La difficoltà di cercare di definire il dolore

È una questione pratica oltre che teorica, ritenuta fondamentale per stabilire cure più appropriate e sviluppare migliori strumenti clinici di valutazione

Una scena della serie tv “Dr. House”.
Una scena della serie tv “Dr. House”.
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La sindrome dell’arto fantasma è definita come la sensazione anomala di presenza di un arto o di un’altra parte del corpo nonostante la sua assenza in seguito a un’amputazione. Più specificamente, è la sensazione di un dolore continuo e debilitante collocato in quella parte mancante del corpo e la cui descrizione può semanticamente variare molto da caso a caso, contribuendo a determinare nel complesso un fenomeno che è ancora oggi di difficile comprensione per la scienza medica e i cui approcci terapeutici prevalenti producono benefici limitati.

L’arto fantasma è un caso molto particolare di dolore ma è spesso utilizzato per descrivere una questione centrale e a volte problematica per la medicina in generale: la natura soggettiva di un’esperienza umana universale come il dolore, e l’inadeguatezza degli strumenti che abbiamo a disposizione per tentare di descriverlo e renderlo chiaro alle altre persone. La variabilità delle descrizioni che di questa esperienza fanno diversi pazienti rende infatti più complicato, per chi ha la responsabilità di stabilire cure appropriate, gestire processi patologici che richiedono prima di tutto di essere classificati e inquadrati.

Sono inoltre frequenti e ancora più problematici i casi in cui piuttosto che essere il sintomo di un determinato danno o alterazione organica individuabile, il dolore stesso è una malattia. Casi in cui i processi patologici attivano cioè meccanismi patogenetici che mantengono il dolore costante e spesso lo amplificano, e che sono collegati non soltanto ai fattori eziologici del processo – cioè alle sue cause, come per esempio il dolore che proviamo a una tibia è collegato a un colpo dato a un tavolino – ma anche alle successive reazioni dell’organismo. Reazioni che portano a un peggioramento della qualità della vita del paziente anche sotto l’aspetto psicologico e delle relazioni sociali, complicando ulteriormente la questione della definizione del dolore.

In un articolo sulla rivista letteraria The New York Review of Books che trae spunto da alcuni libri di recente pubblicazione negli Stati Uniti sul problema del dolore nella medicina, la scrittrice e giornalista scientifica statunitense Laura Kolbe, laureata in medicina, ha analizzato le definizioni correnti del dolore in ambito scientifico e anche nel linguaggio comune per cercare di individuarne i limiti. E ha affrontato le diverse questioni poste dalla nostra limitata comprensione del sistema nervoso umano, descrivendo le variabili note che influenzano la risposta del cervello al dolore e anche i nuovi approcci nella ricerca clinica che potrebbero portare a terapie più efficaci.

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La sindrome dell’arto fantasma è considerato un esempio storico estremo e quindi piuttosto efficace di quanto l’esperienza soggettiva del dolore del paziente possa condizionare e complicare il lavoro dei medici. La prima estesa descrizione di questa sindrome è attribuita al francese Ambroise Paré, esperto chirurgo militare considerato oggi il padre della chirurgia moderna, che attingendo alle sue esperienze sul campo di battaglia suggerì una serie di rimedi per ferite comuni da combattimento come ustioni, fratture e contusioni.

Nel 1564, in uno dei suoi libri sulla chirurgia (Dix livres de la chirurgie), Paré descrisse come «una cosa incredibilmente strana e prodigiosa» il fatto che mesi dopo l’amputazione di un arto che era in cancrena i pazienti affermassero di provare ancora dolore nelle parti amputate. Ipotizzò quindi che il dolore derivasse dall’immaginazione di quei pazienti o dal fatto che «i nervi si ritraggono verso la loro origine, e nel ritirarsi provocano un gran dolore».

Sconsigliò quindi ai suoi colleghi di prestare ascolto alle persone che riferivano di provare dolore in parti del corpo in cancrena perché questa indicazione avrebbe potuto indurre i chirurghi a fare valutazioni errate. Ritenendo ancora vitali tessuti del paziente che in realtà erano necrotici, i chirurghi avrebbero potuto infatti ridurre l’amputazione aumentando il rischio che parti del corpo necrotiche sviluppassero in seguito sepsi e portassero alla morte del paziente.

Il paradosso del dolore dell’arto fantasma, secondo il medico e ricercatore clinico statunitense Haider Warraich, autore del libro The Song of Our Scars: The Untold Story of Pain, è che chi ne soffre ha una percezione del proprio arto molto più presente e piena dopo che l’arto è stato amputato rispetto a quando era ancora attaccato al corpo. «L’arto assente è reso così immediatamente presente dal dolore da diventare insopportabile, spingendo alcune persone persino al suicidio», scrive Warraich.

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Di tutte le varie forme di dolore, quello dell’arto fantasma è secondo Warraich quello che più mette in discussione la natura fondamentale del dolore: la diagnosi di questa sindrome è «di un problema psicologico, come il disturbo depressivo maggiore, o di un problema fisico, come il diabete?», si chiede Warraich, che nel libro racconta nel dettaglio anche la sua esperienza personale con un dolore cronico, conseguenza di un incidente alla schiena avuto in palestra.

Ripercorrendo le fasi del trasporto d’urgenza dalla palestra al pronto soccorso, Warraich ricorda di essere riuscito a percepire mentre era sulla sedia a rotelle «ogni piccolo avvallamento, persino le sottili fessure nella pavimentazione» della corsia dell’ospedale. E definisce «un’infestazione» la sensazione di dolore che successivamente, dopo il periodo di ricovero, si trasformò progressivamente in dolore cronico. Dolore con cui in seguito imparò a convivere e la cui intensità descrive oggi come condizionata anche da stati d’animo e da altri fattori psicologici e sociali.

Nell’esperienza quotidiana l’esempio più comune di dolore, come per esempio quello per la puntura di uno spillo o per il taglio provocato da un foglio di carta, è in genere la sensazione associata a un determinato danno a un tessuto. Ma ci sono anche casi di sensazioni fisiche spiacevoli come mal di testa o di pancia che percepiamo come correlate a un danno psicologico, magari legato a sentimenti di paura, vergogna o cordoglio. E altre volte quelle stesse sofferenze possono essere legate a un evento fisico dannoso trascorso da diverso tempo: un trauma.

Sebbene la parola «dolore» sia abitualmente utilizzata per fare riferimento a diversi tipi di sofferenza, il dolore causato da una lesione del corpo è quello a cui si fa riferimento più spesso. Ed è in genere quello da cui deriva anche la comprensione di tutti gli altri tipi. Ma in ambito accademico le cose sono molto più complesse: una delle più conosciute e influenti teorie nella storia della ricerca sul dolore, scrive Warraich, è la cosiddetta «teoria della neuromatrice» del dolore formulata tra gli anni Novanta e gli anni Duemila dallo psicologo canadese Ronald Melzack.

A partire da alcune osservazioni su pazienti con sindrome dell’arto fantasma e da precedenti studi condotti con il neuroscienziato inglese Patrick David Wall, Melzack affermò che la percezione degli stimoli dolorosi non è l’effetto di una registrazione passiva nel cervello di impulsi collegati a un trauma tessutale periferico, bensì il risultato della capacità di quegli stimoli di generare attivamente esperienze soggettive attraverso una complessa rete di neuroni chiamata neuromatrice. Una rete ampiamente distribuita nel cervello e geneticamente determinata, ma la cui architettura sinaptica – le connessioni tra una cellula nervosa e l’altra – può cambiare in funzione delle esperienze sensoriali del soggetto.

In sostanza, Melzack descrisse il dolore come un’«esperienza multidimensionale» prodotta da uno schema di impulsi nervosi soggettivi, superando un concetto di dolore inteso come sensazione dolorosa provocata da un’infiammazione o da una lesione. Alcuni degli input della neuromatrice provengono infatti dai nocicettori, cioè le terminazioni nervose periferiche sensibili agli stimoli, ma molti altri riguardano aspetti neuro-ormonali e affettivo-motivazionali, e altre variabili come lo stress, l’attenzione, le aspettative e l’umore.

Una persona potrebbe, per esempio, non soffrire ancora per il morso di uno squalo perché distratto dal tentativo di mettersi in salvo, nonostante una grande quantità di segnali nocicettivi sia nel frattempo trasmessa al sistema nervoso. Oppure, per fare un esempio diverso, una persona può provare dolore anche se sbaglia a individuarne la causa, la localizzazione o il rimedio, e anche se attribuisce a quel dolore un’importanza che può apparire eccessiva, fastidiosa o socialmente inappropriata. E ciononostante, a meno che non stia mentendo volontariamente, quella persona non può mentire a se stessa quando sente di provare dolore. In entrambi gli esempi, secondo Kolbe, è ugualmente appropriato parlare di dolore.

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Secondo una definizione dell’organizzazione International Association for the Study of Pain (IASP) largamente utilizzata in ambito accademico e aggiornata nel 2020, il dolore è «un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata – o simile a quella associata – a un danno tessutale effettivo o potenziale». Ma come accaduto nel caso della progressiva estensione del concetto di trauma nel corso del tempo, una delle principali critiche alla definizione della IASP e al modello teorico della neuromatrice è di aver ampliato la nozione di dolore a un punto tale da renderla poco utile.

Il problema della definizione del dolore è di ordine non soltanto teorico ma pratico, dal momento che una maggiore chiarezza concettuale potrebbe essere di aiuto sia per i medici che per i pazienti, secondo Warraich. Una delle principali distinzioni correnti nella definizione del dolore, quella tra dolore acuto e cronico, mostra per esempio un caso piuttosto frequente di incomprensione. Mentre molte persone tendono a pensare che dolore «acuto» significhi «grave» o «insistente», in ambito clinico questa terminologia fa generalmente riferimento a scale temporali e tipi differenti di dolore, non alla gravità. E serve a circoscrivere le possibilità di diagnosi e a utilizzare al meglio le risorse a disposizione nell’ambito delle cure.

Un dolore acuto è di breve durata – ore o settimane, fino a tre mesi – e corrisponde a un danno tessutale, e in genere avvisa il corpo della presenza di stimoli pericolosi nell’ambiente e nell’organismo stesso. È un tipo di dolore in cui il rapporto di causa-effetto rispetto ai fattori eziologici del processo patologico è evidente o lo diventa man mano, e si esaurisce quando lo stimolo viene meno o quando viene riparato il danno che l’ha prodotto. Il dolore cronico è invece un dolore che persiste oltre tre mesi e, in generale, oltre i normali tempi di guarigione, se associato a una malattia o a una ferita.

Secondo un’ampia e crescente letteratura scientifica, è oggi generalmente accettato che il dolore cronico sia più una malattia che non un sintomo, venendo meno la connessione con la causa iniziale che lo ha determinato. Si parla cioè di dolore cronico quando, dopo una lesione o una malattia, subentrano modificazioni biologiche, psicologiche e sociali che complicano il quadro clinico al punto da rendere difficile ritrovare la causa iniziale del dolore.

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La stessa letteratura scientifica suggerisce che dolore acuto e dolore cronico siano due tipi di esperienza fondamentalmente diversi. Dire che l’una sia la versione più estesa dell’altra sarebbe come «dire che un elefante è un cane che vive un tempo insolitamente lungo e non mangia carne», sintetizza Kolbe. Allo stesso modo, il dolore lombare cronico – quello da cui è affetto Warraich, per esempio – ha una neuromatrice così diversa da quella del comune mal di schiena che tenere entrambi nella stessa categoria generica «mal di schiena» comporta più confusione che chiarezza.

I nervi periferici delle persone affette da dolore cronico e difficile da curare subiscono infatti sviluppi particolari che non sono associati ad alcun dolore acuto. Uno di questi sviluppi è la condizione di ipereccitabilità a lungo termine determinata da un input nocicettivo continuo e persistente. A causa di particolari fluttuazioni nella carica elettrica delle cellule nervose si innesca una sequenza ripetitiva e abnorme di attivazioni delle cellule, quando invece un funzionamento normale imporrebbe una pausa tra un’attivazione e l’altra.

È come premere impazientemente sette o otto volte in ascensore il bottone del piano che si intende raggiungere, fa l’esempio Kolbe, pensando che questo comportamento ridurrà il tempo di trasporto. Un ascensore «normale» lo interpreta come una richiesta di raggiungere quel piano una volta soltanto; un ascensore «aberrante» – metafora del dolore cronico – «ti prende in parola e fa otto viaggi di fila», avanti e indietro, fino al piano desiderato.

Alcune terapie del dolore cronico prevedono di assumere farmaci che agiscono sulle risposte cellulari a cascata che provocano infiammazione, oppure altri che agiscono sui segnali del dolore nei neurotrasmettitori. Ma gli approcci terapeutici sono vari e numerosi, e in alcuni casi prevedono cure del sonno, esercizi fisici o pratiche di meditazione, oppure assunzione di farmaci antidepressivi come gli inibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina (SNRI). Indicazioni che spesso vengono male interpretate dai pazienti al punto da farli sentire incompresi o persino offesi, perché pensano che il loro dolore non sia preso sul serio.

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Eppure, secondo l’anestesista inglese Abdul-Ghaaliq Lalkhen, membro della Facoltà di Medicina del Dolore presso il Royal College of Anaesthetists nel Regno Unito e autore del libro An Anatomy of Pain: How the Body and the Mind Experience and Endure Physical Suffering, non dovrebbe essere sorprendente il fatto che farmaci che agiscono su determinati neurotrasmettitori presenti nel cervello possano dimostrarsi efficaci per la cura del dolore cronico.

La Duloxetina, per esempio, si è dimostrata efficace in alcuni studi sulla cura di patologie contraddistinte da dolore cronico come la fibromialgia, la neuropatia diabetica e l’osteoartrite. E questi risultati sono considerati una sostanziale conferma del modello della neuromatrice e dell’ipotesi che il dolore cronico abbia meno a che fare con i dati nocicettivi provenienti dalle terminazioni nervose periferiche e più con le modalità profondamente modificate del cervello di elaborare emozioni, memoria e comportamenti.

Il fatto che al dolore cronico possano essere associati approcci terapeutici tipici dei problemi che riguardano la psiche, afferma Lalkhen, tende in genere a rafforzare nei pazienti l’impressione che il loro dolore sia giudicato dagli specialisti qualcosa che «sta tutto nella loro testa», non realmente esistente. E questo, oltre a indicare una scarsa comprensione generale del funzionamento del cervello, secondo Kolbe la dice lunga sulla profondità dello stigma sociale che ancora ruota intorno ai problemi di salute mentale.

Alcune società farmaceutiche come l’americana Purdue Pharma, produttrice del farmaco oppioide Oxycontin, hanno sollecitato in anni recenti cambiamenti che rendessero più centrali nella pratica medica e in fase di diagnosi valutazioni del dolore il più possibile attendibili e misurabili su scale di valore da 0 a 10.

Il problema di queste scale «unidimensionali», secondo Kolbe, è che hanno soltanto una validità intrapersonale, nella migliore delle ipotesi: quale intensità di dolore meriti un 6, per esempio, potrebbe mantenersi stabile nel tempo per un determinato soggetto. Diverso è il caso della validità interpersonale: due persone colpite da un oggetto nello stesso punto del corpo potrebbero valutare l’intensità del dolore in modo completamente diverso. Inoltre le valutazioni tendono a essere ancora meno attendibili in contesti clinici, dove i pazienti finiscono per interpretare le richieste di valutazione del proprio dolore come un modo implicito di chiedere loro quante e quali medicine vorrebbero ricevere.

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Le scale di intensità del dolore da 1 a 10 tendono infine ad appiattire le valutazioni e semplificare eccessivamente tutto ciò che sarebbe invece meglio conoscere più a fondo quando si parla di dolore. La crisi causata dalla diffusione di farmaci oppioidi e droghe affini negli Stati Uniti, secondo Warraich, «ha cancellato tutto quel poco che sapevamo sulla natura della sofferenza» e portato a ignorare le diverse sfumature che emergono dagli studi sul dolore. Ha inoltre accresciuto «i pregiudizi che fanno sì che l’agonia delle persone più vulnerabili venga trascurata».

Un’ampia letteratura scientifica indica che il dolore tende a essere considerato socialmente in modo diverso a seconda di chi lo prova, ricorda Warraich. In contesti politici ed economici in larga parte basati sulla schiavitù e sul lavoro dei popoli colonizzati, come negli Stati Uniti e nell’Europa del XIX secolo, per esempio, era piuttosto diffusa e «conveniente» l’idea che provare dolore molto intenso fosse soltanto prerogativa dei popoli civilizzati. E pregiudizi riguardo alla sensibilità al dolore basati su stereotipi razziali, sociali e di genere esistono ancora oggi.

Diversi studi mostrano come il dolore provato dai pazienti neri negli Stati Uniti sia generalmente stimato in modo diverso dai medici e come a quel dolore siano associate meno prescrizioni di farmaci antidolorifici di quante ne siano associate al resto della popolazione. Un ampio studio del 2015, per esempio, indicava che le persone che accedono in pronto soccorso per un’appendicite hanno meno probabilità di ricevere farmaci oppioidi se sono nere.

Il problema della definizione del dolore solleva in definitiva questioni filosoficamente rilevanti, legate alla difficoltà irriducibile di voler rendere intersoggettivamente comprensibile l’esperienza soggettiva del dolore. È una questione simile alla domanda se tutti vedano un certo colore allo stesso modo, afferma Kolbe, «ma con una posta in gioco più alta: che il dolore di una persona sia comunicabile e commisurato a quello di un’altra, può influenzare la nostra predisposizione a sentirci solidali gli uni verso gli altri emotivamente, socialmente e politicamente».

La difficoltà per gli operatori sanitari è ancora maggiore dal momento che la relativa ineffabilità del dolore li rende in un certo senso esterni rispetto a esso ma nella posizione di dover prestare soccorso e stabilire cure: «come chef che non abbiano mai assaggiato il loro cibo», sintetizza Warraich.

Da tempo, per cercare di superare i limiti noti delle scale da 1 a 10, alcuni strumenti clinici utilizzati per la valutazione del dolore si concentrano sulla terminologia più che sui numeri. Il Questionario sul dolore di McGill, sviluppato negli anni Settanta da Melzack alla McGill University a Montréal, è considerato un modo di fornire tramite aggettivi-descrittori un rapporto più strutturato e statisticamente utile sul dolore, valutandone i livelli e l’evoluzione nel corso del tempo, in modo da determinare l’efficacia di ogni intervento. Ai pazienti intervistati viene chiesto di scegliere le parole più adatte in un insieme molto vasto di aggettivi, tra cui «pizzicante», «pulsante», «fulmineo», «tagliente» e «crampiforme».

Il vantaggio auspicabile in questo tipo di espansioni del vocabolario clinico, conclude Kolbe, è che portino a «un analogo allargamento dell’immaginazione clinica quando si tratta di ciò che i pazienti provano».

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