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  • Sabato 2 luglio 2022

L’esperimento che provò a insegnare a parlare a un delfino

Negli anni Sessanta fece scandalo perché la sperimentatrice che viveva con lui lo masturbava, ma anche per questo ha ispirato vari romanzi

Un dettaglio della copertina di "La casa dei delfini" di Audrey Schulman (E/O)
Un dettaglio della copertina di "La casa dei delfini" di Audrey Schulman (E/O)

«A volte, mentre veniva generato il suono, aveva visto lo sfiatatoio stringersi o allargarsi. E là sotto, qualsiasi fosse l’organo responsabile, non c’erano denti, lingua o labbra. Chiedere a un delfino di pronunciare delle parole da uno sfiatatoio era come chiedere a un cavallo di cantare». Cora, la protagonista del romanzo La casa dei delfini, da poco pubblicato da E/O, fa questa riflessione quando Blum, lo scienziato per cui lavora come addestratrice di delfini, le spiega che lo scopo dei suoi studi è insegnare loro a parlare in inglese. L’idea potrebbe sembrare molto inverosimile anche ai lettori, se non fosse che il romanzo, scritto dalla canadese Audrey Schulman, è ispirato a un esperimento realizzato per davvero a metà degli anni Sessanta a Saint Thomas, nelle Isole Vergini americane, che fanno parte degli Stati Uniti.

La casa dei delfini è solo l’ultimo di una serie di prodotti culturali – romanzi, un film, opere d’arte e uno sketch comico – ispirati a quell’esperimento. Benché non abbia portato a risultati scientifici significativi, l’idea su cui era basato – cioè che fosse possibile comunicare verbalmente con altre specie animali – continua a essere affascinante. Come lo è la ragione per cui l’esperimento era stato finanziato dalla NASA: si pensava che avrebbe potuto aiutare a capire come comunicare con specie extraterrestri intelligenti, nel caso fossero state trovate. La storia dell’esperimento inoltre suscitò e continua a suscitare fantasie, anche per due aspetti controversi: fu somministrato dell’LSD ad alcuni delfini coinvolti e la sperimentatrice che viveva con uno di loro, Margaret Howe, era solita masturbarlo.

Lo scienziato a capo dell’esperimento di Saint Thomas – e che ha fatto da modello per il personaggio di Blum – si chiamava John Lilly ed era un medico di formazione. Alla fine degli anni Quaranta, un’epoca in cui i cetacei non avevano ancora la reputazione di animali intelligenti che hanno oggi, Lilly rimase molto colpito dalla dimensione del cervello di un globicefalo che si era spiaggiato vicino a casa sua, in Massachusetts. Successivamente ebbe modo di studiare il cervello di alcuni delfini vivi con sonde molto sottili: le usava per stimolare diverse parti degli organi e verificarne gli effetti. Fu durante una di queste operazioni, nel 1957, che Lilly si convinse della possibilità di insegnare ai delfini a parlare.

Una precisazione necessaria: le analisi con le sonde venivano svolte con gli animali svegli perché, dato che la respirazione dei delfini è volontaria, se sedati smettono di respirare e muoiono. Dunque quel giorno il delfino operato era in grado di sentire ciò che Lilly e la sua assistente dicevano mentre gli esaminavano il cervello e, per qualche ragione, cominciò a fare dei versi che imitavano i loro toni di voce. Ad accorgersene fu la moglie di Lilly, Mary, che qualche anno fa lo raccontò a Christopher Riley, autore di The Girl Who Talked to Dolphins, un documentario di BBC sulla storia dell’esperimento di Saint Thomas.

Lilly scrisse della sua teoria sulla possibilità di comunicare con i delfini in un saggio che fu pubblicato nel 1961 ed ebbe un grande successo: Man and Dolphin. Il libro era abbastanza visionario: immaginava che si potesse insegnare ai delfini a parlare in inglese e che forse, in futuro, si sarebbe potuto istituire un seggio della nazione cetacea alle Nazioni Unite.

Lo stesso anno, a novembre, Lilly fu invitato a partecipare a un incontro di scienziati al National Radio Astronomy Observatory di Green Bank, in West Virginia. Scopo della riunione era capire come proseguire il SETI, un programma scientifico dedicato alla ricerca di forme di vita intelligenti su altri pianeti (“SETI” è l’acronimo di “search for extra-terrestrial intelligence”), che si era arenato dopo che per tre mesi il radiotelescopio di Green Bank era stato usato per cercare segnali di vita attorno a due stelle relativamente vicine al Sole, non trovando assolutamente nulla. All’incontro erano stati invitati tutti gli scienziati, in prevalenza fisici, che in un modo o nell’altro avevano fatto delle riflessioni sulla ricerca di vita extraterrestre: Lilly fu interpellato perché considerato la persona più vicina ad aver parlato con un’intelligenza non umana e il suo intervento ebbe un successo tale che il gruppo di scienziati scelse di adottare come soprannome collettivo “l’Ordine del delfino”.

Grazie all’interesse dell’Ordine del delfino per le sue ricerche, Lilly ottenne finanziamenti dalla NASA e da altre agenzie governative statunitensi. In quegli anni stava lavorando al Communication Research Institute delle Isole vergini americane, un centro di ricerca all’epoca diretto dal celebre antropologo Gregory Bateson, che in quegli anni collaborò ad alcune delle ricerche più innovative nel campo della comunicazione, e che a Saint Thomas si occupava di quella tra animali. Il centro si trovava in una villa affacciata sul mare costruita di fianco a una laguna, in cui vivevano tre delfini.

A questo punto della storia cominciò il ruolo di Margaret Howe (spesso chiamata Margaret Lovatt nei resoconti dell’esperimento: è il suo cognome da sposata). Howe non era una scienziata, anzi: nel 1964, prima di scoprire il Communication Research Institute, aveva 20 anni e lavorava in un hotel di Saint Thomas dopo aver mollato gli studi universitari. Sapeva che sull’isola c’era un laboratorio in cui venivano studiati i delfini e ci andò a proporsi per un qualsiasi tipo di lavoro. Bateson, colpito dalla sua intraprendenza, le propose di passare del tempo a guardare i delfini e prendere nota di ciò che vedeva.

Dato che si dimostrò una brava osservatrice, Howe venne integrata nel gruppo di ricerca e in particolare negli studi di Lilly. Il suo lavoro consisteva nel cercare di addestrare i delfini a produrre suoni simili alle parole umane. A un certo punto, per ottenere risultati migliori, propose a Lilly di iniziare una vera e propria convivenza con uno dei delfini – il più giovane, un maschio chiamato Peter che fino a quel momento non aveva ricevuto “addestramenti linguistici” – per costruire con lui un rapporto simile a quello tra una madre e un bambino piccolo, e provare a insegnargli l’inglese in modo simile. Da progetto Howe avrebbe vissuto con Peter per sei mesi, sei giorni a settimana, in un alloggio in cui potessero stare a strettissimo contatto: «Costruitemi un appartamento e allagatelo fino a una certa altezza», dice Cora per spiegare il concetto in La casa dei delfini, dove questo spazio viene chiamato “Casacquario”.

Ci vollero diversi mesi per costruirlo, fu pronto nell’estate del 1965.


I risultati dell’esperimento non furono mai pubblicati su una rivista scientifica, dunque è difficile capire in modo rigoroso cosa riuscì a ottenere Howe da Peter. Tuttavia in alcune registrazioni delle “lezioni” che impartì al delfino si sente che Peter effettivamente trovava dei modi per imitare alcune parole di Howe: i numeri da 1 a 5, il saluto “hello” e addirittura il nome “Margaret”. Ovviamente non le “pronunciava” con la bocca, perché i delfini non emettono suoni in modo simile alle persone, ma utilizzando dei sacchi pieni d’aria che si trovano appena sotto lo sfiatatoio, e che permettono loro di fischiare.

In The Girl Who Talked to Dolphins sono contenute queste registrazioni, e si vedono delle immagini di Howe con il viso truccato in modo da far vedere meglio a Peter la forma della sua bocca e quindi il modo in cui questa si muoveva nel parlare. Nel documentario Howe spiega una tecnica che Peter aveva trovato per provare a pronunciare alcuni suoni che la sua anatomia gli impediva di riprodurre: «Provavo a insegnargli “Hello, Margaret”, il mio nome, e la M per lui era semplicemente impossibile. Ma a un certo punto iniziò a girarsi per renderla con il suono delle bolle che il suo sfiatatoio faceva nel momento in cui si immergeva». (Nel video si può sentire intorno al minuto 1:35.)


In La casa dei delfini Audrey Schulman immagina che l’esperimento di Howe fosse riuscito molto di più, e il delfino del romanzo, Junior, riesce a imparare molte più parole rispetto a quelle che riproduceva Peter. Sembra anche aver compreso il significato di alcune di queste, mentre Howe non ebbe mai la certezza che Peter, ad esempio, sapesse che “Margaret” era il suo nome. Il seguito della storia del romanzo invece ripercorre in una certa misura ciò che accadde a Howe e Peter, anche se con toni ben più drammatici.

L’esperimento di Howe divenne oggetto di pettegolezzi e articoli di stampa scandalistica dopo che si venne a sapere che per facilitare la convivenza con Peter e svolgere più proficuamente le lezioni di inglese, la sperimentatrice era solita masturbarlo. I delfini – come gli esseri umani – sono animali che hanno comportamenti sessuali anche non a scopo riproduttivo, sono stati osservati mentre si masturbavano o stimolavano gli organi genitali di altri delfini usando le pinne. Peter quindi si strofinava spesso contro le ginocchia, i piedi o le mani di Howe per istinti sessuali, in modo simile a un cane in calore. «All’inizio quando succedeva lo riportavo nella laguna con le due delfine del centro», ha raccontato Howe. Farlo però significava interrompere a lungo le lezioni e dato che Peter si eccitava molto spesso, Howe decise di intervenire direttamente, usando le mani. «Non era una cosa sgradevole per me, almeno finché lui non diventava molto impetuoso. Divenne una parte di quello che stavo facendo ed era come un prurito: qualcosa di cui ti devi disfare, gratti e vai avanti».

Nelle occasioni in cui è stata intervistata Howe ha sempre specificato che «non era una cosa sessuale» per lei, ma questo aspetto del suo rapporto con Peter fu raccontato con approcci scandalistici in varie occasioni. A fine anni Settanta ad esempio la rivista pornografica Hustler pubblicò un articolo sull’esperimento intitolato “Sesso interspecie: umani e delfini”.

Non fu però la pubblicazione di quell’articolo a determinare la fine degli esperimenti di Howe con i delfini, come sembra suggerire, per ragioni narrative, La casa dei delfini. Dopo l’iniziale consenso, Lilly perse sempre di più l’appoggio del resto della comunità scientifica e i finanziamenti che aveva ottenuto per via dei metodi poco ortodossi che utilizzava.

Tra le altre cose, in quanto neuroscienziato, aveva ricevuto l’autorizzazione da parte del governo americano a utilizzare una sostanza che in quegli anni era oggetto di molti esperimenti nel campo della psichiatria e non era ancora illegale: l’LSD. Nel 1964 Lilly iniziò a iniettarla ai delfini che studiava – fatta eccezione per Peter, perché Howe era contraria e glielo impedì – con l’idea che lo psichedelico avrebbero ampliato le loro percezioni in modo simile a come fa agli umani, spingendoli a essere più comunicativi. La sostanza tuttavia non ebbe alcun effetto sui delfini, apparentemente.

In generale gli approcci di Lilly alla ricerca sui delfini, poco attenti al benessere degli animali, e il suo avvicinarsi sempre di più a un atteggiamento mistico e poco scientifico nei confronti dei suoi oggetti di studio, portarono alla chiusura del laboratorio, peraltro poco tempo dopo la fine dell’esperimento di Howe.

Ancora oggi quelle ricerche sono mal giudicate dalla comunità scientifica. Il biologo statunitense Carl Safina, esperto di comportamento animale, ne parla in questi termini in Al di là delle parole. Che cosa provano e pensano gli animali: «Lo studio accademico sull’intelligenza dei delfini partì con il piede sbagliato, e la cosa costò circa dieci anni di progresso. Per certi versi, lo studio su questo tema non si è più ripreso dai danni causati dal primo ricercatore famoso che ammantò questi animali di un fascino misterioso del quale non si sono ancora spogliati del tutto».

Dopo la chiusura del centro di Saint Thomas Howe fu incaricata di smantellarlo e preparare i delfini a essere mandati in un altro laboratorio dove Lilly lavorava, a Miami, in Florida. Lì le vasche erano al chiuso e avevano dimensioni minori. Si pensa che per queste ragioni, oltre che per la scomparsa di Howe dalla sua vita, Peter patì molto il trasferimento: poche settimane dopo, Lilly telefonò a Howe per dirle che «Peter si era suicidato», cioè era andato sul fondo della sua vasca e non era più riemerso per respirare, un comportamento che è stato osservato più volte nei delfini in cattività. Howe ha raccontato che non si sentì davvero triste apprendendo la notizia: «Ero più infelice prima, sapendo che era rinchiuso in quelle condizioni. Meglio non essere più nulla per lui. Nessuno lo avrebbe più disturbato, non sarebbe più stato ferito o triste. Se n’era andato ed era ok».

Negli anni successivi Lilly continuò a fare esperimenti sui delfini, spesso ancora più bizzarri. Howe rimase a Saint Thomas, si sposò con un fotografo che aveva fatto alcune delle fotografie esistenti di lei e Peter e insieme trasformarono il laboratorio di Lilly in una casa; ebbero tre figlie.

Per quanto riguarda i delfini, e non solo quelli con cui Llily ebbe a che fare, nessun altro da allora ha provato a insegnare loro l’inglese, o un’altra lingua umana. La ricerca scientifica sui metodi per comunicare con forme di vita extraterrestri però ha continuato a interessarsi agli studi su come altre specie animali comunicano tra loro. Secondo l’astrofisico Frank Drake, fondatore del SETI insieme a Carl Sagan, uno dei problemi degli esperimenti di Lilly era che non cercavano di capire il “delfinese”, o di scoprire se il “delfinese” esistesse. Drake ha spiegato a Christopher Riley: «Suggerimmo di mettere due delfini in due vasche diverse, vicine, ma messe in modo che non si potessero vedere tra loro, e di insegnare a uno dei due una procedura per ottenere cibo, per poi verificare se fosse in grado di comunicarla all’altro delfino. Avrebbe dovuto essere il più importante esperimento da fare, ma Lilly apparentemente non ci riuscì».

Perché la comunicazione con altre specie terrestri possa essere davvero presa a modello per eventuali comunicazioni con extraterrestri, spiega il giornalista Daniel Oberhaus in Extraterrestrial languages, un saggio che ripercorre la storia del SETI e non solo, bisogna assicurarsi che la “lingua” usata dagli animali in questione (come potrebbe essere il “delfinese”) sia non solo un sistema di comunicazione ma anche un’espressione del pensiero, e che quindi la specie sia capace di pensiero.

Negli anni Settanta altri scienziati si sono messi a studiare l’intelligenza e le forme di comunicazione dei delfini e di altri cetacei, ma non possiamo ancora dire con sicurezza che i delfini siano capaci di pensiero. Sappiamo che i delfini si riferiscono ad altri delfini utilizzando specifici suoni (cosa che suggerisce che abbiano dei nomi) e sono capaci di capire istruzioni date attraverso segnali, fino a cinque diversi, che gli erano stati insegnati in precedenza.

Denise Herzing è una studiosa che ha passato gran parte della propria vita professionale con i delfini e che dal 1985 osserva la stessa comunità di delfini, generazione dopo generazione, alle Bahamas. Lavora da tempo a un progetto per provare a instaurare una comunicazione interspecie, che però non passi per l’insegnare una lingua umana ai delfini, ma da un traduttore in grado di fare “parlare” le persone in una specie di “delfinese”. Negli ultimi decenni ha collaborato con altri scienziati per costruire un dispositivo chiamato Cetacean Hearing and Telemetry (CHAT) e formato da un piccolo computer collegato a due idrofoni, sostanzialmente dei microfoni subacquei. Il computer dovrebbe registrare i diversi suoni emessi dai delfini (ultrasuoni inclusi) e indicare gli animali che li hanno emessi; inoltre dovrebbe emettere suoni artificiali simili a quelli prodotti dai delfini, ma sufficientemente diversi, in modo da creare un nuovo sistema di comunicazione comune alle due specie.

In tutto ciò, se è vero che gli studi di Lilly sui delfini non sono stati determinanti in ambito scientifico, hanno sicuramente avuto una grossa influenza nel modo in cui, nella cultura generale, pensiamo a questi animali. Ben prima di La casa dei delfini, altri romanzi sono stati ispirati dall’esperimento. Già nel 1963 uscì il libro per ragazzi Dolphin Island dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, su un brillante professore che cerca di comunicare con i delfini. Nel 1967 uscì La notte dei delfini, dello scrittore francese Robert Merle: nel libro, da cui fu poi tratto il film Il giorno del delfino (1973) di Mike Nichols, uno scienziato americano riesce a insegnare l’inglese a due delfini, che poi vengono rapiti per essere sfruttati nel contesto della Guerra fredda.


Nel 1981 invece fu pubblicato Easy Travel to Other Planets dello scrittore statunitense Ted Mooney, che riprende sia la storia di Howe che l’idea che i delfini possano avere un ruolo nel rapporto con specie extraterrestri in un certo senso, almeno nel titolo: è ambientato in un futuro prossimo vicino a una guerra mondiale in cui una donna di nome Melissa vive in una casa allagata insieme a un delfino, Peter, a cui insegna a parlare e di cui diventa l’amante; l’easy travel, “viaggio facile”, del titolo fa riferimento al fatto che secondo le saghe orali che i delfini si trasmettono tra loro, gli umani sono ossessionati dal trovare «modi di viaggiare più lontano, più velocemente e in modo più agevole». I delfini sono invece una vera e propria specie extraterrestre in Addio, e grazie per tutto il pesce, il quarto romanzo della serie Guida galattica per gli autostoppisti dello scrittore britannico Douglas Adams.

La casa dei delfini è il romanzo che segue più da vicino la vicenda di Howe e Peter, che Schulman ha scelto per trattare alcuni temi che le stavano a cuore: il sessismo a cui erano sottoposte le donne negli anni Sessanta, specialmente nella comunità scientifica, le forti divisioni tra i generi di quel periodo, ma anche lo scarso rispetto mostrato per altre specie animali dagli umani e le discriminazioni subite dalle persone con disabilità – nel romanzo Cora, il personaggio ispirato a Howe, è in parte sorda.

La storia dell’esperimento ha ispirato anche opere d’arte e – attraverso il documentario di Riley prodotto da BBC – una parodia del Saturday Night Live.


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