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  • Lunedì 12 dicembre 2022

Come ci è riuscita la Croazia

È l’unica nazionale dell’ex Jugoslavia che prospera nel calcio, e l’impressione è che non abbia ancora sbloccato tutto il suo potenziale

di Pietro Cabrio

(Clive Brunskill/Getty Images)
(Clive Brunskill/Getty Images)
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«Giocare contro la Croazia è come partire per andare a farsi una passeggiata nel bosco. Poi però quando sei lì diventa buio all’improvviso e ti ritrovi braccato da un demonio» ha scritto l’autore sportivo inglese Musa Okwonga parlando della Nazionale croata vista fin qui ai Mondiali di calcio in Qatar. Stando ai risultati, e alle statistiche delle ultime partecipazioni, la similitudine di Okwonga ha perfettamente senso.

Dal 1998, anno della sua prima partecipazione ai Mondiali dopo la disgregazione della Jugoslavia, ogni partita che la Croazia ha giocato nella fase a eliminazione diretta di un torneo è proseguita almeno fino ai tempi supplementari. Nel 2008 perse gli ottavi degli Europei ai rigori contro la Turchia; nel 2016 contro il Portogallo si fermò ai supplementari. Ai Mondiali di quattro anni fa arrivò in finale con la Francia dopo aver portato Danimarca, Russia e Inghilterra oltre i tempi regolamentari (nei primi due casi fino ai rigori). Due anni dopo, agli Europei, giocò per 120 minuti prima di essere eliminata dalla Spagna.

In questo Mondiale è andata fino ai rigori contro il Giappone agli ottavi di finale e poi nuovamente contro il Brasile in una delle partite più sorprendenti del torneo. Il Brasile, già ritenuta tra le grandi favorite, era sembrata fin lì la squadra più attrezzata per arrivare in finale. Dopo aver segnato il gol del vantaggio nel primo tempo supplementare ha però abbassato la guardia e così ha permesso alla Croazia di pareggiare con il suo unico tiro in porta della partita. Ai rigori, poi, i brasiliani hanno sbagliato il primo, andando subito in svantaggio (anche psicologico) e poi il quarto, quello decisivo.

La Croazia esulta dopo la vittoria ai rigori contro il Brasile (Lars Baron/Getty Images)

Dietro questi risultati c’è la prima parte, quella più apparente, della spiegazione sul successo che la Croazia, un paese con meno di 4 milioni di abitanti, sta avendo nel calcio non solo negli ultimi quattro anni — i migliori della sua storia — ma più o meno da quando si è resa indipendente dalla vecchia Jugoslavia, dato che nel 1998 esordì ai Mondiali con un terzo posto che in tanti ancora ricordano.

Questa Croazia rende ogni partita uno scontro fisico e psicologico che spesso per gli avversari diventa logorante e insostenibile perché, prima di ogni altra cosa, è formata da un gruppo di atleti di altissimo livello. Tra i convocati c’è chi eccelle anche in altri sport oltre al calcio, chi viene da famiglie di atleti professionisti e chi non smette di fare sport neanche quando finisce la stagione calcistica e potrebbe riposarsi.

Marcelo Brozović, centrocampista dell’Inter e titolare di questa Croazia, ha percorso quasi 17 chilometri in campo contro il Giappone, battendo il precedente record di distanza coperta da un giocatore in una partita di un Mondiale. Non se ne è parlato molto, forse perché Brozović si è “limitato” a battere un record che lui stesso deteneva dal 2018. Tra chi copre maggiore distanza ogni partita c’è anche Ivan Perisić, che a trentatré anni continua a essere uno degli esterni offensivi più prestanti e attivi in Europa. Come se non gli bastasse, nel tempo libero è anche un ottimo giocatore di beach volley e di tanto in tanto partecipa ai tornei del circuito mondiale.

L’altro esterno della Croazia è Nikola Vlasić, figlio di Josko, decatleta di successo tra gli anni Settanta e Ottanta, e fratello di Blanka, due volte campionessa mondiale di salto in alto. Tra gli attaccanti c’è Marko Livaja, che dopo una carriera passata anche tra Inter e Atalanta, ora è tornato a Spalato e talvolta lo si può vedere giocare nei tornei di calcio 3-contro-3 che si giocano sui campetti di cemento della città. E in tanti si ricorderanno ancora di Mario Mandžukić, il centravanti della squadra finalista del 2018, che nonostante fosse un giocatore di stazza alto 1 metro e 90 poteva giocare con grande impatto anche come esterno offensivo: una cosa che si vede raramente.

L’atletismo dei giocatori croati è diventato negli anni uno dei fattori che hanno contribuito a portarli al centro dei progetti di tante grandi squadre europee. Altri invece hanno trovato un loro mercato nei campionati dove corsa e fisicità sono le caratteristiche più richieste, come nel caso di Borna Barišić e Josip Juranović, terzini di Rangers e Celtic Glasgow nel campionato scozzese. Altri ancora hanno bruciato le tappe, come Josko Gvardiol, uno dei giocatori che hanno suscitato più interesse in questo Mondiale. Gvardiol ha esordito diciassettenne con la Dinamo Zagabria, da difensore centrale, e da lì non ha più smesso di giocare. L’anno successivo è stato comprato dal Lipsia per oltre 20 milioni di euro. Dal 2021 è titolare anche in Nazionale.

Tutto questo succede perché, come negli altri paesi dell’ex Jugoslavia, lo sport ha sempre fatto parte della cultura croata, diventando poi un elemento centrale della sua identità nazionale dopo l’indipendenza, e quindi una via per trovare risalto e successo anche in ambiti internazionali. Lo stesso vale per gli altri paesi limitrofi, due in particolare: Slovenia e Serbia, che riescono ad affermarsi ai più alti livelli di sport come ciclismo, basket, tennis e pallavolo, ma non ancora nel calcio.

Ed è proprio in questa differenza che si trovano le altre ragioni dietro il successo del calcio croato. Perché i risultati eccezionali che sta ottenendo in uno sport complesso dove la competitività è sempre più globale non sarebbero stati possibili senza la qualità di certi suoi giocatori, concentrati soprattutto a centrocampo, il reparto attorno al quale è costruita la squadra. Tra i titolari di questi Mondiali, Luka Modrić è il regista del Real Madrid nonché Pallone d’Oro del 2018; Brozović è il regista arretrato — e indispensabile — dell’Inter; Mateo Kovačić è stato per anni il sostituto di Modrić al Real Madrid, e ora è titolare al Chelsea (fino a qualche anno fa tra loro c’era anche Ivan Rakitić, titolare al Barcellona).

Neymar circondato da Modrić, Kovacić e Brozović (Francois Nel/Getty Images)

Modrić, Brozović e Kovačić sono cresciuti tutti nella Dinamo Zagabria, come altri dieci dei 26 convocati dall’allenatore Zlatko Dalić. La Dinamo è la squadra di riferimento del calcio croato, una sorta di nazionale sotto forma di club che da sempre attira i migliori giocatori del paese, oltre a essere l’unica croata che riesce a fornire prestazioni consistenti anche in Europa: proprio di recente è riuscita ad avanzare nei turni a eliminazione diretta delle coppe europee e a battere squadre sulla carta più forti come Atalanta, Tottenham e Chelsea.

La Dinamo ha una storia lunghissima iniziata oltre un secolo fa e una tradizione altrettanto lunga nel riconoscere e coltivare talenti. Da anni è costantemente tra i primi club al mondo per numero di giocatori cresciuti e poi ceduti nei maggiori campionati esteri: soltanto le accademie di Ajax e Partizan Belgrado le fanno concorrenza. E tanti dei suoi allenatori giovanili vengono poi richiesti di volta in volta da realtà molto ambiziose. Il più noto fra questi, Romeo Jozak, dopo essere stato per anni nell’accademia della Dinamo e aver fatto il direttore tecnico delle nazionali croate, è stato chiamato prima negli Stati Uniti per aiutare a impostare i metodi di lavoro nei settori giovanili, e poi dall’Arabia Saudita come direttore tecnico di tutte le nazionali.

Talenti e competenze sono stati però incanalati nelle giuste direzioni soltanto da pochi anni. C’è stato infatti un momento in particolare dopo il quale la Croazia è riuscita a sbloccare gran parte del potenziale del suo movimento, a differenza per esempio della Serbia, che produce tanti ottimi giocatori ma ha un sistema che tra club e nazionali ancora non funziona come potrebbe.

Per una ventina di anni, dal secondo posto ai Mondiali del 1998 alla finale del 2018, anche la Croazia era stata come la Serbia: faticava a proporre squadre competitive nonostante i giocatori non mancassero. Una delle ragioni dietro queste difficoltà trovava origine nella costituzione stessa del calcio croato, che come tutte le realtà sportive dell’ex Jugoslavia rimane tuttora gestito dallo Stato attraverso i suoi vari organi territoriali, dalle squadre di club alle nazionali: i club di proprietà dei privati rappresentano ancora delle eccezioni.

Tra gli anni Novanta e Duemila in questo sistema parastatale si crearono inevitabilmente dei poteri occulti che nel tempo si ingrossarono a tal punto da influenzare e di fatto bloccare l’intero movimento. La Dinamo Zagabria fu la squadra più coinvolta in questo sistema, dato che dal 2003 al 2016 fu gestita da un gruppo di dirigenti con a capo Zdravko Mamić, un personaggio irascibile e violento che arrivò ad assumere progressivamente il controllo incontrastato del club e parallelamente a privarlo di tanti dei suoi profitti, come stabilito nel 2021 dalla giustizia croata con una condanna a sei anni di carcere nei suoi confronti.

Ci sono voluti i casi giudiziari, e un tentativo di omicidio subito in un periodo di latitanza in Bosnia, per segnare il declino di Mamić e del suo entourage, di cui faceva parte anche il fratello Zoran, ex calciatore fino a poco tempo fa alla Dinamo con il doppio ruolo di allenatore e direttore sportivo. Da quando l’influenza della vecchia dirigenza è cessata — alcuni però dicono non sia completamente sparita — la Dinamo sta prosperando: ottiene risultati migliori in campo internazionale, continua a vendere tanti ottimi giocatori in tutta Europa, che però ora, a differenza di un tempo, riesce a sostituire investendo adeguatamente nel mercato per restare competitiva.

Dominik Livaković, portiere della Croazia e della Dinamo Zagabria (Alex Grimm/Getty Images)

Non è quindi un caso che i risultati recenti della Dinamo — e quindi l’affermazione di una nuova generazione di calciatori, rappresentata in primis dal portiere Dominik Livaković — coincidano con il miglior periodo nella storia della Nazionale. Da quando il calcio croato è stato “liberato” dalle tante ingerenze, anche il tifo ha smesso di contestare come faceva un tempo, spesso con iniziative clamorose come i fumogeni lanciati in campo a San Siro nel 2014 e la svastica disegnata sul campo di Spalato prima di una partita di qualificazione contro l’Italia.

Ora, visti i traguardi raggiunti dalla Nazionale maschile, c’è chi sostiene che il movimento croato possa arrivare finalmente a ritagliarsi un posto stabile ai livelli più alti anche tra i club: un po’ come riuscì negli anni Sessanta all’Olanda, che grazie al traino di una grande generazione — quella di Johan Cruijff — e di una squadra speciale — l’Ajax di Rinus Michels — divenne un punto di riferimento per il calcio, anche con meno di 20 milioni di abitanti e un campionato di piccole dimensioni.

Perché questo accada in Croazia c’è bisogno però che il suo potenziale ancora inespresso venga sbloccato, in particolare la situazione che riguarda l’Hajduk Spalato, la squadra della seconda città croata, l’unica che per storia e dimensioni può competere con la Dinamo. Da tempo l’Hajduk è in difficoltà e negli ultimi anni è stato superato anche da centri minori come Fiume e Osijek. Non vince un campionato dal 2005 e in Europa non riesce a competere. Eppure storicamente rappresenta l’altra parte della Croazia, quella meridionale e adriatica, e forma l’altra metà dei giocatori che poi finiscono nelle nazionali, come è stato per Ivan Perisić, Nikola Vlasić e Mario Pasalić.

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