Quanto deve durare il lutto

La classificazione del dolore prolungato per la morte di una persona cara come problema mentale ha riattivato un dibattito sul rischio di patologizzare una condizione normale

after life
Un fotogramma della serie tv britannica del 2019 After Life

L’American Psychiatric Association (APA) è l’organizzazione di psichiatri americana che cura il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), il testo fondamentale a livello internazionale per la classificazione dei disturbi psichici. In una recente revisione della quinta edizione ha inserito il dolore prolungato e invalidante per la perdita di una persona cara in una specifica categoria diagnostica: il disturbo da lutto persistente e complicato (prolonged grief disorder, PGD).

Il PGD è descritto come una condizione di incapacità di superare il dolore per la morte di una persona cara, che persista da almeno un anno e sia accompagnato da pensieri fissi e ricordi della persona morta, avuti quasi ogni giorno dal momento della sua morte. È una condizione tale da compromettere la vita della persona che la sperimenta, e per essere diagnosticata deve superare – per durata e gravità della reazione al lutto – quanto previsto dal contesto sociale, culturale o religioso in cui vive l’individuo.

Intorno alla questione del lutto prolungato si è sviluppato negli ultimi anni, e più intensamente da alcuni mesi, un dibattito abbastanza consueto nell’ambito della diagnostica legata alla classificazione delle malattie mentali prevista dal DSM. Come scritto nell’introduzione italiana alla quinta edizione del manuale, l’inserimento di una nuova malattia – che sia identificabile in modo attendibile in contesti clinici – riflette in genere il tentativo di bilanciare tra i possibili effetti benefici e i possibili rischi di quella classificazione. I benefici sono solitamente dati dal poter predire con più esattezza determinati esiti clinici e disporre interventi terapeutici efficaci. Il rischio è di produrre stigma sociale e di legittimare un uso improprio di interventi, soprattutto farmacologici, più adatti ad altre situazioni.

Nel caso del lutto, il rischio più concreto e dibattuto è quello di patologizzare una condizione che, entro certi limiti, riguarda tutti gli esseri umani e che non dovrebbe essere confusa con altre malattie. La definizione di un preciso arco temporale di persistenza dei sintomi (12 mesi) pone inoltre la difficile questione dei tempi entro cui il lutto possa essere ritenuto un fatto normale. A motivare l’inserimento del disturbo da lutto persistente e complicato nel DSM, secondo l’APA, ci sarebbe tuttavia la considerazione di un aspetto qualitativo oltre che quantitativo, ossia la constatazione clinica di un dolore marcatamente diverso da quello normalmente sperimentato da chiunque perda una persona cara: uno è ingestibile e disabilitante, l’altro no.

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Tutta la questione, come spiegato da diversi specialisti e anche da studiosi di altre discipline, riguarda non soltanto l’elaborazione individuale e sociale del lutto e la dimensione eventualmente patologica dell’esperienza del cordoglio ma, in generale, i rapporti delle varie culture con il fenomeno della morte. Come affermato nel libro Morte e pianto rituale dall’etnologo, antropologo e filosofo italiano Ernesto De Martino, uno dei più influenti studiosi della religiosità popolare del Novecento, nel cordoglio per la morte di una persona cara è sempre presente il rischio di sviluppare incapacità e inabilità sociali ed emotive in grado di condizionare in modo permanente la normale conduzione della vita di tutti i giorni. De Martino parla di «crisi» e, nello specifico, del «rischio umano di “morire con ciò che muore”» anziché vivere il cordoglio attraverso pratiche culturali che servono a superare il momento critico.

Secondo De Martino, ogni tentativo individuale di superare il lutto è sempre esposto al rischio di insuccesso e di sperimentare una «crisi della presenza», ossia un’incapacità di pensare e agire. Questa crisi può manifestarsi nell’individuo in modi variabili ma è tipicamente caratterizzata da una «ebetudine stuporosa senza parola e senza gesto, e senza anamnesi della situazione luttuosa», condizione che può evolvere anche in atti di autolesionismo.

La dimensione del sacro – inteso come una ripetizione rituale di determinati modelli di azione e di comportamento tramandati nel corso del tempo, incluse le tecniche del pianto nei lamenti funebri – sarebbe in sostanza, secondo De Martino, il risultato cristallizzato del tentativo ricorrente di risolvere le crisi e riavviare la storia culturale dell’individuo e della comunità a cui appartiene. Comunità che si fa carico di sostenere i propri membri e preservare i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere irreversibilmente, e che «attingendo forze dalle benefiche memorie di ciò che non è più, prosegue coraggiosamente il suo cammino».

All’interno del recente dibattito sul disturbo da lutto persistente e complicato, portando avanti una riflessione compatibile con il pensiero di De Martino, la psicologa clinica e docente alla Georgetown University Jelena Kecmanovic, in un articolo sul Washington Post, ha collegato la dimensione patologica del lutto alla recente pandemia da coronavirus e all’impossibilità per molti parenti delle persone morte di osservare i diversi rituali culturali e religiosi legati al culto dei morti, per le varie restrizioni in vigore. Impossibilità che ha verosimilmente reso più difficile per quei parenti superare il momento critico ed elaborare il lutto secondo consolidati modelli culturali.

Nel caso della morte di una persona cara, ha scritto Kecmanovic, il dolore è una reazione umana normale che tende ad arrivare a ondate, spesso attivate da ricordi interiori o esterni relativi alla perdita: ragione per cui anniversari o vacanze possono essere periodi particolarmente difficili. È anche un’esperienza molto variabile da individuo a individuo: per alcune persone è utile parlare molto della persona defunta, mentre altre traggono beneficio da forme di cordoglio più private. Con il passare del tempo, la maggior parte delle persone riesce comunque ad accettare la perdita e trovare un significato nella vita senza la persona morta, reintegrandosi nella società.

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Per un piccolo ma significativo gruppo di persone, invece, il dolore non si risolve e rende per loro impossibile tornare alle proprie precedenti attività: questa condizione, definita nel DSM come disturbo da lutto persistente e complicato, interesserebbe fino al dieci per cento delle persone in lutto. Altri sintomi, a parte il dolore persistente oltre un anno dopo la morte della persona cara, sono confusione di identità, incredulità, difficoltà ad avere legami con altre persone e sensazioni di intensa solitudine, tra gli altri. E sebbene il PGD condivida alcuni sintomi con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), la psichiatra americana Holly G. Prigerson, specialista in epidemiologia psichiatrica, sostiene che il PGD sia «neurobiologicamente ed epidemiologicamente diverso».

Secondo Prigerson, che studia il lutto fin dagli anni Novanta e il cui lavoro è stato ritenuto essenziale per la recente revisione del DSM, il disturbo da lutto persistente e complicato espone le persone a un maggiore rischio di problemi cardiaci, altre malattie mentali, ospedalizzazione e suicidio. Altre sue ricerche indicano che per la maggior parte delle persone i sintomi del dolore raggiungono il picco sei mesi dopo la morte della persona cara, per poi regredire. L’inquadramento del PGD in una specifica categoria diagnostica, secondo Prigerson, renderà più semplice per gli operatori e le operatrici sanitarie identificare le persone che ne soffrono e aiutarle adeguatamente.

Gli sviluppi più recenti del dibattito negli Stati Uniti pongono l’attenzione su uno degli aspetti problematici nonché una delle conseguenze prevedibili dell’inclusione del PGD nel DSM: l’aumento dei finanziamenti per la ricerca di farmaci specifici e l’aumento delle diagnosi e delle prescrizioni da parte dei medici, che potranno ora regolarmente addebitare i costi di quei farmaci alle compagnie di assicurazione. Il naltrexone, un farmaco utilizzato per la cura delle dipendenze, è attualmente in fase di sperimentazione clinica come forma di terapia del dolore, per esempio.

La classificazione del lutto persistente e complicato come malattia mentale rischia di fare emergere moltissime false positività, essendo il lutto un aspetto fondamentale dell’esperienza umana, ha scritto il New York Times riportando alcuni dei principali argomenti dei critici della decisione dell’APA. Persone in lutto che in futuro rischieranno di sentirsi dire che hanno malattie mentali potrebbero invece stare «effettivamente emergendo, lentamente ma naturalmente, dalle loro perdite». Proprio in funzione della loro particolare vulnerabilità, potrebbero tendere a fidarsi poco delle loro emozioni e molto del parere di specialisti, strutture e compagnie farmaceutiche con un interesse economico a segnalare il bisogno di cure mediche.

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Il PGD è tuttavia considerato da un esteso gruppo di psichiatri il punto di arrivo di decenni di ricerche che si sono concentrate sulle distinzioni rispetto ad altre malattie mentali e sul bisogno di cure su misura. La psichiatra americana Katherine Shear, docente alla Columbia University a New York, è stata insieme a Prigerson una delle specialiste più coinvolte nel lavoro di revisione del DSM-5 in relazione al lutto persistente e complicato. In particolare, Shear ha sviluppato un programma di psicoterapia che prevede un approccio basato sulle tecniche di esposizione agli stimoli traumatici molto utilizzate nei casi di persone con disturbi da stress.

I dati provenienti da una serie di studi clinici su pazienti con PGD hanno mostrato una maggiore efficacia della terapia di Shear rispetto alle cure con antidepressivi e ad altre cure per la depressione. E proprio questi risultati, ha detto al New York Times lo psichiatra americano Paul Stuart Appelbaum, a capo del comitato direttivo responsabile della revisione del DSM-5, hanno rafforzato gli argomenti a favore dell’inclusione del PGD nel manuale.

Prigerson ha inoltre spiegato che, sebbene le sue ricerche e anche quelle di Shear indicassero sei mesi come un periodo di dolore persistente sufficiente a decidere un’eventuale diagnosi di PGD, l’APA ha preferito estendere quel periodo di tempo in termini più «conservativi» per ridurre ogni ambiguità ed evitare obiezioni da parte delle persone che sei mesi dopo la morte di una persona cara potrebbero sentirne ancora la mancanza e provare ancora un po’ di dolore.

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