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  • Venerdì 11 novembre 2022

Gli stragisti vanno chiamati per nome?

Jacinda Ardern non lo ha fatto con quello di Christchurch, per evitare di dargli ulteriore notorietà: è una richiesta ricorrente, ma ha i suoi limiti

Cartelli con i nomi delle persone uccise durante le stragi di Christchurch sugli spalti di uno stadio di calcio (Ashley Feder/ Getty Images)
Cartelli con i nomi delle persone uccise durante le stragi di Christchurch sugli spalti di uno stadio di calcio (Ashley Feder/ Getty Images)
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Martedì l’uomo responsabile di aver ucciso 51 persone nel 2019 in due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda, ha fatto ricorso in appello contro la sua condanna all’ergastolo. Commentando la vicenda, la prima ministra neozelandese Jacinda Ardern ha evitato di usare esplicitamente il nome dello stragista, il suprematista bianco Brenton Tarrant, come aveva detto che avrebbe fatto subito dopo gli attentati: è una scelta che secondo Ardern aiuterebbe a fare in modo che l’attentatore non ottenga la notorietà che cerca.

Quello relativo a Tarrant non è il primo caso in cui le autorità di un paese o le persone che commentano le stragi scelgono di non usare il nome degli assassini che le hanno compiute: è un’accortezza che da tempo chiedono di adottare alcune organizzazioni nate soprattutto negli Stati Uniti. La tesi è che questo limiti la possibilità che i loro gesti vengano validati, celebrati o imitati, e secondo questi movimenti dovrebbe essere rispettata soprattutto da chi si deve occupare di raccontarli al pubblico, cioè i media. È però una questione piuttosto spinosa, perché si intreccia con il diritto di cronaca e i principi di completezza di informazione, che hanno tradizionalmente orientato i giornali, compreso il Post, a fare invece i nomi di attentatori e stragisti, almeno nella maggior parte dei casi.

Nell’agosto del 2020 Tarrant fu condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale per l’omicidio di 51 persone, il tentato omicidio di altre 40 e per un capo d’accusa legato al terrorismo: la pena più severa prevista dalla giustizia neozelandese, che in precedenza non era mai stata inflitta. Parlando con i giornalisti, martedì Ardern ha detto che «il suo è un nome che non dovrebbe essere ripetuto» e che per questo avrebbe applicato «la stessa regola» nel riferirsi a quelli che ha definito «i suoi tentativi di tormentare di nuovo la gente».

Già dopo le stragi del 2019 Ardern aveva detto che con il suo «gesto di terrorismo [Tarrant] cercava molte cose, ma una di queste era la notorietà; ed è per questo che non mi sentirete mai pronunciare il suo nome». Prima di compiere le stragi Tarrant aveva pubblicato online un lungo manifesto che conteneva numerosi riferimenti ai temi classici della propaganda dei suprematisti bianchi e dell’estrema destra che prolifera su molti forum online, conosciuta come “alt right”; poi aveva mostrato la strage in diretta in un video condiviso su Facebook.

In un discorso molto sentito davanti al parlamento neozelandese, Ardern aveva detto: «Vi imploro, pronunciate i nomi delle persone che sono state perdute anziché il nome di colui che le ha prese. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma, quando parlerò io, non avrà un nome». Ancora oggi il governo neozelandese evita di citare espressamente il suo nome per non concedergli alcun tipo di esposizione. Martedì Ardern ha detto anche che «non bisognerebbe concedergli nulla».

Nell’ottobre del 2015, parlando del responsabile della strage all’Università di Roseburg (Oregon), in cui un uomo uccise nove persone, lo sceriffo della contea di Douglas John Hanlin disse che non avrebbe citato il nome dell’assalitore per non dargli «l’attenzione che probabilmente aveva cercato con questo atto orrendo e codardo». Nel giugno del 2016, quando un uomo uccise 49 persone e ne ferì 53 in una sparatoria in uno dei più noti locali gay di Orlando (in Florida), l’allora direttore dell’FBI James Comey adottò una strategia simile. In una conferenza stampa, Comey disse:

Noterete che non sto usando il nome dell’assassino e cercherò di non farlo. Parte di ciò che motiva le persone malate a fare questo genere di cose è una specie di concetto deviato di fama o gloria, e io non voglio farne parte per il bene delle vittime e delle loro famiglie, e per fare in modo che altre menti deviate non pensino che questo sia il percorso verso la fama e il riconoscimento.

La questione di come parlare delle stragi e dei loro autori è un argomento ricorrente, visto che episodi simili a quelli di Roseburg e Orlando negli Stati Uniti avvengono con una frequenza particolarmente alta, e generano ogni volta dibattiti anche sul modo in cui vengono raccontati da giornali e tv.

Vari studi dicono che gli attentatori sono spesso motivati dal desiderio di fama o comunque ambiscono a essere riconosciuti per il loro gesto. Quando i media danno molta attenzione alle loro storie e alle loro motivazioni, soprattutto nei paesi in cui eventi come le stragi si verificano più spesso, non solo gli stragisti ricevono questo riconoscimento, ma si genera anche una specie di “effetto contagio” che può portare altre persone a prenderli come ispirazione e replicare il loro comportamento. Il tono e l’enfasi usata dai media possono influire sulla probabilità che questo accada, in particolare nel caso delle stragi, che generalmente ricevono moltissima attenzione e su cui tendono a circolare numerose informazioni e dettagli che potrebbero essere presi come modello.

Per questa ragione soprattutto negli Stati Uniti sono nati vari movimenti che chiedono esplicitamente di non usare il nome degli stragisti se non dopo la prima identificazione e, più in generale, di evitare che i resoconti sugli omicidi o sulle stragi possano finire involontariamente per romanticizzarli.

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Uno di questi movimenti è No Notoriety (nessuna fama), un gruppo e un sito internet, spesso sostenuto dai membri delle famiglie delle persone uccise nelle stragi. Il movimento chiede alle agenzie di stampa di prendere posizione e di non pubblicare informazioni personali e altri dettagli sui responsabili delle stragi, tranne quando sono ancora ricercati; chiede inoltre di evitare di citare il nome e di mostrare l’aspetto dell’assassino dopo l’identificazione iniziale e di non diffondere le sue dichiarazioni.

Ha un obiettivo simile anche la campagna Don’t Name Them (non nominateli), creata dall’Advanced Law Enforcement Rapid Response Training, un centro dell’Università del Texas che si occupa di organizzare esercitazioni per insegnare i comportamenti da adottare durante una sparatoria. Sul sito della campagna, avviata in collaborazione con l’FBI, si legge che l’obiettivo è fare in modo che l’attenzione dei media «passi dalla persona sospettata di aver commesso un crimine alle vittime, alle persone sopravvissute e agli eroi».

È una posizione sostenuta anche da No Notoriety, secondo cui i nomi e l’aspetto delle persone uccise dovrebbero invece essere ampiamente diffusi per far passare il messaggio che le loro vite siano più importanti di quella dell’assalitore.

Le ragioni di questi movimenti, insomma, sono da una parte etiche, perché ritengono che sia sbagliato prestare più attenzione agli assassini che alle vittime. Ma sono anche pragmatiche, perché credono che soddisfare il desiderio di attenzione degli attentatori possa invogliare qualcuno a imitare i crimini. Per fare un esempio concreto, sempre sul sito della campagna “Don’t Name Them” si sottolinea che nella gran parte dei casi le persone si ricordano chi ha compiuto la strage alla Columbine High School, nel Colorado, nel 1999, o quella nella scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, nel 2012: quasi nessuno però ricorda i nomi delle persone uccise o quelli di chi era intervenuto per fermare le sparatorie.

Le rivendicazioni di questi gruppi sono state giudicate eccessivamente idealiste e poco realistiche da alcuni esperti e addetti ai lavori del settore dei media. Da una parte, infatti, i nomi e le motivazioni degli stragisti emergono ormai rapidamente sui social network, e per i media omettere questi elementi rappresenterebbe di fatto una mancanza che il pubblico andrebbe a soddisfare altrove, quasi sempre peraltro da fonti che non garantiscono lo stesso livello di accuratezza, contestualizzazione e prudenza dei giornali tradizionali.

Dall’altro, nomi, biografie e motivazioni di stragisti sono evidentemente elementi centrali per comprendere gli eventi di questo tipo, per capire da quali contesti e da quali disagi provengano. Sapere che negli Stati Uniti il suprematismo bianco ha causato diverse carneficine negli ultimi anni fa comprendere la gravità del problema che rappresenta, e può aiutare a combatterlo. Anche tra il pubblico, che per esempio potrebbe convincersi a non votare quei politici che hanno mostrato troppa indulgenza verso l’estrema destra.

Negli ultimi anni le associazioni di professionisti dell’informazione, ma anche le singole testate, si sono comunque date linee guida più approfondite rispetto ai codici etici e professionali su come parlare di stragi e omicidi, in qualche caso facendo riferimento proprio al loro ruolo nel dare risalto a comportamenti che potrebbero essere imitati.

La Radio Television Digital News Association, organizzazione degli addetti ai lavori del settore radiotelevisivo negli Stati Uniti, raccomanda per esempio di evitare contenuti sensazionalistici, di privilegiare le informazioni più pertinenti al contesto e «non cercare motivi semplici per spiegare eventi complessi». Il New York Times, osservando che spesso chi ha compiuto una strage si era prima documentato su altre stragi, sceglie tra le altre cose di non pubblicare sempre le foto degli assassini o delle persone sospettate di aver compiuto un omicidio di massa, evita di condividere le immagini in cui ostentano le loro armi e si rifiuta di pubblicare eventuali manifesti di propaganda.

Di recente NPR, organizzazione non profit che comprende centinaia di radio americane, si è chiesta in un articolo quale sia il modo più responsabile con cui la stampa debba raccontare le stragi, come quelle di Uvalde, Buffalo e Tulsa, tutte compiute negli ultimi mesi. In questo senso, secondo la professoressa dell’Università del Delaware Dannagal Young, che studia come i media si interessino di più a un certo tipo di eventi o di persone, la domanda che dovrebbero farsi sempre i giornalisti è: «cosa aiuterà gli americani a capire non solo il singolo evento, ma questo fenomeno più in generale?».

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Il medico dell’Università della California Garen Wintemute, che studia le stragi legate a violenze da armi da fuoco da oltre 30 anni, suggerisce per esempio che un modo per affrontare le stragi sia quello di trattarle come un’emergenza sanitaria pubblica: partire domandandosi da dove arrivino per poi chiedersi come vengano prodotte e amplificate e se si possa imparare abbastanza sui loro effetti da trovare una cura o prevenirle.

A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2017 sull’American Journal of Public Health, tra gli altri, suggerisce alcune accortezze con cui i giornalisti potrebbero affrontare l’argomento delle stragi, oltre a quella di non citare il nome degli assassini.

Secondo lo studio, i media potrebbero per esempio sottolineare come le azioni degli aggressori siano vergognose o codarde: valutazioni che però spesso i media anglosassoni tendono a evitare, attenendosi generalmente alla regola di non esprimere giudizi morali sulle vicende, anche in casi di efferatezze su cui ovviamente esiste un giudizio di condanna unanime.

Lo studio consiglia poi di evitare di dare dettagli troppo approfonditi sul loro passato o sui ragionamenti che avrebbero potuto portarli a commettere questi crimini. Dice che si dovrebbe anche evitare di dare copertura mediatica alle stragi per troppo tempo, presentare i fatti in maniera diretta «o persino noiosa» ed evitare sia ricostruzioni digitali drammatizzate, sia resoconti estremamente dettagliati su quello che un assassino ha fatto prima, durante o dopo una strage.

Sempre secondo lo studio, sarebbe anche utile che le forze dell’ordine organizzassero meno conferenze stampa subito dopo un omicidio o una strage, sostenendo che aumentino il desiderio di informazioni su questi eventi, contribuendo a renderli «per così dire eccitanti». In questo senso, diffondere note scritte potrebbe essere un altro strumento per evitare che un assassino abbia ancora più notorietà.

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Sempre NPR nel marzo del 2021 aveva riconosciuto di dover essere più cauta nella frequenza e nel modo in cui citava il nome delle persone sospettate di essere le responsabili di sparatorie di massa, domandandosi quando fosse appropriato nominarle e quando invece fosse il caso di evitarlo. Le linee guida dell’organizzazione sul tema sono riassunte in una breve frase: «Usa il nome dell’assassino con parsimonia e concentrati sulle vittime». Il suggerimento in ogni caso è quello di «limitare l’uso del nome della persona che ha sparato, quando possibile».

Gerry Holmes, direttore operativo della pianificazione e dello sviluppo di NPR, ha chiarito che una persona che ha sparato viene citata «quando quella è la notizia e dobbiamo coprirla […] per aiutare il pubblico a capire le sue possibili motivazioni». Nei servizi successivi invece il suo nome viene usato, «ma con giudizio, se è importante per aiutare a capire quello che è successo mentre si racconta la storia». Nei casi delle sparatorie di massa comunque l’obiettivo è quello di concentrarsi sulle persone uccise ed evitare di dare alla persona sospettata «ulteriore notorietà».

Le linee guida di NPR dicono anche di evitare di pubblicare foto degli aggressori in posa con armi o equipaggiamento di vario tipo e immagini che potrebbero aiutare a celebrarli sui social network. Raccomandano di chiedere sempre il parere di un redattore con esperienza prima di usare gli estratti di manifesti o le dichiarazioni degli assassini, e di farlo solo se sono accompagnate da analisi o commenti di un esperto. Tra le altre cose, prevedono che sia menzionata l’etnia di un aggressore solo se è rilevante per la storia, specificando che lo è nel caso in cui sia rilevante l’etnia della persona aggredita.