40 anni fa decidemmo di non cacciare più le balene
Dopo decenni di stermini, nel 1982 fu approvata una moratoria grazie alla quale molte specie di cetacei non si sono estinte
Oggi potrebbe sembrare un controsenso che l’organizzazione internazionale che si occupa di preservare le specie di cetacei esistenti si chiami International Whaling Commission (IWC), che letteralmente significa “Commissione internazionale per la caccia alle balene”. Ma quando questo ente fu fondato, nel 1946, aveva lo scopo di regolamentare la caccia a fini commerciali dei cetacei, fissando delle quote di animali che ciascun paese membro poteva uccidere. Tecnicamente è tuttora così, solo che dal 1986 le quote sono pari a zero per ogni paese. Nel corso del Novecento infatti la caccia portò quasi all’estinzione la maggior parte delle specie di balene e per questo il 23 luglio 1982 l’IWC approvò una moratoria alla caccia che va avanti tuttora.
Per secoli la caccia ai cetacei fornì all’umanità materie prime importanti: per le società che vivevano nelle zone costiere e che la praticavano la carne, prima di tutto; per le altre soprattutto l’olio di balena, che si otteneva dalle abbondanti riserve di grasso dei cetacei e veniva usato sia come alimento che come combustibile per le lampade, prima che si cominciassero a usare il petrolio e i suoi derivati. Anche le ossa di balena venivano utilizzate per molteplici scopi, ad esempio per realizzare i busti indossati dalle donne.
Più o meno fino alla seconda metà dell’Ottocento, la caccia veniva praticata usando arpioni e barche a remi o a vela, mezzi che rendevano questa attività rischiosa e non sempre efficace. Per questo nonostante l’olio di balena fosse sempre più richiesto e ci fossero sempre più cacciatori, il numero di cetacei uccisi ogni anno era relativamente limitato e consentiva alle popolazioni di riprodursi in tempi adeguati e continuare a sopravvivere.
Le cose cambiarono verso la fine del secolo, in modo paradossale. Nello stesso momento in cui il petrolio cominciò a essere sfruttato al posto dell’olio di balena per lampade e il gas per illuminare le strade di notte, la caccia ai cetacei aumentò e divenne un settore industriale. Il petrolio infatti permise di praticarla su navi a motore, più veloci. Peraltro specie che fino a quel momento non potevano essere cacciate perché troppo veloci per le barche a vela, come le balenottere azzurre, gli animali più grandi del mondo, divennero vulnerabili. Nel giro di qualche decennio ne venne ucciso circa il 90 per cento.
In quello stesso periodo lo sviluppo dell’industria permise di trovare nuovi utilizzi per le diverse parti del corpo dei cetacei: vennero usate per produrre fertilizzanti, lubrificanti, esplosivi, cibo per cani e gatti (ma anche per i visoni allevati per la loro pelliccia), aromi per zuppe industriali e addirittura margarina.
Come racconta il biologo statunitense Carl Safina, esperto di comportamento animale, nel suo saggio Animali non umani, si stima che tra il Settecento e l’Ottocento, in due secoli dunque, furono uccisi circa 300mila capodogli: in soli 60 anni a cavallo tra Ottocento e Novecento quel numero venne uguagliato, e unicamente negli anni Sessanta raddoppiato. Certe specie di cetacei risentirono della caccia industriale più di altre e in certe zone dell’oceano alcune si estinsero e tuttora non si trovano.
Dato che gli effetti della caccia senza limiti erano diventati evidenti anche ai balenieri, nel 1946 i paesi che praticavano la caccia ai cetacei si riunirono nell’IWC, per preservare la caccia «dall’imminente sterminio dei cetacei causato dalla caccia» stessa, spiega Safina:
Questo circolo vizioso condannò la commissione alla paralisi. Mediocri burocrati inviati agli incontri dalle nazioni interessate si destreggiavano inscenando delle farse per «valutare» quante uccisioni si sarebbero autoconsentite. Erano tutti in competizione per assicurarsi parte d’una quota complessiva; pertanto, disporre di una quota complessiva ingente significava aggiudicarsi porzioni più cospicue.
Per questo per molti anni l’IWC si limitò ad avallare un aumento del numero di cetacei uccisi ogni anno, invece che regolamentarlo. Le quote peraltro erano calcolate molto arbitrariamente, senza tener conto del tasso di riproduzione delle diverse specie e di quanti animali fossero ancora in circolazione per ciascuna di esse. Al contempo i numeri di animali cacciati venivano costantemente ritoccati al ribasso dai balenieri, per cui in realtà ne venivano uccisi molti di più di quanto dichiarato.
Se poi le cose cambiarono fu anche grazie alla diversa considerazione dei cetacei che si diffuse nel mondo a partire dal Dopoguerra. Per secoli questi animali erano stati visti principalmente come mostri – basti pensare al mito del Leviatano o al celebre romanzo di Herman Melville Moby Dick, che parla della caccia a un capodoglio – o al meglio come concorrenti nella pesca, soprattutto per quanto riguarda i delfini. Gli studi scientifici sulla loro vita, sul loro comportamento e sulla loro intelligenza però cambiarono l’opinione che le persone avevano di questi animali.
In particolare, ci fu un disco che ebbe una grande influenza.
Negli anni Sessanta il biologo americano Roger Payne scoprì che durante la stagione degli accoppiamenti le megattere comunicano tra loro con “canti” molto complessi e affascinanti, con cui sono in grado di tenersi in contatto a migliaia di chilometri di distanza dalle proprie simili. Payne registrò questi canti e nel 1970 li fece conoscere al mondo con il disco Songs of the Humpback Whale (letteralmente “Le canzoni della megattera”), che vendette più di 100mila copie, un record per le registrazioni di suoni naturali. Si dice che ebbe un ruolo rilevante nello spingere gli Stati Uniti ad abbandonare la caccia alle balene nel 1972 e a proporre all’IWC una moratoria globale lo stesso anno. Anche l’impegno di molte organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace, i cui attivisti si avvicinavano alle baleniere per documentarne l’attività, fece la sua parte.
Ci vollero dieci anni comunque perché se ne parlasse seriamente: nel frattempo il Giappone e l’Unione Sovietica in particolare continuarono a cercare di aumentare le proprie quote di cetacei da cacciare annualmente, mentre l’opposizione internazionale alla caccia ai cetacei aumentava sempre di più.
Infine nel 1982 l’IWC approvò una risoluzione in cui dichiarava che entro il 1986 la quota di balene da uccidere ogni anno sarebbe stata pari a 0 per tutti i paesi per dieci anni. Alcuni paesi riuscirono a trovare delle scappatoie, e altri uscirono dall’IWC per continuare a praticare la caccia ai cetacei, ma in buona parte le uccisioni di balene furono fermate e da allora molte specie arrivate vicine all’estinzione si sono riprese. Ad esempio, di recente uno studio dell’Università di Amburgo e dell’Istituto Alfred Wegener per la ricerca marina e polare ha dimostrato che la popolazione di balenottere comuni dell’oceano Antartico è tornata a essere numerosa. E tra le megattere i tassi di riproduzione sono molto aumentati.
Oggi, nonostante le grandi critiche a livello internazionale, la Norvegia e il Giappone continuano a praticare la caccia alle balene. In teoria anche l’Islanda, che però negli ultimi anni l’ha molto ridotta e potrebbe abbandonarla nel 2024. Nel paese è rimasta un’unica azienda che caccia i cetacei, la Hvalur, e recentemente il suo mercato si è molto ristretto: nel 2019 il Giappone, che è più o meno l’unico paese in cui la carne di cetacei si mangia, ha ripreso ufficialmente a praticare la caccia alle balene (lo faceva anche prima, in misura minore, sostenendo che fosse per ragioni di ricerca scientifica) e da allora ha smesso di acquistare la carne islandese. Nel 2023 scadrà la licenza per la caccia di Hvalur e una parte dell’attuale governo islandese sembra intenzionata a non rinnovarla.
Secondo i più recenti dati dell’IWC nel 2020 sono state uccise 810 balene a fini commerciali.
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