Fare entrare l’Ucraina nell’Unione Europea è molto più difficile di quanto si pensi

E non porterà dei benefici nel breve termine, anzi: secondo alcuni potrebbe essere addirittura controproducente

di Luca Misculin

(AP Photo/Virginia Mayo)
(AP Photo/Virginia Mayo)
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Il 28 febbraio, appena quattro giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky inviò un video al Parlamento Europeo per chiedere che al suo paese fosse garantita una corsia preferenziale per entrare nell’Unione Europea. Zelensky spiegò che l’invasione russa aveva reso necessario prendere una posizione netta, e che il suo governo aveva scelto di avvicinarsi quanto prima all’Unione Europea per allontanarsi definitivamente dall’influenza della Russia.

Da allora il governo ucraino ha fatto una richiesta ufficiale per avviare le procedure di ingresso, accolta con favore da una maggioranza trasversale al Parlamento Europeo e da diversi governi dell’Unione. A meno di sorprese la Commissione Europea approverà la richiesta nel giro di qualche settimana. La possibilità che l’Ucraina aderisca all’Unione Europea, insomma, sembra improvvisamente assai concreta: ma ci sono dei ma.

Entrare nell’Unione Europea è un processo enormemente complesso, che richiede sforzi straordinari sia da parte delle istituzioni europee sia da parte del governo del paese che chiede di entrare, oltre a tempi lunghissimi e incerti e un esito tutt’altro che scontato. Negli ultimi anni le procedure di ingresso si sono ulteriormente complicate per via del timore che alcuni paesi siano stati fatti entrare nell’Unione troppo frettolosamente. L’Ucraina poi è un paese in guerra, con tutti i problemi che questo comporta: ma ancora prima dell’invasione russa c’erano estesi dubbi sul fatto che il paese potesse anche solo valutare di chiedere di entrare nell’Unione.

Diversi osservatori ritengono che l’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione Europea sarà molto importante dal punto di vista simbolico, ma hanno sempre più dubbi sul fatto che possa produrre effetti concreti nel breve o medio termine. Qualche analista sostiene anche che sottoporre l’Ucraina a un processo di questo tipo, in questo momento storico, rischi persino di essere controproducente sia per gli interessi ucraini sia per quelli dell’Unione Europea.

La richiesta di avviare le procedure per entrare nell’Unione Europea, firmata da Zelensky l’1 marzo (profilo Twitter del capo della rappresentanza ucraina alle istituzioni europee)

Semplificando molto, la procedura che un certo paese deve seguire per entrare nell’Unione si divide in tre passaggi.

Per prima cosa va fatta una richiesta formale per diventare un candidato ufficiale. Dopo che la richiesta è stata accettata, inizia la fase più complessa della procedura, cioè una serie di negoziati per stabilire se il paese sia pronto a entrare nell’Unione e cosa debba fare concretamente per rispettare gli standard richiesti dai trattati europei. Una volta conclusi i negoziati, l’adesione del nuovo membro deve essere approvata a tutti i livelli dell’Unione, sia dalle istituzioni comunitarie sia dai 27 parlamenti nazionali.

«Entrare nell’Unione non è un evento singolo ma un processo», ha spiegato a Euronews Corina Stratulat, analista dello European Policy Centre (EPC): «ci vuole tempo, pazienza e una grande disponibilità da entrambe le parti».

Ottenere lo status di paese candidato è un passo relativamente semplice: è sufficiente un rapporto della Commissione Europea che descriva le condizioni generali in cui si trova il paese e dia parere favorevole all’avvio della procedura di ingresso. Il rapporto va poi approvato all’unanimità dai rappresentanti dei governi nazionali riuniti nel Consiglio dell’Unione Europea.

In media per compiere questo passaggio serve circa un anno e mezzo: nel caso dell’Ucraina, se come sembra lo status di candidato ufficiale verrà garantito a giugno, sarà stato completato in circa quattro mesi. La parte più difficile inizierà in quel momento.

Una volta che un certo paese ottiene lo status di candidato ufficiale inizia la delicatissima fase in cui l’Unione Europea deve accertarsi che quel paese sia effettivamente pronto per diventare membro nell’Unione. È in sostanza una lunghissima marcia di avvicinamento per assicurarsi che fin dal primo giorno in cui sarà uno stato membro, se mai lo diventerà, quel paese rispetterà tutte le leggi europee negli ambiti più disparati: a partire dall’indipendenza dei tribunali e della magistratura, passando per gli strettissimi parametri sanitari con cui dev’essere conservato il cibo nei ristoranti e nei supermercati, l’allineamento del regime fiscale, le leggi sulla libertà di stampa e sulla concorrenza nel settore pubblico e privato, e moltissimo altro ancora.

Gli standard europei sono definiti in linea generale dai cosiddetti criteri di Copenhagen, definiti nel 1993. Da allora sono stati più volte aggiornati, ma mai davvero riformati. Prevedono che un paese che desidera entrare nell’Unione si allinei agli standard europei in sei ambiti generali – questioni fondamentali; mercato interno; competitività e crescita; agenda verde; agricoltura e coesione; relazioni esterne – per un totale di 35 capitoli.

Per ognuno di questi capitoli i negoziati seguono una traiettoria precisa. I rappresentanti delle istituzioni europee e dei governi nazionali, insieme a quelli del paese candidato, fanno una panoramica delle leggi europee in vigore in quell’ambito, poi valutano a che punto è la legislazione nazionale e si mettono d’accordo su come colmare la distanza fra le due. I capitoli si affrontano uno alla volta. Soltanto quando sono stati chiusi tutti e 35 si possono dichiarare conclusi i negoziati, e passare così alla fase finale della procedura di adesione.

Sul piano concreto i negoziati sui singoli capitoli prevedono in sostanza dei lunghi tira e molla fra le parti. I funzionari delle istituzioni europee e dei governi nazionali insistono sulla necessità di approvare riforme e aggiornare le leggi esistenti: se stanno affrontando il capitolo 11, per esempio, insisteranno sulla necessità di approvare leggi o regolamenti che assicurino una distribuzione equa e trasparente dei sussidi statali agli agricoltori.

I funzionari governativi del paese candidato hanno il difficile compito di convincere i loro omologhi che il paese in questione stia facendo il possibile per raggiungere gli standard europei. Un certo capitolo può essere chiuso soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo nel considerare chiuse le trattative.

Gli esperti delle politiche di allargamento dell’Unione Europea hanno notato che da anni «le procedure di adesione sono diventate sistematicamente più lunghe», come ha scritto di recente la politologa Marie-Eve Bélanger sul blog della London School of Economics, principalmente per una ragione: gli atti legislativi dell’Unione Europea sono diventati sempre più numerosi. Se nel 1994 l’Unione contava dodici membri e una struttura istituzionale appena abbozzata, oggi ne ha più del doppio e dispone di una miriade di tribunali, agenzie e organismi intermedi, oltre a un Parlamento e un Consiglio che sfornano quasi ogni giorno regolamenti e direttive.

Adottare tutto l’acquis comunitario, cioè l’insieme degli obblighi giuridici previsti dall’Unione Europea, fu relativamente semplice per paesi ricchi e stabili come l’Austria, la Finlandia e la Svezia, che entrarono nell’Unione Europea nel 1995. Lo è molto meno al giorno d’oggi per paesi più piccoli e fragili come quelli dei Balcani occidentali, il principale bacino a cui si rivolgono le politiche di allargamento dell’Unione.

Non è soltanto una questione di quantità: in certi casi parliamo di riforme che toccano interessi particolari o sistemi di potere, per esempio quelle sulla corruzione; oppure settori che in un paese povero vengono spesso trascurati, come la sanità e la scuola; o ancora ambiti che fino a pochi anni fa non erano mai stati toccati dall’amministrazione centrale. Per un paese che non ha una vera politica di contrasto al cambiamento climatico, per esempio, sarà difficilissimo applicare la Legge sul Clima, il pilastro del Green Deal europeo che vincola tutti gli stati membri di tagliare le proprie emissioni nette del 55 per cento entro il 2030.

Il processo di adesione di Austria, Finlandia e Svezia durò 1.431 giorni, quasi quattro anni, e ancora oggi è il più rapido nella storia dell’Unione Europea. L’ultimo paese entrato nell’Unione Europea, la Croazia, aveva fatto richiesta per diventare un paese candidato nel 2003: i negoziati sui 35 capitoli erano iniziati nel 2005 e si erano conclusi dopo sei anni, nel 2011. La Croazia è diventata membro ufficiale nel 2013, a distanza di circa dieci anni dall’avvio del processo di adesione.

Al momento le procedure di adesione dei principali paesi candidati – Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia – sono bloccate, per ragioni ancora diverse da quelle elencate finora.

Il processo di adesione è stato costruito in modo tale che ogni passaggio rilevante necessiti dell’approvazione politica dalle parti coinvolte: i paesi fondatori hanno voluto riservarsi il diritto di rallentare o velocizzare le procedure di ingresso, e mantenersi una sorta di potere di veto. In alcuni casi la volontà politica del momento ha permesso di sbloccare processi che di norma necessitano tempi più lunghi: sarà il caso della concessione di paese candidato all’Ucraina, se davvero avverrà nei tempi di cui si parla.

Il più delle volte però una certa posizione politica, anche solo di uno stato membro, ha bloccato l’intero processo.

Il caso più noto è quello della Macedonia del Nord, a cui l’Unione Europea aveva concesso lo status di candidato nel 2005, quando ancora si chiamava Macedonia e basta. Per anni qualsiasi avanzamento del processo di adesione della Macedonia era stato ostacolato dalla Grecia per via di una disputa di natura identitaria sul nome del paese, poi risolta nel 2019. Nel 2020 erano quindi iniziati i negoziati veri e propri, ma al momento non è stato aperto nemmeno uno dei famosi 35 capitoli per via di un’altra disputa di natura identitaria e culturale, stavolta avanzata dalla Bulgaria.

Alcuni paesi hanno perplessità più generali, ma non meno nette, sull’allargare ulteriormente l’Unione Europa verso gli stati che facevano parte dell’Unione Sovietica o del Trattato di Varsavia, e che quindi fino a trent’anni fa non conoscevano o quasi l’economia di mercato, lo stato di diritto o l’allargamento dei diritti civili.

Da qualche anno sempre più osservatori ritengono per esempio che il cospicuo allargamento verso Est compiuto dall’Unione Europea fra il 2004 e il 2007 sia stato realizzato in maniera troppo frettolosa, inglobando paesi che non erano maturi e legittimando con fondi e appoggio politico classi dirigenti che hanno poi proceduto a governare quei paesi in maniera semiautoritaria, cosa avvenuta per esempio in Polonia e Ungheria.

«L’allargamento è considerato sempre più spesso un problema che una soluzione», ha scritto per esempio qualche anno fa Jens Woelk, che insegna Istituzioni di diritto dell’Unione Europea all’università di Trento: «i sistematici problemi nell’ambito del rispetto dello stato di diritto sembrano confermare i timori sulle capacità di sostenere il cambiamento nei nuovi stati membri», scrive Woelk, «ma anche sull’abilità della stessa Unione Europea di allargarsi senza estendersi troppo».

Chi ci assicura, si chiedono paesi come la Francia o i Paesi Bassi, che un ulteriore allargamento verso Est non porti alla nascita di governi problematici che usano i fondi europei per arricchire la propria classe di oligarchi, come l’Ungheria, o sfruttano il proprio potere di veto per bloccare riforme strutturali? La riforma del Regolamento di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti asilo, che avrebbe permesso all’Italia e alla Grecia di gestire in maniera più agevole il flusso di migranti degli ultimi anni, non è mai stata approvata per via del veto dei paesi dell’Est, tradizionalmente ostili nei confronti dei migranti che provengono dal Nord Africa e dal Medio Oriente.

– Leggi anche: I sussidi europei all’agricoltura sono un problema

Sono dubbi e perplessità che fino a prima della guerra circolavano anche nei confronti dell’Ucraina.

Sebbene già nel 2014 il governo ucraino avesse firmato un accordo commerciale con l’Unione Europea che di fatto la sta progressivamente avvicinando all’Europa occidentale, l’Ucraina è considerato un paese molto arretrato sotto vari punti di vista, e per certi versi ancora meno maturo dei paesi balcanici che ormai da anni stanno cercando di entrare nell’Unione.

L’Ucraina è il secondo paese più povero in Europa dopo la Moldavia secondo il PIL pro capite, nonché uno dei più corrotti (il più corrotto per corruzione percepita, per esempio).

Secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sui paesi confinanti con l’Unione, non ha una vera strategia per la lotta alla criminalità organizzata, mentre i principali giornali e canali tv continuano ad essere di proprietà di un ristretto gruppo di persone. La distanza culturale con l’Europa occidentale rimane molto marcata, per esempio, sul tema dei diritti per la comunità LGBT+. Un sondaggio del 2020 del rispettato istituto Pew Research Center mostra per esempio che mentre nei paesi dell’Europa occidentale la percentuale di persone secondo cui l’omosessualità dovrebbe essere accettata dalla società è superiore all’80 per cento, in Ucraina la stima è al 14 per cento.

La guerra ha cambiato le cose, ma nemmeno troppo: se da una parte ha ridotto alcune perplessità di natura politica sulla necessità di avvicinare sempre di più l’Ucraina all’Unione Europea, dall’altra è evidente che a causa del conflitto l’Ucraina avrà bisogno di ancora più tempo per adeguarsi agli standard europei, dato che dovrà letteralmente ricostruire un paese semidistrutto dagli attacchi della Russia.

In quest’ottica non tutti sono convinti che avviare dei complessi e delicati negoziati per entrare nell’Unione Europea sia la strada migliore da percorrere. «Non sono sicuro che l’adesione all’Unione sia lo strumento giusto con cui rispondere alla guerra», ha detto per esempio al Financial Times Georg Riekeles, direttore dello European Policy Centre.

Fra le altre cose, lo status di candidato non porterebbe nemmeno grandi benefici dal punto di vista economico. Nell’attuale bilancio pluriennale dell’Unione Europea, in vigore dal 2021 al 2027, sono stati stanziati 14,2 miliardi di euro per finanziare i paesi candidati o che aspirano ad esserlo, già allocati a sette paesi diversi: per l’Ucraina, insomma, rimarrebbero le briciole.

In un articolo scritto qualche tempo fa per Foreign Policy, l’ex funzionario della Commissione Europea Henrik Larsen, che dal 2014 al 2019 ha lavorato come emissario dell’Unione in Ucraina, ha argomentato che concedere lo status di paese candidato a mezza penisola dei Balcani sia stato un errore da non ripetere. All’interno dei paesi candidati ha prodotto una disillusione trasversale che dura ormai da anni e che «ha compromesso l’obiettivo delle istituzioni europee di dare degli incentivi alla classe politica locale per portare avanti delle riforme».

Nei paesi dell’Unione, invece, ha inasprito il fastidio dei funzionari verso «paesi candidati che fanno pochi e nessun progresso in fatto di riforme».

Il rischio, lascia intendere Larsen, è che anche in Ucraina possa succedere una cosa del genere: garantirle lo status di candidato potrebbe suscitare aspettative irrealistiche sia dentro sia fuori l’Ucraina, costringere un paese prostrato dalla guerra a condurre negoziati faticosissimi per la propria amministrazione, senza vantaggi se non dal punto di vista simbolico.

La soluzione che propone Larsen è quella di sfruttare uno strumento introdotto negli anni Duemila, cioè lo status di “potenziale candidato”, per poter tenere agganciata l’Ucraina a una prospettiva europea senza costringerla ad estenuanti e poco produttivi negoziati. È una categoria a cui al momento appartengono il Kosovo e la Bosnia ed Erzegovina, due paesi che però non hanno grandi speranze di entrare nell’Unione Europea, nemmeno nel lungo periodo. Il rischio, per l’Ucraina, sarebbe più o meno lo stesso: scivolare in un limbo da cui sarà difficile uscire.