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  • Mercoledì 16 febbraio 2022

Per Busto Arsizio i soldi del PNRR sono effettivamente un problema

Così come per moltissimi comuni più piccoli che non hanno personale e risorse per star dietro ai bandi

Il municipio di Busto Arsizio (Aldo Fumagalli/Wikimedia)
Il municipio di Busto Arsizio (Aldo Fumagalli/Wikimedia)

La settimana scorsa, in una conversazione molto ripresa dai media, il presidente della Lombardia Attilio Fontana aveva confidato al sindaco di Milano Beppe Sala le sue preoccupazioni riguardo alle difficoltà che potrebbe avere un comune di medie dimensioni come Busto Arsizio nel gestire i fondi europei previsti dal Recovery Fund. In effetti, nella città tra Varese e Milano il sindaco Emanuele Antonelli condivide lo stesso timore: «Sono preoccupato perché abbiamo a disposizione 70 milioni e mi scoccerebbe non spenderli o, peggio, spenderli male».

Busto Arsizio non è un piccolo comune: ha 83mila abitanti, più di Varese, eppure come moltissimi altri enti locali in Italia è in grande difficoltà perché non ha abbastanza personale per gestire i soldi del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza preparato dal governo per utilizzare i finanziamenti europei. Soltanto due dirigenti su sette lavorano nella cosiddetta “area tecnica”: uno ai lavori pubblici, l’altro all’edilizia privata. Il sindaco dice che sono subissati di lavoro: servirebbero molti altri professionisti, ma i tempi per le assunzioni sono lunghi, ci sono vincoli di spesa, e le scadenze da rispettare per finanziare i progetti sono serrate e inderogabili.

«Se è preoccupato il sindaco Sala a Milano, figuriamoci io: purtroppo non possiamo allargare la nostra struttura a piacimento quando c’è un grosso progetto da portare a termine», spiega Antonelli, talmente sotto pressione da farsi una domanda piuttosto paradossale: «È possibile che tutti questi soldi arrivino adesso, tutti insieme?».

Da Nord a Sud, amministratori di piccoli comuni e di grandi città lamentano gli stessi problemi: nei bandi del PNRR c’è troppa confusione, ogni ministero li pubblica con regole diverse e con date che si sovrappongono, i criteri di assegnazione dei fondi sono spesso poco chiari e distanti dalle necessità reali dei territori, e soprattutto i tempi per studiare i progetti e inviare le domande sono molto stretti.

Fino a dicembre questi limiti non erano stati molto evidenti perché il governo, nella prima fase del piano, aveva deciso di privilegiare le riforme generali di fisco, giustizia e concorrenza, passaggi necessari per avere i soldi dall’Europa. Dalla fine dell’anno, quando i ministeri hanno iniziato a pubblicare gli avvisi per la partecipazione ai bandi, i comuni hanno capito che il lavoro sarebbe stato ostico.

Marco Bussone, presidente dell’Unione nazionale dei comuni montani, dice che orientarsi tra i bandi è molto complesso. Hanno regole e criteri diversi a seconda del ministero che li pubblica, con una serie di storture rispetto all’attuale organizzazione degli enti locali. Alcuni bandi, per esempio, non consentono la partecipazione delle unioni dei comuni che oggi gestiscono i servizi di più enti locali aggregati. Le unioni dei comuni sono state pensate per avere più possibilità nella partecipazione dei bandi ministeriali, eppure in molti casi sono escluse. «Purtroppo questo è soltanto uno dei tanti problemi tecnici che scoraggiano la partecipazione dei comuni, soprattutto i più piccoli», spiega Bussone. «I ministeri dovrebbero ascoltare i sindaci e coordinarsi per studiare regole più chiare».

I tempi stretti non aiutano. Molti bandi sono stati presentati a fine dicembre e scadranno a febbraio o a marzo. Secondo Mauro Guerra, presidente di ANCI Lombardia, l’associazione dei comuni lombardi, il governo deve fare ordine per evitare la rapida successione di scadenze e avvisi, «altrimenti i comuni vedono venirsi addosso un gigantesco blob con evidente difficoltà nel gestirlo nel miglior modo possibile».

Un esempio concreto delle conseguenze causate dalla confusione e dai limiti strutturali dei comuni è la gestione del bando pubblicato dal ministero della Transizione ecologica per la gestione dei rifiuti e la costruzione di nuove piattaforme ecologiche.

La scorsa settimana il ministero era stato costretto a rimandare la scadenza, dal 14 febbraio al 23 marzo, per consentire una maggiore partecipazione delle aziende e delle pubbliche amministrazioni del Sud. All’11 febbraio erano state presentate 1.400 domande per 1,6 miliardi di euro, sui 2,1 disponibili. «La maggior parte di queste domande è stata presentata da aziende del Centro-Nord», ha spiegato il ministero. «Sono ancora poche le richieste di finanziamenti dal Mezzogiorno, dove invece le strutture per il trattamento e il riciclo dei rifiuti sono particolarmente carenti».

Tra le altre cose, la partecipazione dei comuni e delle regioni del Sud è essenziale per rispettare l’obbligo di destinare al Mezzogiorno il 40 per cento delle risorse del PNRR. Su questo punto si sono confrontati informalmente il presidente lombardo Fontana e il sindaco di Milano Beppe Sala, che teme uno sbilanciamento dei fondi verso Sud – «io sono preoccupato dal fatto che Sud, Sud, Sud», ha detto – con il rischio che non non si riescano a spendere i soldi disponibili, come sarebbe successo con il bando per la gestione dei rifiuti se il ministero non avesse rimandato le scadenze.

In questo caso i comuni del Nord sono stati veloci non perché hanno più dipendenti, ma perché rispetto agli enti locali del Sud possono contare sull’aiuto di aziende cosiddette “in house”, cioè pubbliche, più efficienti e organizzate. Nella stragrande maggioranza dei casi, sono state le aziende che già si occupano della raccolta dei rifiuti a preparare tutto il lavoro per partecipare al bando. Nelle regioni del Sud, dove la gestione dei rifiuti è storicamente più complicata, i comuni hanno avuto meno supporto da parte delle aziende, spesso private o comunque con scarso controllo da parte degli enti locali.

Ma anche al Nord non sono mancati problemi. Secondo Matteo Oriani, consulente che ha seguito i bandi per la gestione dei rifiuti in 19 comuni della provincia di Bergamo, le procedure erano così complicate e i tempi così stretti che hanno fatto molta fatica anche i consulenti professionisti, quasi sempre pagati dalle aziende in house, e senza i quali i comuni non sarebbero riusciti a partecipare ai bandi. «Uno dei lavori più impegnativi è stato spiegare ai dipendenti comunali come caricare materialmente le domande nel portale», dice. «Ci sono decine di pagine di FAQ (domande frequenti) e non si può sbagliare. I comuni sotto i 15mila abitanti non riescono a reggere questa mole di lavoro, per di più concentrata in un periodo così breve».

Secondo i dati della Ragioneria dello Stato, oggi i comuni hanno 320.304 dipendenti. Nel 2010 erano 392.856, mentre nel 2001 451.878: in dieci anni i dipendenti sono diminuiti del 18,5 per cento, in vent’anni del 29,1 per cento, quasi un terzo. A causa del ricambio molto limitato, inoltre, l’età media si è alzata dai 45 anni del 2001 fino ai 53 del 2021. Il calo è distribuito in tutte le regioni italiane ad eccezione del Friuli Venezia Giulia, che grazie allo Statuto di autonomia ha potuto assumere e aumentare il personale di quasi il 40 per cento negli ultimi dieci anni.

Secondo molti sindaci e amministratori, i 30 milioni stanziati dal governo per le assunzioni nei piccoli comuni non bastano. Per di più, anche le procedure per fare nuovi contratti a ingegneri, architetti e tecnici sono complicate e con tempi incerti: il rischio è di occupare il personale nello sforzo di fare nuovi contratti in un periodo in cui ci sarebbero molte altre scadenze importanti. «E non c’è solo il PNRR: nei Comuni mancano gli assistenti sociali, i dipendenti dell’anagrafe», ha detto Serena Sorrentino, segretaria generale della Funzione pubblica della Cgil. «L’anno scorso ci sono state solo 20 mila assunzioni, ma nei prossimi tre anni andranno via 676 mila dipendenti pubblici (di cui solo una parte lavorano nei comuni, ndr): non si può procedere con questo ritmo».