Xi Jinping è tornato a parlare di «riunificazione» con Taiwan
Ha detto di volerla perseguire in modo pacifico, ma i toni sono stati piuttosto aggressivi
Sabato il presidente cinese Xi Jinping è tornato a parlare di «riunificazione» con Taiwan, un’isola di fatto indipendente (sebbene la sua sovranità sia riconosciuta solo da 15 paesi al mondo) ma che la Cina considera come sua. Xi Jinping ha parlato di Taiwan dalla Grande Sala del Popolo di Piazza Tienanmen, in occasione dell’anniversario dei 110 anni dalla Rivoluzione cinese, che mise fine alla Cina imperiale e iniziò il 10 ottobre 1911 con la rivolta di Wuchang, un evento che è celebrato anche a Taiwan.
Il discorso di Xi Jinping è stato considerato meno estremo di precedenti dichiarazioni sulla questione, su tutti quella di luglio in cui aveva detto di voler «distruggere completamente» ogni tentativo di indipendenza di Taiwan. È però significativo perché arriva dopo che negli ultimi giorni le azioni bellicose della Cina nei confronti di Taiwan si erano fatte più intense e provocatorie, e dopo che si è saputo che da circa un anno gli Stati Uniti stanno addestrando l’esercito di Taiwan per resistere a un eventuale attacco della Cina, che secondo il ministro della Difesa taiwanese potrebbe arrivare entro il 2025.
Seppur apparentemente un po’ più concilianti rispetto al passato, le parole di Xi Jinping vanno viste quindi alla luce di questi recenti eventi. Inoltre, sebbene non abbia mai parlato esplicitamente di attaccare o invadere Taiwan, nel suo discorso Xi ha ricordato che la Cina ha una «gloriosa tradizione» di opposizione a ogni tipo di separatismo e che «lo storico compito di completare la riunificazione del paese deve essere raggiunto, e sarà senz’altro raggiunto».
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Xi ha detto di voler ottenere la «riunificazione» in modo pacifico e di puntare a instaurare a Taiwan il principio “un paese, due sistemi”, su cui si basa anche il complicato rapporto tra Cina e Hong Kong, che ribadisce l’unità nazionale della Cina ma riconosce allo stesso tempo la diversità locale di Hong Kong tramite la concessione di un certo grado di autonomia.
«Il secessionismo indipendentista di Taiwan» ha detto Xi Jinping «è il più grande ostacolo alla riunificazione del paese, una grave minaccia al rinnovamento nazionale». Ha poi aggiunto: «Nessuno deve sottovalutare la ferma determinazione del popolo cinese, la sua ferma volontà e la sua forte capacità nel difendere la sua sovranità nazionale e la sua integrità territoriale».
I rapporti estremamente tesi tra la Cina e Taiwan (il cui nome ufficiale è “Repubblica di Cina”) risalgono al 1949, quando a Taiwan si rifugiò il governo nazionalista cinese sconfitto dall’insurrezione comunista guidata da Mao Zedong nel corso di una lunga guerra civile. Per decenni la Cina fu divisa di fatto in due: un governo alleato e riconosciuto dall’Occidente relegato sull’isola di Taiwan, e il governo del Partito comunista a guidare tutto il resto del paese. Le cose cambiarono a partire dagli anni Settanta, quando prima gli Stati Uniti e poi tutto l’Occidente si rassegnarono a riconoscere il governo comunista di Pechino, togliendo il riconoscimento a Taiwan ed espellendola da organizzazioni internazionali come l’ONU.
A oggi Taiwan, che ha circa 24 milioni di abitanti, gode di una indipendenza de facto e le principali potenze economiche mondiali aderiscono alla cosiddetta “politica di una sola Cina”, secondo cui la Cina è una sola, comprende anche Taiwan ed è quella governata dal Partito comunista. I 15 paesi che ne riconoscono la sovranità sono quasi tutti stati molto piccoli (la Città del Vaticano, arcipelaghi del Pacifico o caraibici, l’africano eSwatini) fatta eccezione per una serie di paesi latinoamericani: l’Honduras, il Guatemala, il Belize, il Nicaragua e il Paraguay.