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  • Giovedì 9 settembre 2021

Nelle città afghane le donne protestano, in campagna le cose sono più complicate

Fuori da Kabul e dai grandi centri, il ritiro degli americani e il ritorno dei talebani significa semplicemente la fine della guerra

Donne afghane a Kabul, nel 2011 (John Moore/Getty Images)
Donne afghane a Kabul, nel 2011 (John Moore/Getty Images)

Da quando i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, instaurando il loro nuovo regime, nelle principali città del paese si tengono quasi tutti i giorni forti proteste, molte delle quali organizzate da sole donne, che temono di perdere le libertà conquistate nel corso degli ultimi vent’anni sotto un regime che, tra il 1996 e il 2001, rese la vita delle donne praticamente impossibile. Le proteste frequentate soprattutto dalle donne sono state molto raccontate sui media, e a oggi sono il principale fenomeno di opposizione al regime talebano tra la popolazione afghana.

La situazione, però, è molto diversa nelle zone rurali dell’Afghanistan, dove la condizione delle donne non è cambiata in modo altrettanto evidente, e dove tutte le occupazioni – sia quella sovietica che quella americana – sono state caratterizzate da momenti di grande violenza, spesso contro i civili. Per le donne afghane che vivono nelle campagne, quindi, il ritorno dei talebani ha poco o nulla a che fare con i loro diritti, la cui conquista è percepita come qualcosa di abbastanza indipendente da chi governa il paese.

Le proteste contro il nuovo regime talebano, a cui hanno partecipato moltissime donne, sono cominciate nei primi giorni dopo la conquista di Kabul.

Già il 17 agosto, due giorni dopo che i talebani avevano preso Kabul, alcune donne si erano raccolte in un quartiere di Kabul per protestare contro il nuovo regime, chiedendo il rispetto dei loro diritti. Le proteste sono poi continuate, quotidianamente, con risposte molto violente da parte dei talebani, che hanno provocato anche dei morti.

Le donne hanno continuato a riunirsi e a protestare: «non rinunceremo al nostro diritto allo studio, al lavoro, alla partecipazione sociale e politica», ha detto l’attivista Fariha Esar durante una protesta del 20 agosto. Le proteste hanno coinvolto anche altre città oltre a Kabul: a Herat, che è una delle città più liberali dell’attuale Afghanistan, decine di donne hanno marciato per le strade con megafoni e cartelli, in una delle manifestazioni più significative fino a quel momento, annunciando la loro intenzione di diffondere la protesta in tutte e 34 le province del paese.

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Le donne afghane hanno continuato a protestare, per due giorni consecutivi, anche dopo la presentazione del nuovo governo da parte dei talebani (naturalmente composto da soli uomini). Anche in questo caso, i talebani hanno risposto alle proteste con violenza. Ma le donne afghane hanno continuato a protestare: «Non ho paura», ha detto una di loro a BBC, «continuerò a protestare ancora, ancora e ancora, fino alla morte: meglio morire all’improvviso che farlo gradualmente».

Le proteste sono state così significative che, non riuscendo più a gestirle, i talebani le hanno poi vietate: è stata la loro prima ordinanza da nuovi governanti dell’Afghanistan, seguita da un altro divieto: quello, per le donne, di fare sport.

Nelle proteste delle donne afghane contro il nuovo regime ha avuto un ruolo importante anche RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), il gruppo autorganizzato impegnato da quarant’anni nella lotta per i diritti delle donne in Afghanistan. In un’intervista al Manifesto pubblicata qualche giorno dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, RAWA ha detto che le donne del movimento non vogliono fuggire, ma «rimanere e lottare contro il regime». Le donne di RAWA hanno espresso anche in altre occasioni la loro volontà di continuare a resistere e a lottare per i diritti loro e di tutte le donne afghane, chiedendo a chi sta fuori dall’Afghanistan di non riconoscere il regime dei talebani.

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Le proteste delle donne afghane nelle città, però, non sono state accompagnate da reazioni simili nelle campagne, dove vive più del 70 per cento della popolazione afghana. L’Afghanistan rurale è infatti molto diverso da quello urbano, e ha vissuto molto diversamente anche gli ultimi vent’anni di occupazione americana.

Lo ha raccontato in un lungo articolo pubblicato sul New Yorker il giornalista ed esperto di Medio Oriente Anand Gopal, che ha trascorso mesi nella provincia di Helmand, nel sud-ovest dell’Afghanistan, dove la presenza dei talebani era molto forte anche prima dell’offensiva militare di quest’estate, intervistando decine di donne afghane. Non è stato semplice: nelle campagne le donne afghane vivono soprattutto dentro casa, e non parlano volentieri con gli estranei. La divisione tra il pubblico e il privato è molto netta, e Gopal è riuscito a parlare con loro soprattutto grazie alle donne più anziane, che lo hanno accompagnato e presentato alle altre donne. Ne ha intervistate molte, spesso senza vederle in faccia.

Il suo racconto è molto utile per cercare di capire cosa sta succedendo e come viene vissuto il nuovo regime anche in zone meno raccontate dai giornali o sui social network, e per evitare di ricondurre l’Afghanistan di questi giorni a una sola immagine.

Un’immagine dell’Afghanistan rurale (Spencer Platt/Getty Images)

Nelle campagne, l’instaurazione del nuovo regime dei talebani non ha destato l’indignazione e il malcontento che ha caratterizzato le città, né le donne intervistate da Gopal hanno intenzione di lasciare il paese. Per capire come questo sia possibile, è importante sapere che l’Afghanistan rurale ha vissuto l’occupazione sovietica e quella americana, così come il passato regime talebano, in modo molto diverso dalle città.

Gopal parla di un Afghanistan «sostanzialmente diviso in due»: se nelle città l’occupazione sovietica e quella americana hanno spesso portato – sebbene con problemi e molte inadeguatezze – diritti e prosperità, nelle campagne hanno portato più che altro violenza, spesso contro i civili. Nelle città, il regime talebano è stato vissuto come un inferno; nelle campagne, come un momento di pace.

Le donne intervistate da Gopal, per esempio, raccontano di come, durante l’occupazione sovietica, i tentativi di mandare le ragazze a scuola furono improvvisi, inaspettati, e percepiti come qualcosa di imposto dall’esterno e completamente diverso rispetto a quanto era sempre stato fatto, anche dalle stesse donne. Quei tentativi, racconta una di loro, provocarono solo violenza tra chi voleva liberare le donne e chi si opponeva a quella liberazione.

All’occupazione sovietica seguì una sanguinosa guerra civile tra i mujaheddin islamisti e il governo afghano, raccontata dalle donne con immagini di cadaveri trasportati nelle campagne, stupri e uccisioni, suoni di spari e urla che arrivavano inaspettati durante le normali occupazioni quotidiane.

In un contesto come questo, quando nel 1996 i talebani (gruppo fondato nel 1994 dal mullah Omar, che aveva combattuto tra i mujaheddin) presero il potere e instaurarono il loro regime, nelle parole delle donne afghane ascoltate da Gopal arrivò più che altro la pace: il regime talebano veniva da loro giudicato alla luce di quanto era accaduto prima più che sulla base di qualche principio universale di giustizia e rispetto dei diritti umani. Soprattutto, la loro vita non cambiò granché, se non nella misura in cui smisero di sentire spari e di subire incursioni notturne in casa da parte di stranieri che cercavano il nemico. Tornarono le mattine in cui si poteva fare colazione senza aver paura, dicono alcune di loro, e le sere d’estate in cui si poteva stare sul tetto di casa senza rischiare la vita.

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Nelle campagne, le donne afghane hanno vissuto quindi molto male anche l’occupazione americana, che per loro ha significato più che altro una nuova ripresa delle violenze e della guerra civile. Per molte di loro, l’immagine del male non corrispondeva tanto ai talebani quanto ai comandanti dell’esercito afghano e ai soldati americani che perlustravano le campagne, casa per casa, cercando i talebani, e a volte uccidendo civili sospettati di esserlo, o portandoli in prigione.

Le donne raccontano anche che erano i talebani, spesso, ad avvisare la popolazione locale degli attacchi e dei conflitti imminenti, consigliando di chiudersi in casa, di non transitare per le strade, o chiudendo il traffico ai civili quando dovevano attaccare un veicolo militare americano. Gli americani, invece, non lo facevano, e ogni volta che moriva un civile l’indignazione verso di loro cresceva, anche nelle donne, che raccontano le morti improvvise di bambini che giocavano o dormivano, di mariti o parenti uccisi da un drone mentre partecipavano a un funerale.

Non stupisce, quindi, che i rapporti del governo americano parlassero di una percezione «sfavorevole» delle forze di coalizione da parte della popolazione locale. Per alcune donne che vivevano nelle campagne, gli stessi programmi di istruzione venivano percepiti come un’imposizione di valori occidentali.

La punta del fucile di un soldato americano che perlustra una campagna afghana da un elicottero, nel 2009 (Chris Hondros/Getty Images)

Quando pensiamo a come le donne afghane che vivono nelle campagne stiano vivendo l’instaurazione del nuovo regime talebano, è importante avere in mente tutto questo. Per molte di loro – che in questi vent’anni non sono andate all’università, non hanno viaggiato, non sono diventate giornaliste, politiche o diplomatiche, non hanno vissuto in città che crescevano e si trasformavano – la fine dell’occupazione americana e il ritorno dei talebani significa semplicemente la conclusione della guerra.

Una casa afghana distrutta da un attacco aereo nella provincia di Helmand (AP Photo/Abdul Khaliq)

Durante il suo viaggio, Anand Gopal ha visitato diversi villaggi e paesi della provincia di Helmand. Le donne con cui ha parlato subiscono le stesse prevaricazioni di prima – una di loro, per esempio, è stata picchiata perché è andata al mercato da sola, a comprare dei biscotti – ma senza carri armati, attacchi aerei e altre violenze nei dintorni. «Se ci ubbidisci, non ti uccideremo» è il semplice accordo con cui i talebani gestiscono ora molti di quei luoghi.

Gopal, comunque, ha chiesto alle donne che ha incontrato che cosa pensassero della disparità con cui sono trattate rispetto agli uomini. La loro risposta, diversamente da quanto sarebbe accaduto in città, non è stata compatta.

Alcune di loro hanno risposto polemizzando sul fatto che mentre alle donne di Kabul venivano dati dei diritti, le donne in campagna venivano uccise. Altre hanno difeso le regole esistenti, dicendo che le donne e gli uomini non sono uguali, che hanno ruoli diversi, e che questi ruoli vanno rispettati, e preservati. Una di loro ha detto che ha pensato tante volte di lasciare suo marito, ma che per lei sarebbe stata una rovina economica e sociale: «Troppa libertà è pericolosa», ha detto.

Altre, infine, hanno detto che vorrebbero che le regole cambiassero, che fosse permesso loro di andare liberamente al mercato, o a fare un picnic. Tutte, però, concordano sul fatto che il cambiamento non può essere imposto. Alcune di loro pensano che lo strumento per acquisire diritti risieda proprio nella religione islamica: «I talebani dicono che le donne non possono uscire, ma non esiste nessuna regola del genere nella religione islamica», dice una di loro. «Col capo coperto, dovremmo poter andare dove vogliamo».

Una di loro – si chiama Shakira, ed era molto sorpresa quando ha scoperto di chiamarsi come una famosa popstar occidentale – non ha mai smesso di leggere. Una sura alla volta sta traducendo il Corano in pashtu, una delle lingue ufficiali dell’Afghanistan. Vive a Pan Killay, un villaggio che non si trova su Google Maps e in cui sono sepolti tutti i suoi avi e parenti. Sta insegnando a sua figlia a leggere, non ha nessuna intenzione di andarsene, e il suo sogno è che prima o poi aprano una scuola.

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