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  • Lunedì 9 gennaio 2023

Da dove arriva l’assalto alle istituzioni brasiliane, spiegato

Jair Bolsonaro e le sue false denunce di frode elettorale hanno ulteriormente intensificato uno scontro politico già molto radicalizzato

I sostenitori di Bolsonaro dopo l'incursione nel palazzo Planalto, che ospita il presidente (AP Photo/Eraldo Peres)
I sostenitori di Bolsonaro dopo l'incursione nel palazzo Planalto, che ospita il presidente (AP Photo/Eraldo Peres)
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L’assalto al parlamento e altri edifici governativi di domenica a Brasilia da parte dei sostenitori dell’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro non è arrivato in maniera inaspettata. Il clima politico in Brasile è teso da diversi anni, la retorica di Bolsonaro ha più volte evocato la possibilità di un’azione violenta e in questi mesi è stato sottolineato in varie occasioni come la democrazia brasiliana attraversasse un momento di vulnerabilità.

Modalità e sviluppi dell’assalto sono stati molto simili all’attacco al Congresso americano del 6 gennaio 2021 compiuto dai sostenitori dell’ex presidente Donald Trump, così come le accuse, false, di brogli nelle due elezioni presidenziali, ripetute a lungo anche in assenza di alcuna prova. Trump e Bolsonaro hanno visioni politiche simili e relazioni strette: si sono affidati in momenti diversi agli stessi consiglieri, a partire da Steve Bannon, ex stratega del presidente americano e riferimento dell’estrema destra statunitense.

Il percorso che ha portato ai due assalti, al Congresso di Washington e ai palazzi governativi di Brasilia, ha molti punti in comune. In Brasile alcune peculiarità lo hanno reso potenzialmente più pericoloso: la democrazia nel paese ha una storia più recente e meno consolidata, il potere dei militari è maggiore e le ingerenze dei generali nel dibattito politico più frequenti.

L’ascesa politica di Jair Bolsonaro, ex capitano dell’esercito eletto presidente nel 2018 dopo oltre 25 anni da deputato federale per lo stato di Rio de Janeiro, ha ulteriormente radicalizzato le contrapposizioni politiche che erano già molto forti in Brasile. Nel giugno 2016 la presidente di sinistra Dilma Rousseff era stata destituita con l’accusa di aver truccato i dati sul deficit di bilancio, accusa rivelatasi poi falsa. Tutto il processo era iniziato a seguito di grandi proteste di piazza di destra.

Nella sua prima campagna presidenziale Bolsonaro aveva convogliato i sentimenti populisti di una gran parte dell’elettorato. Si era presentato come paladino contro la corruzione e uomo forte, elogiando a più riprese la dittatura militare che governò il Brasile dal 1964 al 1985 e lamentandone la caduta. Era stato appoggiato dalle forze più reazionarie del paese, da quelle legate ai vecchi latifondi agricoli alle sempre più popolari e potenti chiese evangeliche. Vinte le elezioni, non aveva modificato la sua retorica di forte contrapposizione alla sinistra, definita di «ladri e comunisti», e aveva posizionato in molti ruoli chiave di governo militari ed ex militari.

Il figlio maggiore Eduardo, deputato federale, aveva perfino lasciato intendere la possibilità di una svolta autoritaria: «Arriverà il momento in cui la situazione sarà la stessa che negli anni Sessanta». A marzo 2020 Bolsonaro aveva detto: «Abbiamo il popolo dalla nostra parte, e le forze armate sono al fianco del popolo».

Le strutture democratiche del paese avevano però retto, Bolsonaro era stato a lungo impegnato in una battaglia verbale e legale con la Corte Suprema brasiliana, che ne aveva limitato le velleità autoritarie e aveva respinto più volte le sue denunce di una presunta limitata affidabilità del sistema elettorale.

Negli anni di presidenza, mentre la sua amministrazione si rendeva colpevole di una gestione deficitaria della pandemia e di ripetuti episodi di corruzione, Bolsonaro aveva portato avanti una continua delegittimazione del sistema elettorale democratico. Al centro dei suoi attacchi c’era il sistema di voto elettronico centralizzato che a suo parere era sinonimo di brogli a favore della sinistra, nonostante Bolsonaro non fosse mai stato in grado di portare alcuna prova per queste fantasiose teorie, peraltro simili a quelle ripetute dai sostenitori di Trump e dallo stesso presidente negli Stati Uniti.

L’allora presidente Jair Bolsonaro durante la campagna elettorale di ottobre (AP Photo/Andre Penner)

Ampiamente in ritardo nei sondaggi, l’ex presidente aveva condotto l’ultima campagna elettorale descrivendola come una battaglia tra il bene e il “diavolo”, identificando il secondo in Lula, nel frattempo riabilitato politicamente dopo la cancellazione della condanna per corruzione che lo aveva portato a  passare 580 giorni in prigione. Sui social network e in particolare su Facebook, che in Brasile è particolarmente popolare e influente, i responsabili della campagna di Bolsonaro e i suoi sostenitori avevano fatto circolare un gran numero di notizie false: fra le altre si sosteneva che Lula avrebbe chiuso le chiese e portato il Brasile al comunismo, in una deriva venezuelana.

Bolsonaro inoltre aveva arringato i suoi sostenitori denunciando un complotto elettorale per togliergli una vittoria che altrimenti sarebbe stata sicura e aveva lasciato intendere che avrebbe anche potuto non accettare il risultato del voto: «Solo Dio può rimuovermi dal mio incarico. Ci sono solo tre opzioni per me: morte, prigione o vittoria. E vi assicuro, io non andrò mai in prigione».

Numerosi episodi di violenza avevano accompagnato la tesissima campagna elettorale, così come i giorni seguenti alla vittoria di Lula, che aveva ottenuto il 50,9 per cento dei voti (oltre 60 milioni). Bolsonaro non ha mai riconosciuto la sconfitta: era stato a lungo in silenzio, anche quando i suoi sostenitori avevano organizzato blocchi stradali e presìdi di fronte alle caserme di varie città del Brasile per chiedere ai militari di intervenire. Il prolungato silenzio era stato interpretato come una tacita approvazione dei movimenti, definiti “golpisti” dalla stampa brasiliana.

Era poi intervenuto via social per chiedere di rimuovere i blocchi stradali, ma invitando a continuare le proteste: «Manifestate in altra forma, in altri posti, perché questo è molto gradito. Faremo ciò che deve essere fatto». Bolsonaro non era solo in questa delegittimazione del risultato del voto, ma appoggiato da quasi tutti gli esponenti del suo partito e del suo governo, a volte anche con toni più diretti. La seguente mossa era stata domandare una revisione ufficiale del voto, denunciando brogli. La Corte Suprema aveva respinto la richiesta, Bolsonaro non aveva presenziato al passaggio di consegne di inizio anno, trasferendosi invece in Florida, ospite della villa di un lottatore di arti marziali miste (MMA).

Uno dei blocchi stradali di inizio novembre, nei dintorni di San Paolo (AP Photo/Andre Penner)

Intanto i presìdi di fronte alle caserme e al parlamento dei suoi sostenitori erano continuati, organizzati sui social, mentre secondo la stampa americana si erano fatti più frequenti gli incontri fra il figlio Eduardo e altri uomini del suo entourage con esponenti dell’estrema destra americana come Steve Bannon o Jason Miller, ex portavoce di Trump.

Nelle scorse settimane a Brasilia le frange più estreme dei sostenitori dell’ex presidente avevano già attaccato una stazione di polizia, mentre il “bolsonarista” George Washington de Oliveira Sousa era stato arrestato mentre pianificava un attentato con una bomba all’aeroporto della capitale, nell’intento di «far partire il disordine che avrebbe portato a un intervento militare».

– Leggi anche: I rivoltosi brasiliani si sono organizzati sui social, senza nemmeno nascondersi troppo

I continui riferimenti a un intervento militare da parte dell’estrema destra brasiliana sono la peculiarità del movimento golpista pro-Bolsonaro. Le forze armate si sono fin qui dimostrate fedeli alle istituzioni repubblicane del Brasile, nonostante i forti legami di molti loro esponenti con la presidenza Bolsonaro e con parte delle forze economiche, specie quelle dei grandi latifondi agricoli.

La crisi provocata dall’assalto sembra destinata a chiudersi proprio per la compattezza delle istituzioni, mentre l’estrema polarizzazione della politica brasiliana continuerà a essere un problema per la normale vita democratica del paese. Il nuovo presidente Lula si è ripromesso, nelle prime dichiarazioni dopo aver assunto l’incarico, di «riunire una nazione divisa».  Ma la radicalizzazione, favorita dalla creazione di “bolle” sui social network in cui si diffondono false notizie e tesi complottistiche, è stata favorita dalla figura e dalla retorica di Bolsonaro, e difficilmente verrà superata anche qualora l’ex presidente dovesse diventare irrilevante sulla scena politica brasiliana.

Un sostenitore di Bolsonaro nelle proteste seguite alla sconfitta elettorale (AP Photo/Bruna Prado)

Nel caso specifico dell’assalto di domenica, poi, gli eventi sono stati favoriti da un certo spirito di emulazione rispetto all’insurrezione del 2021 al Congresso americano: alcuni media hanno anche sottolineato la presenza di slogan molto simili, o addirittura in portoghese e in inglese, ipotizzando influenze e infiltrazioni da parte del movimento “Stop the steal” statunitense (quello che aveva guidato le rivolte a Washington).

Parte delle responsabilità sono poi da imputarsi alla sottovalutazione della minaccia o a connivenze da parte di chi era responsabile della sicurezza: i governi locali e federali hanno adottato misure immediate, come la rimozione del segretario alla sicurezza pubblica della capitale Anderson Torres, e nelle prossime settimane sono attese indagini più approfondite.

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