorio, l’Ogliastra. Giovanni Motisi, u’ pacchiuni, palermitano, 64 anni, numero due nell’elenco, è stato uno degli assassini sotto il comando di Totò Riina. È latitante dal 1998, secondo chi lo cerca si nasconde probabilmente in Sicilia.

Al terzo posto c’è il napoletano Renato Cinquegranella, 74 anni, camorrista. Quarto tra i ricercati è Pasquale Bonavota, di Vibo Valentia, 49 anni, appartenente alla ’ndrangheta. Nel vibonese è rimasta la sua famiglia e, come dicono gli investigatori, per gli affiliati alla ’ndrangheta il legame di sangue è un valore indissolubile.