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  • Domenica 22 agosto 2021

L’ultima volta che governarono i talebani

La polizia religiosa, le punizioni pubbliche, l'impossibile vita per le donne: storie di un Afghanistan che potrebbe tornare

di Alessandra Pellegrini De Luca

Un talebano, nel 1997 (AP PHOTO/ZAHEERUDDIN ABDULLAH)
Un talebano, nel 1997 (AP PHOTO/ZAHEERUDDIN ABDULLAH)

Negli ultimi giorni sono emersi molti dubbi su come sarà il nuovo regime dei talebani in Afghanistan. I leader del gruppo hanno cercato di tranquillizzare i governi stranieri, mostrando una faccia più presentabile e facendo promesse di maggiore moderazione rispetto al passato. Lo scetticismo però è molto, soprattutto perché l’ultima volta che governarono l’Afghanistan i talebani imposero un regime estremamente autoritario e repressivo, con estesissime limitazioni alle libertà individuali, soprattutto quelle delle donne.

Carro armato presidiato dai talebani e decorato con molti fiori di fronte al palazzo presidenziale di Kabul, nel 1996 (AP Photo/ B.K.Bangash, File)

«Ai ladri verranno amputati mani e piedi, gli adulteri verranno ammazzati a sassate e chi beve alcol sarà frustato». Fu questo l’annuncio trasmesso il 28 settembre del 1996, il giorno dopo la presa di Kabul da parte dei talebani, da Radio Kabul, la principale emittente radiofonica dell’Afghanistan: Radio Kabul cambiò poi nome in Radio Sharia, con riferimento alla sharia, la “legge islamica”, che i talebani imposero nella sua forma più radicale.

I talebani si erano formati nel 1994 nelle madrasse (le scuole coraniche) della città di Kandahar e avevano raccolto seguaci promettendo di ripristinare la pace e la sicurezza dopo la lunga guerra combattuta contro i sovietici, che avevano occupato il paese dal 1978 al 1989. Conquistarono Kabul nel 1996 e rimasero al potere per cinque anni, fino al 2001, quando il loro regime fu rovesciato dall’intervento americano.

Nei cinque anni in cui governarono l’Afghanistan, i talebani misero in piedi una struttura di potere articolata, anche se il potere era sostanzialmente concentrato nelle mani del Mullah Omar, il leader dei talebani, che era assistito dalla Shura suprema, una specie di “consiglio di amministrazione” composto da una trentina di persone con ruoli sia politici che militari, che inviavano le direttive ai leader di medio e basso rango perché applicassero le regole decise ai vertici. L’economia del regime si basava soprattutto sulla ricchissima coltivazione afghana del papavero da oppio, in teoria vietata dai talebani ma continuata illegalmente per diverso tempo.

I talebani avevano creato anche squadre di “polizia religiosa”, parte di un’organizzazione nota come “Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”. Gli agenti pattugliavano le strade per verificare che tutti rispettassero le regole del regime, con piena discrezionalità rispetto a quando e come punire chi non lo faceva. Spesso erano punizioni arbitrarie, e spesso erano brutali.

Le regole erano molte, e coinvolgevano ogni aspetto della vita sociale. Per gli uomini c’era l’obbligo di farsi crescere la barba, per le donne quello di indossare il burqa.

Uomini e donne potevano frequentarsi solo se erano parenti tra loro. Erano ovviamente vietate le relazioni omosessuali, e anche tutte le forme di intrattenimento come musica, televisione e gioco. Era vietato per esempio giocare a scacchi, organizzare una partita di calcetto o ascoltare la musica in macchina mentre si guidava.

Larry Goodson, esperto di Medio Oriente, ha raccontato che nel 1997, su un autobus di Kabul, vide il conducente nascondere nel cruscotto tutte le sue cassette di musica pop: le ascoltava mentre viaggiava, per poi sostituirle con canti coranici ogni volta che si fermava vicino ai checkpoint della polizia.

Una famiglia afghana nel sud dell’Afghanistan (AP Photo/Anja Niedringhaus)

Il culto islamico fu in quegli anni fortissimo: i talebani resero obbligatorio il pagamento della zakat, una tassa religiosa per tutti i fedeli con un certo reddito, aprirono collegi religiosi per decine di migliaia di bambini, chiudendo tutti gli altri tipi di scuole e provocando alti tassi di analfabetismo.

Pochi osavano interrompere il digiuno durante il Ramadan, si pregava cinque volte al giorno in moschea e non c’era praticamente distinzione tra un leader religioso e un leader politico. A livello locale, erano molto spesso i mullah, cioè gli esperti di Islam, a raccogliere le tasse, applicare le regole del regime, risolvere le dispute e insegnare a scuola, diventando quindi esattori fiscali, politici, giudici e insegnanti.

Bambini afghani leggono il Corano in una madrassa (AP Photo/Rahmat Gul)

L’applicazione così radicale della legge religiosa e l’imposizione di un regime molto autoritario portarono a un profondo impoverimento culturale.

La cultura popolare – il cinema, i fumetti, la fotografia, la radio, la musica, la televisione – era vietata. Gli intellettuali venivano mal visti, molti erano scappati oppure erano stati uccisi. C’erano pochi giornali, prevalentemente allineati col regime. Gli artigiani lavoravano sempre meno, e sotto i dettami del regime. I creatori di tappeti, per esempio, dovettero sostituire le decorazioni tradizionali con simboli di guerra, come i kalashnikov.

Per chi non seguiva le regole, le punizioni erano brutali, e spesso pubbliche. Lo stadio di Kabul era stato trasformato in un luogo per le esecuzioni, in cui si lapidava o si sparava a chi aveva commesso delle infrazioni. Si tagliavano arti per crimini minori. Gli spalti erano spesso pieni di persone, anche bambini, portati ad assistere alle punizioni. A volte erano i parenti stessi dell’imputato a eseguire la condanna.

Ancora dopo anni dalla fine del regime talebano, molti afghani e molte afghane non vollero più tornare nello stadio, ormai considerato un luogo di orrore e morte.

Un bambino corre nello stadio di Kabul, pochi mesi dopo la cacciata dei talebani nel 2001 (Mario Tama/Getty Images)

Secondo la fotogiornalista americana Lynsey Addario, che documentò più volte la vita sotto il regime, l’Afghanistan talebano era caratterizzato soprattutto da un grande silenzio: in giro c’erano poche macchine, niente musica né televisione, poche chiacchiere per strada, perché regnava soprattutto una gran paura.

I talebani se ne vantavano, dicendo che erano riusciti a porre fine al disordine della guerra civile, dando finalmente stabilità, ordine e sicurezza all’ingovernabile Afghanistan: erano però più degli oppressori autoritari che degli abili politici, diversamente da quanto sostenevano loro.

A subire più di tutti il carattere repressivo del regime talebano furono le donne. Oltre a dover indossare il burqa, le donne non potevano andare a scuola dopo i 12 anni, non potevano lavorare fuori di casa, guidare bici, moto e auto, utilizzare cosmetici e gioielli, entrare in contatto con qualsiasi uomo che non fosse il marito o un parente. Le donne potevano uscire di casa solo in compagnia di un maharram (maschio guardiano): poteva anche essere un bambino piccolo, l’importante è che fosse un maschio.

Solo poche e selezionate operatrici sanitarie potevano lavorare fuori di casa, e solo perché i medici uomini non potevano trattare le pazienti donne a meno che non fossero loro parenti.

Una donna afghana cammina per strada accompagnata da un bambino (Majid Saeedi/Getty Images)

In un editto sui diritti delle donne del 1998, il Mullah Omar disse che il regime talebano voleva restituire alle donne la dignità che avevano perso, e un giornale talebano di quegli anni scrisse che le regole imposte alle donne erano una piena adesione ai diritti umani e delle donne: «proteggere l’onore e la dignità delle donne dalle luride occhiate dei guardoni», chiedeva retoricamente l’autore, «non è forse considerato rispetto dei diritti umani?»

Una donna in un negozio di burqa, a Kabul (AP Photo/Anja Niedringhaus, File)

Durante gli anni del regime talebano, le donne furono quasi inesistenti nello spazio pubblico, e questo ha influenzato molto il modo in cui le immaginiamo: se pensiamo alle donne afghane durante il regime talebano, ci vengono in mente sagome anonime, silenziose, passive, tutte uguali. Vittime, più che soggetti attivi. A documentare la loro condizione cercando di ritrarne anche gli spazi d’azione fu, tra gli altri, Lynsey Addario. Fotografare era vietato: Addario le fotografò di nascosto, approfittando dell’accesso che aveva a luoghi in cui gli uomini non potevano entrare.

Addario raccontò storie drammatiche, di ragazze che avevano tentato il suicidio o erano state costrette a sposare uomini anziani e invalidi, per poi essere punite e imprigionate quando chiedevano il divorzio. Ma raccontò anche di tante trasgressioni, spesso gioiose, come quando assistette, fotografandolo, a un matrimonio clandestino, con donne truccate e a volto scoperto che ballavano con amici uomini, ascoltando musica a tutto volume e rischiando la pubblica esecuzione.

C’erano anche scuole clandestine, e furono una delle forme di disobbedienza femminile più importanti durante il regime.

Dato che alle donne era praticamente vietato studiare, molte ex insegnanti (che avevano dovuto smettere di lavorare con l’arrivo dei talebani) organizzarono scuole autogestite, allestite precariamente in sotterranei di palazzi, oppure in casa. Alle lezioni, a volte, partecipavano anche le madri dei bambini che non avevano ricevuto un’istruzione, o le figlie degli stessi talebani. Le lezioni venivano organizzate a orari diversi, per evitare di insospettire la polizia talebana, e i libri venivano impacchettati in modo che sembrassero pacchi della spesa. Se i talebani facevano irruzione, si cominciava a pregare in coro fingendo di recitare il Corano. Non andava sempre bene.

Capitava anche che le donne protestassero contro il regime, pur sapendo di andare incontro alle violente punizioni della polizia talebana. Successe a ottobre del 1996, poco dopo l’instaurazione del regime, quando più di 100 donne protestarono ad Harat contro la chiusura dei bagni pubblici. Furono picchiate e arrestate dalla polizia.

Esistevano, insomma, forme di resistenza, e la popolazione afghana che viveva durante il regime talebano non era completamente passiva e priva di autonomia. Come ha spiegato la studiosa Ashley Jackson, il regime si reggeva anche su continue negoziazioni con la popolazione civile: pur non condividendo le idee e i metodi del regime, gli afghani obbedivano in cambio di tutele o azioni, influenzando a loro volta le azioni del regime.

Un uomo afghano e sua figlia a Marjah, nel sud dell’Afghanistan (AP Photo/Anja Niedringhaus)

L’Afghanistan talebano, infine, era un Afghanistan povero e con una situazione assai carente anche dal punto di vista sanitario.

A Kabul nel 1998 due terzi della popolazione viveva grazie ad aiuti umanitari e l’accesso ai servizi sanitari coinvolgeva solo una piccola percentuale della popolazione, ancora meno le donne. Per loro, la speranza di vita era di 43-44 anni (negli stessi anni, in Italia era circa 80 anni, quindi quasi il doppio). La mortalità infantile era altissima. Solo il 6% delle nascite avveniva sotto la supervisione di un’ostetrica, ed era frequente che le madri morissero partorendo.

Un articolo della rivista scientifica The Lancet raccontò di circa 80 pazienti ricoverate in ospedale che vennero mandate a casa perché il loro onore non poteva essere preservato in un ambiente affollato come quello di una clinica.

Capitava spesso che le donne che uscivano di casa per andare dal medico venissero picchiate dalla polizia talebana. È quello che successe a Shukriya Barakzai, oggi diplomatica e politica afghana. Nel 1999, Shukriya stava male e aveva bisogno di un medico, ma suo marito era al lavoro e lei non aveva figli maschi. Decise così di rasare il capo di sua figlia piccola e di vestirla come un maschio, infilandosi nel burqa e uscendo di casa. Sulla via del ritorno, Shukriya e la figlia vennero avvicinate da una camionetta di poliziotti, e lei fu colpita a frustate.

Fu dopo quell’episodio che Shukriya decise di darsi all’attivismo, e in seguito alla politica: cominciò a organizzare lezioni clandestine per le bambine e le ragazze afghane nel palazzo fatiscente in cui viveva, e divenne poi una nota giornalista e fu eletta al parlamento afghano.

Shukriya Barakzai nel 2005, in un incontro con alcuni operai durante la campagna elettorale (AP Photo/Tomas Munita, File)

Le sue tre figlie fanno parte di una generazione di afghani che non ha mai vissuto sotto il regime. Una generazione di donne che in questi anni ha studiato e viaggiato, ricoperto ruoli nell’esercito e nelle forze dell’ordine, avuto cariche politichepartecipato alle Olimpiadi, che si è creata una carriera nella scienza, nella medicina, nel cinema, nel giornalismo. Anche i giovani afghani sono cresciuti in un paese che non considerava la parità di genere un crimine. Ed è soprattutto a loro, sia donne che uomini, che i talebani non piacciono.

Una poliziotta afghana durante un incontro di formazione a Kabul, nel 2008 (Paula Bronstein/Getty Images)