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  • Giovedì 7 luglio 2022

Che paese è la Papua Nuova Guinea

Ha una situazione politica molto frammentata e la vita è piuttosto complessa: lunedì sono cominciate le elezioni generali, che dureranno quasi tre settimane

Persone di una tribù indigena durante un evento culturale a Port Moresby, la capitale della Papua Nuova Guinea, nel novembre del 2018 (AP Photo/ Aaron Favila)
Persone di una tribù indigena durante un evento culturale a Port Moresby, la capitale della Papua Nuova Guinea, nel novembre del 2018 (AP Photo/ Aaron Favila)
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Lunedì sono cominciate le elezioni generali in Papua Nuova Guinea, paese che occupa la parte orientale dell’isola di Nuova Guinea e alcune isole a nord dell’Australia. Con una votazione che si svolgerà nell’arco di quasi tre settimane, gli elettori papuani sceglieranno chi governerà per i prossimi cinque anni il paese, che è uno dei più frammentati dell’area, sia a livello etnico che politico, e per certi versi anche uno dei più inospitali.

Saranno risultati importanti non soltanto per il futuro dei circa 9 milioni di papuani, ma anche per gli equilibri dell’area del Pacifico meridionale, dove da tempo sono in corso grandi tensioni per via della crescente influenza esercitata dalla Cina.

La Papua Nuova Guinea fu una colonia amministrata in parte dall’Impero tedesco e in parte dall’Impero britannico. È un paese indipendente dal 1975, quando smise di essere controllata dall’Australia, e fa parte del Commonwealth, l’insieme di paesi che erano parte dell’Impero Britannico e che dopo l’indipendenza hanno mantenuto legami più o meno formali con la corona inglese. È uno dei paesi più popolosi tra quelli del Sud Pacifico, composto perlopiù da piccoli stati insulari e arcipelaghi, ed è anche uno di quelli con la popolazione più variegata: la maggior parte dei suoi abitanti è di etnia melanesiana e di religione cristiana e la lingua ufficiale per il commercio è l’inglese, ma esistono moltissime tribù indigene che vivono nelle aree più remote del paese e parlano oltre 800 lingue diverse.

Buona parte del suo territorio è montuoso e il clima è di tipo tropicale, con piogge frequenti e intense praticamente tutto l’anno, in particolare da ottobre a maggio. Queste caratteristiche fanno sì che le persone che vivono nell’entroterra si mantengano perlopiù grazie all’agricoltura di sussistenza, e le altre grazie alla silvicoltura (cioè la coltivazione dei boschi) e alla pesca. Dagli anni Settanta, comunque, l’economia del paese ha cominciato a migliorare grazie alla scoperta di giacimenti di oro, rame, gas naturale e petrolio greggio, che hanno favorito lo sviluppo delle attività minerarie.

La rapida crescita della popolazione riscontrata soprattutto tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ha però portato numerosi problemi, che spesso esistono ancora oggi: di frequente non è garantito l’accesso ai servizi di base, come quelli sanitari o scolastici, e la disoccupazione e la sottoccupazione hanno esacerbato la povertà, facendo aumentare di conseguenza le tensioni tra vari gruppi etnici e la criminalità, specie nelle aree urbane.

Nelle zone più remote della Papua Nuova Guinea, dove mancano la maggior parte dei servizi, a partire dalle strade, molte comunità vivono ancora organizzate come tribù e spesso si verificano episodi di violenza legati a furti e dispute territoriali. Come hanno osservato varie organizzazioni che si occupano di diritti umani, una delle preoccupazioni più grosse rispetto al paese è quella delle violenze di genere. Secondo un’indagine di un gruppo parlamentare, in media in Papua Nuova Guinea una donna viene picchiata ogni trenta secondi, nella gran parte dei casi dal marito o dal compagno. In totale, si stima che ogni anno più di 1,5 milioni di donne subiscano violenze di genere.

Negli ultimi cinque anni non c’è stata neanche una donna al governo. Dal 1975 sono state solo 7 le donne che hanno avuto un ruolo come ministre.

Anche le elezioni risentono dei grossi problemi strutturali del paese e sono generalmente caratterizzate da brogli, corruzione, violenze e intimidazioni, ma soprattutto da una grande carenza organizzativa.

Le operazioni di voto durano settimane (quest’anno vanno dal 4 al 22 luglio), così come quelle per lo spoglio, per via dell’assenza di strutture adeguate e di problemi logistici che rendono l’organizzazione delle elezioni complessa e costosa: il materiale elettorale e gli addetti alle operazioni non sono moltissimi, e devono avere il tempo di spostarsi fisicamente da una zona all’altra del paese, che ha una superficie di poco inferiore a quella della Spagna; in più il maltempo, l’assenza di strade in vari punti dell’entroterra e una rete di trasporti pubblici inefficienti spesso complicano la vita a chi si deve spostare per votare.

Migliaia di elettori che avrebbero diritto di votare non riescono a farlo perché a causa di un sistema elettorale incompleto e antiquato non trovano il proprio nome sui registri elettorali; altri invece votano col nome di altri elettori, eludendo i controlli. Durante le ultime votazioni generali, nel 2017, più di 200 persone erano state uccise per varie tensioni etniche o politiche emerse durante la campagna elettorale, nella fase degli scrutini o dopo la conclusione degli spogli: da maggio a oggi almeno 30 sono state uccise sempre per motivi legati alle elezioni, secondo fonti citate dal Guardian.

– Leggi anche: Le complicate elezioni del 2017 in Papua Nuova Guinea

Alle elezioni generali di queste settimane si sono presentati 2.351 candidati (142 donne), tra cui verranno scelte le 118 persone che occuperanno i seggi del parlamento unicamerale. Dal momento che i partiti candidati sono più di 50, è praticamente scontato che nessuno di questi riuscirà a ottenere maggioranza: come è accaduto anche in passato, dopo il voto i partiti che avranno ottenuto più seggi dovranno trovare un accordo per formare una coalizione di governo, e il leader della coalizione sarà nominato primo ministro. Si prevede che anche questa fase duri alcune settimane.

I candidati più in vista sono l’attuale primo ministro James Marape, del partito Pangu, di orientamento nazionalista e centrista, e il suo predecessore, Peter O’Neill, del Congresso nazionale del popolo (PNC), un partito populista. Marape, ex ministro delle Finanze ed ex alleato del PNC, fu eletto primo ministro nel maggio del 2019 e sostituì proprio O’Neill, che si era dimesso dopo molte proteste dell’opposizione riguardo a un accordo multimiliardario sullo sfruttamento del gas firmato con la società francese Total e quella statunitense ExxonMobil, giudicato per lo più sfavorevole agli interessi nazionali.

In questi anni Marape è riuscito a introdurre misure per favorire il settore minerario, ma non a migliorare i servizi e le condizioni di vita della popolazione. I livelli di disoccupazione sono in crescita e il già fragile sistema sanitario è stato messo sotto ulteriore sforzo dall’arrivo della pandemia da coronavirus. Per queste ragioni il PNC sembra aver recuperato qualche consenso.

Resterà anche da vedere se il futuro primo ministro cambierà l’atteggiamento della Papua Nuova Guinea in termini di politica estera, tendenzialmente neutrale, soprattutto visto che pochi mesi fa le vicine Isole Salomone hanno firmato un accordo sulla sicurezza con la Cina, che da tempo sta lavorando per rafforzare la propria influenza nella regione.

La Papua Nuova Guinea intrattiene relazioni amichevoli con Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti, con cui ha accordi di cooperazione di vario tipo (probabilmente il più noto è il centro di detenzione per richiedenti asilo sull’isola di Manus, usato dall’Australia dal 2012 grazie a un accordo con il governo papuano). Sia Marape che O’Neill in passato avevano detto che la Papua Nuova Guinea era disposta ad accettare accordi di collaborazione con chiunque, descrivendola come «amica di tutti e nemica di nessuno».

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